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Autore: S_EntreLesLines    20/09/2014    8 recensioni
La mamma di Forrest Gump aveva detto che la vita era come una scatola di cioccolatini, non sai mai quale ti capiterà, e non aveva tutti i torti: io ero entrato in un negozietto inglobato nella grande New York deciso a comprare dei brownies, e ne ero uscito con della torta al cioccolato e dei macarons. E con la prospettiva di cariarmi tutti i denti. Questo perché spesso siamo certi che ciò che desideriamo sia ciò che ci serve, ma forse non è ciò di cui abbiamo bisogno.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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A chi c'è, crede, capisce e consiglia. 
Grazie, again.


 


SUGAR DUST
 


-To buy the truth and sell a lie-
 


A volte basta poco per dare una svolta alla propria giornata, non è necessario che succeda chissà quale cosa per cambiare drasticamente il corso delle nostre vite. È tutta una questione di coincidenze, di piccoli frammenti sparsi che il destino decide di fare avvicinare con un semplice soffio di vento. Un po’ come le gocce di mercurio che si fagocitano vicendevolmente quando il termometro si rompe: le nostre vite, viste da fuori, possono apparire come quel mercurio. Affascinanti, misteriose, attraenti, perfette.
Ed è la stessa cosa che pensiamo quando passiamo davanti ad una vetrina: tutto è disposto in maniera studiata per invogliarti a entrare nel negozio ed acquistare quanti più prodotti possibili; non importa se siano vestiti, cellulari, cose inutili o altro. Non ha importanza che ti servano o meno, ma ciò che conta in quel momento è che diventino tuoi: perché qualcuno li ha disposti appositamente per fotterti il portafoglio inducendoti a pensare che la tua vita possa essere migliore se solo acquisterai quella cosa.
Ed io quel giorno ero certo che la mia vita sarebbe stata più bella se solo avessi messo piede in quel piccolo negozio da cui proveniva un profumo di dolci da farmi borbottare lo stomaco. Ci ero passato davanti decine di volte, nelle ultime settimane, da quando avevo deciso di ritagliarmi del tempo per me stesso trasferendomi in un appartamento di New York. Los Angeles era diventata troppo piccola e troppo rumorosa ed io avevo bisogno di crogiolarmi in un silenzio assordante: avevo bisogno di confondermi tra la gente come se non fossi nessuno di particolare, ma uno tra tanti. Un John Doe che si era trasferito a Tribeca dalla California. Tutto qua. Avevo bisogno dei miei spazi, dei miei tempi e dei miei ritmi. E del mio silenzio. Era paradossale che un batterista necessitasse della quiete, ma  avevo sempre pensato che questa fosse la forma più assordante di caos. Un buco nero, l’occhio del ciclone. E tutto ciò mi rendeva facile entrare in contatto con la parte di me stesso che era fatta di vibrazioni e rullate, permettendomi di distinguere ciò che mi serviva. Per tutto. Non solo per la musica.
«Arrivo!». Una voce mi raggiunse dal retro del piccolo negozio, così ne approfittai per guardarmi attorno: una stanza di cinquanta metri quadrati racchiudeva una quantità di dolci che avrebbe alzato la glicemia di un elefante. «Eccomi, buongiorno».
«Ciao, volevo dei brownies…li ho visti in vetrina».
«Uhm…no». La ragazza aveva scosso la testa, storcendo le labbra. «Niente brownies oggi…quelli sono decorativi». Evidentemente aveva notato la mia espressione delusa e prossima alla depressione. «Però ho appena sfornato una torta al cioccolato da far rimpiangere i soldi spesi dal dentista». Sorrise, mostrandomi la dentatura bianca e regolare.
«Non è un bel biglietto da visita, considerato che i tuoi denti dicono tutto il contrario» le feci notare.
«Devo fare buona impressione con la clientela, come pensi spenda tutti i soldi che guadagno? Dentisti, igienisti dentali, sbiancamenti…collutorio…. Allora? Ti ho convinto?».
«Avrei un’osservazione da fare, a dire il vero». Mi appoggiai al bancone in vetro, scrutando i barattoli di zucchero colorato disposti sulle mensole alle spalle della ragazza, che si avvicinò appoggiando a sua volta i gomiti sul piano trasparente.
«Sei uno di quelli, immagino».
«Uno di quelli?».
Sospirò, sollevando le spalle. «Mi dispiace, ma il Magnolia Bakery più vicino è in Bleecker Street». Mi studiò divertita.
«Ma io voglio i brownies» dissi. «E non è corretto e onesto metterli in vetrina e poi non averli disponibili al banco. È una truffa».
«Come mi dispiace». Incrociò le braccia al petto, scuotendo il capo. «Mettiamola così…». Si appoggiò di nuovo al banco. «Li ho finiti perché erano talmente buoni che sono andati a ruba…va meglio?».
«No. Un po’». Misi il broncio. «Ok, è una storia credibile».
Fece un cenno soddisfatto con il capo. «Bene, quindi immagino prenderai la torta al cioccolato».
«E uno di quelli». Indicai un piccolo vassoio di macarons. «Li porto via. Porto via tutto, anche la torta».
Sollevò lo sguardo mentre ripiegava gli angoli di una confezione di cartone. «Sarebbe stato preoccupante se ti fossi mangiato tutta questa roba seduta stante, a meno che tu non…beh, magari sei depresso…succede».
«Non sono depresso».
Mi guardò di nuovo. «Non preoccuparti, i casi umani passano sempre di qua…sai…lo zucchero cambia il gusto alle giornate».
«Non lo metto in dubbio, ma io sono solo goloso. E il profumo che esce dal tuo negozio è una strategia di marketing ben studiata…come i brownies in vetrina. Peccato che siano un’inculata pubblicitaria».
«Lo so, ma cosa vuoi…non posso essere perfetta». Chiuse la confezione e me la porse sopra al banco. «Sono 23 dollari, grazie» sorrise candidamente.
«Cosa nascondi di là, una gallina dalle uova d’oro, per questi peccati di gola? Mi aspetto uno sconto per la mancanza dei brownies». Tirai fuori il portafogli, ostentando sdegno. «O, se non altro, uno sconto simpatia». Insieme al portafogli, sfoderai anche il mio miglior sorriso sghembo. «Sono Shannon, comunque».
«Ciao Shannon, io sono Melissa e lo sconto è già incluso». Ricambiò il mio sorriso, prendendo la banconota da 50 dollari per poi porgermene tre da dieci. «Buona giornata».
Mi soffermai a guardarla per un paio di secondi e uscii. La mamma di Forrest Gump aveva detto che la vita era come una scatola di cioccolatini, non sai mai quale ti capiterà, e non aveva tutti i torti: io ero entrato in un negozietto inglobato nella grande New York deciso a comprare dei brownies, e ne ero uscito con della torta al cioccolato e dei macarons. E con la prospettiva di cariarmi tutti i denti. Questo perché spesso siamo certi che ciò che desideriamo sia ciò che ci serve, ma forse non è ciò di cui abbiamo bisogno. Non sapevo che quel pomeriggio avrebbe nevicato e che mi sarei seduto sul davanzale della finestra con una tazza di the in mano, facendo fuori l’intero cabaret di macarons. Ero certo che i brownies sarebbero stati abbastanza. Quindi credo sia anche vero che il destino abbia più fantasia di noi, così come la teoria del soffio di vento che avvicina frammenti che mai avremmo pensato avrebbero potuto combaciare.
 
C’era ancora la torta al cioccolato, una fetta l’avrei mangiata per colazione la mattina dopo, l’altra me la tenevo da parte per il dopo cena. Quindi avevo ponderato il menù della mia serata così da concludere in bellezza: un risotto ai porri e un bicchiere di vino bianco. E poi la torta, che sarebbe stata perfetta con un sorso del rhum che avevo comprato qualche giorno prima. La tavola era apparecchiata, ci tenevo a ritagliarmi dei momenti da perfetto single, tanto che nemmeno Hannibal Lecter avrebbe potuto ricreare un’atmosfera tanto perfetta per una delle sue cene. Certo, il paragone era alquanto splatter, ma se non altro era un uomo di classe –innegabile il contrario-. Dunque: risotto, vino bianco, torta al cioccolato, rhum, neve che ancora fioccava fuori dalla finestra…misi l’iPod nello stereo e selezionai la playlist dei Nine Inch Nails, limitando il volume. Anche se la cosa mi castrava, in un certo senso. A metà risotto, il campanello mi costrinse ad alzarmi per andare ad aprire.
«Ciao, scusa il disturbo…ma sono nel bel mezzo di un’emergenza». La ragazza castana ferma sul pianerottolo gesticolava, spostando nell’aria il piatto che teneva in mano. «Avresti dello zucchero?».
Mi appoggiai allo stipite della porta, abbassando il capo. «Ma tu…non sei quella del negozio di dolci?». Le puntai l’indice contro, ridendo. «Giusto?».
Sollevò il mento, annuendo. «Quello dei brownies…era buona la torta al cioccolato? I denti ci sono ancora tutti, vedo».
«La preservo per il dopo cena. Comunque, lo zucchero? Stai scherzando?».
«No, e spero tu ne abbia di canna».
«Non ne sono certo, ma forse…». Mi diressi verso la cucina. «…Melissa, giusto? Entra». Aprii gli sportelli cercando lo zucchero. «Mi sono trasferito da un paio di settimane…non ho ancora preso familiarità con l’ambiente».
«Che bella casa…».
«Ecco». Appoggiai la confezione di zucchero di canna sul ripiano della cucina, accanto al piatto che Melissa teneva in mano poco prima. «È per me?». Inarcai un sopracciglio, indicandolo.
«Era per l’anima compassionevole che mi avrebbe dato lo zucchero, ma adesso credo che mi toccherà sorbirmi una filippica in merito alle strategie di marketing». Socchiusi le palpebre. «Non giudicare, conta il pensiero». Sollevò la carta stagnola e mi offrì un’espressione fiera.
«E così ricicli gli avanzi, complimenti».
«Non potevo presentarmi a mani vuote, sai…regole del buon vicinato». Studiai i brownies adagiati sul piatto di porcellana. «Sono commestibili, non temere».
«Non temo, sono temerario».
«Che dialettica, complimenti» mi canzonò, prendendo lo zucchero e andando verso la porta. «Grazie» disse, sollevando il pacchetto.
«Detto da una pasticcera che resta a corto di zucchero…». Mi rigirai un brownie tra le dita. «Melissa?».
«Shannon» sorrise, indugiando sull’uscio.
«Il piatto…dove te lo riporto?».
«Appartamento 90, o in negozio…’notte».
Era stato un caso aver desiderato quei brownies, prendere la torta al cioccolato e restare a casa per cena, affittare quell’appartamento al 4 di Leonard Street, tenere basso il volume della musica e sentire il campanello? O il caso era stato lasciare che Jared comprasse lo zucchero di canna in un tentativo di infliggermi una delle sue manie, nei pochi giorni in cui si era fermato per aiutarmi a sistemare alcuni mobili? Qual era la matrice di quel caso?
Me lo sto chiedendo ancora adesso, non riuscendo a trovare risposte che soddisfino il mio bisogno di capire. Perché tutto sembra avere un senso: il palazzo al 4 di Leonard Street, l’appartamento 90 e New York tempestata di neve come fosse una pioggia di zucchero.
E quella neve non se ne era andata il giorno successivo, e nemmeno quello dopo ancora: l’inverno a New York era gelido, le strade bianche e brulicanti di persone. Ed io mi sentivo finalmente il John Doe che tanto avevo bisogno di essere, anche se con un paio di chili in più di quando ero arrivato: riportare il piatto a casa di Melissa si era rivelata una scelta da kamikaze, non avevo idea di quali devastanti cose potesse contenere quell’appartamento.
Avevo sentito di nuovo la sua voce urlare che sarebbe venuta ad aprire, e poi la porta si era aperta mostrandomi un appartamento molto diverso dal mio: parquet scuro e grezzo, mobili colorati, un che di caotico nell’aria e un profumo di cannella da farmi venire voglia di rotolarmi nella neve e poi scaldarmi davanti al camino.
«Il piatto» dissi. «Ma non sono qui per restituirtelo, solo per riempirlo con qualche altra cosa che comporti un precoce utilizzo della dentiera».
La sua risata riempì il corridoio del palazzo. «Entra».
«Wow, sono nel covo del mio pusher di fiducia».
«Ti fai di zucchero, eh?». Mi puntò contro un mestolo. «Toh». Mi allungò un biscotto. «Mele, zenzero e cannella».
«Niente di cioccolatoso?». Tuttavia addentai quella cosa che sapeva tanto di Natale. «Oh mio…uhmmm…è da orgasmo…sul serio». Ne presi un altro, mentre Melissa si lavava le mani. «Tu». La indicai. «Tu sei una pusher di orgasmi».
Sollevò le sopracciglia. «E mi basta solo sbattere le uova».
«Pensavo usassi le fruste».
E fu in quel momento che la guardai per la prima volta. Sì, l’avevo guardata ma non l’avevo vista. Non avevo fatto caso a lei in negozio o nella cucina di casa mia. Non mi ero realmente soffermato sui dettagli del suo viso. Aveva gli occhi di un colore indefinito tra il verde e il castano, un po’ come i miei, e le ciglia lunghe e folte che ne incorniciavano il taglio felino. Aveva degli occhi immensi.
«Allora, Shannon…sei nuovo a New York?». Mi lanciò un’occhiata mentre passava la spugna sul lavello.
«Uhm». Ero al terzo biscotto.
«California…o qualcosa di simile».
«Los Angeles. E tu?».
Sciacquò la spugna e ne approfittai per addentare il quarto. «Tribeca, Manhattan, New York City. Prego, serviti pure eh…» mi sorrise. «Come mai sei venuto sull’East Coast?».
Aveva i capelli lunghi e mossi fino a metà schiena, sembravano onde di cioccolato. «Una pausa temporanea, giusto per sistemare un paio di faccende».
«E farti venire il diabete. Ti ho visto…sei al quinto».
«E tu, oltre ad avere gli occhi sul retro del cranio, come mai sforni dolci come una forsennata?».
Schioccò la lingua e si appoggiò a bordo del lavandino. «Mah…». Sospirò, increspando le labbra. «Perché i dolci sono adatti a qualsiasi momento della vita, voglio dire…se sei triste ti sfondi di cioccolata, se sei felice festeggi con un cupcake, se ti senti vuoto ti fai fuori un intero cabaret di macarons…e poi sono belli da vedere, alleggeriscono e colorano l’atmosfera».
«Quindi tu, tecnicamente, aiuti le persone…giusto?» ghignai.
«No, do loro solo ciò che credono le farà sentire meglio. Qualsiasi cosa significhi».
«Qualsiasi cosa significhi» ripetei. «Quindi mi hai dato la torta al cioccolato perché…?».
Alzò gli occhi al cielo. «Perché altrimenti avrei dovuto rifare la vetrina e non ne avevo voglia».
Battei le mani, ammirato. «Volevi rifilarmi la filosofia dello zucchero compagno di vita, eh?!».
«Ci ho provato» ammise, scoppiando a ridere. «Ma se non altro cerco di lasciare il segno…sui denti, sulla pancia…mi impegno, eh».
Sollevai un angolo della bocca. «Non ho dubbi».
 




 
 
-So don’t forget to breathe tonight-
 


A quel punto avevo smesso di chiedermi se fosse stata una simpatica combinazione di eventi a portarmi verso quella dipendenza dai dolci, dato che la mia vita a New York aveva preso una piega normale fatta di tante piccole abitudini che potevo permettermi ormai di chiamare quotidianità. C’erano le giornate piene in cui mi chiudevo nel mio guscio, isolato da tutto con le cuffie nelle orecchie e i pads della batteria elettronica davanti, i giorni in cui leggevo seduto sulla chaise long del salotto, i giorni in cui andavo in giro o mi trovavo con amici di passaggio. E in ognuno di questi giorni c’era una costante: Melissa. Era diventata una presenza che rendeva ogni cosa più calma, più serena: aveva questa capacità di mettere a proprio agio le persone e di regalare sorrisi spontanei e sinceri senza rendersene conto. Era una ragazza dolce, pacata, eppure non lesinava in battute e risposte al vetriolo. Ma la sua essenza era delicata, lo capivo dalle sue mani le cui dita lunghe e affusolate si muovevano a mezz’aria quando parlava o quando serviva i clienti. Lo capivo dalla passione con cui confezionava ogni singolo biscotto, e da come ascoltava le persone. Quindi, se non passavo a trovarla in negozio, ci vedevamo intorno all’ora di cena a casa mia o a casa sua: non era raro che mi tenesse da parte un paio di brownies o che si fermasse per bere una tazza di the. Non beveva caffè, anche questo sapevo di lei. A dire il vero sapevo molte cose, non era una di quelle persone che fanno mistero di loro stesse. Forse continuavo a non vederla, nonostante la guardassi. Notavo particolari che volte prima mi erano sfuggiti, eppure era come se fossi sempre indietro di una tessera per completare il puzzle.
Forse era questo che mi faceva sentire la voglia di trascorrere del tempo con lei: il non nascondersi dietro maschere inutili e il suo essere essenziale che rispecchiava un po’ la sua esteriorità, niente fronzoli, niente che potesse storpiare qualcosa che era già bello di per sé.
Mi era capitato di pensare a lei in modo diverso, immaginandomi come potessero essere morbide le sue labbra e che sapore avessero le sue dita, mi chiedevo se l’odore della sua pelle sarebbe stato più intenso se l’avessi annusato strusciando il viso sul suo collo. Me lo chiedevo e avevo paura di soffermarmi troppo sulle sue ciglia o su quegli occhi. Me lo chiedevo quando mi scansava dalla cucina con un colpo di fianchi, o quando spariva in camera per cambiarsi la maglia macchiata di marmellata. Mi chiedevo se quel corpo fosse come lo immaginavo, come traspariva da sotto i vestiti. E mi chiedevo tante altre cose, ma non volevo avere risposta perché Melissa era qualcosa di diverso e agli antipodi rispetto a ciò cui ero abituato.
«La tua pusher è qui!». Suonare il campanello e aspettare che l’altro aprisse era diventato un dispendio di energia, quindi avevamo preso l’abitudine di non chiudere a chiave.
«Ti fermi a cena? Filetto al pepe verde». Mi rigirai una presina tra le dita, leccandomi i baffi vedendo i caupcakes alla nocciola che aveva appoggiato sul tavolo. «E finocchi in insalata. Dillo che ti tento».
Scosse la testa, appoggiando il fianco al muro. «Sì, mi tenti in maniera vergognosa…».
«Lo so, non si può resistere al mio fascino. È una teoria scientifica, anzi no: un postulato, una legge matematica».
Versò il vino rosso nei calici e me ne porse uno, raggiungendomi ai fornelli. «Cosa, che sei la versione porno di Chef Tony?». Il modo in cui pronunciò quell’insinuazione, e il modo in cui mi guardò, anche se durò un istante talmente breve da farmi credere di aver immaginato tutto, mi diede come il permesso di provare a sfiorare quella delicatezza. Senza paura di infrangerla. Era come se mi avesse fatto capire che la scritta Fragile fosse solo frutto della mia immaginazione.
La guardai negli occhi, stupito dal modo in cui le sue labbra si piegassero in un sorriso e le sue guance arrossissero. «No, io sono la versione casalinga di Shannon. Devi smetterla di fare riferimenti sessuali in merito alla mia persona, ad associarmi al porno e usare termini come sbattere, venire, fruste».
I suoi occhi si spostavano dai miei alle mie labbra, in una danza che poteva definirsi un tango con tanto di musiche di Astor Piazzolla in sottofondo. «Credi ti stia molestando?».
«Decisamente». Annuii, sorridendo. «Ma mi offenderei se decidessi di smettere, anzi…da gentiluomo vorrei poter ricambiare».
Forse quello era uno dei silenzi più rumorosi cui avevo assistito, fatto di suoni e movimenti che creavano un frastuono assurdo: il ticchettio dell’orologio, l’alzarsi e l’abbassarsi del torace di Melissa che sembrava incapace di reagire, il mio bicchiere appoggiato sul piano di marmo della cucina e poi il suo, sfilato alle sue dita dalle mie, e quindi il fruscio delle mie dita tra i suoi capelli e il sospiro sfuggito dalle sue labbra. «Queste sono molestie pesanti».
«E non hai ancora visto niente». Sollevai le sopracciglia e mi avvicinai di più a lei, sfiorandole il petto con il mio, e mi avvicinai alle sue labbra. «Ho paura di farti male». Non so come mi uscirono quelle parole, perché le dissi e perché provassi ancora, nonostante quella che mi era sembrata una rassicurazione, il timore di toccarla.
«Potrei essere io a fartene». Le nostre labbra si sfioravano nel momento in cui si muovevano per parlare: un contatto leggero, percettibile e ancora lontano che forse stavo solo immaginando.
«Credi che un bacio abbia tanto potere?». In quell’istante appoggiò le mani sulle mie spalle, allungandole poi per accarezzarmi la nuca.
«Non lo so, dipende dall’importanza che gli si da». Arricciò il naso. «Si sta bruciando la carne».
«Cazzo!». Mi fiondai verso il fornello per spegnere il fuoco. «Mi hai distratto, come minimo mi devi una…dove vai?».
«Scusa, ci vediamo domani…’notte».
 
A volte mai diresti che una persona sia diversa da come immagini che sia. Perché non puoi sapere cosa celi dentro di sé e quanto impegno ci metta per far sì che niente di ciò trapeli e sia visibile all’esterno.
Nel mio caso ci sono cose che tolgono ogni dubbio su ciò che nascondo, cose che posso solo cercare di coprire più per me stessa che per gli altri: perché è per questo motivo che tendiamo a nascondere ciò che è scomodo…per noi stessi. Lo nascondiamo ai nostri occhi, perché se siamo noi a non vedere e a dimenticare, così non lo vedrà nessun altro. Non ho idea di come in psicologia sia definito questo processo, a dire il vero avrebbe potuto interessarmi in passato, ma adesso non ne trovo l’utilità. Perché mi chiedo se abbia senso intraprendere un lavoro su se stessi quando ormai sai la tua data di scadenza: siamo così, no? Un prodotto confezionato, marchiato a inchiostro simpatico con data e numeri che stanno a indicare il momento in cui taglierai il traguardo. Più che un traguardo, lo considero la fine dello scorrere dei titoli di coda del tuo Truman Show personale.
Se sono arrabbiata? No…perché dovrei? Perché sprecare energie per avercela con qualcuno o qualcosa che non credo abbia responsabilità per quella che è la mia vita. Non è tutto conseguenza di una serie di coincidenze fortuite o meno? Ormai non so nemmeno io se sia così, o se sia solo la spiegazione più vaga che riesco a dare a me stessa per smettere di sperare. Per mettere a tacere l’entusiasmo. Per limitare le prospettive non oltre la mia data di scadenza.
Non sono una persona che si lascia trasportare dal mare del vittimismo e della commiserazione, tutt’altro, io credo nelle mie scelte e nelle cose belle. A volte però questo non è abbastanza per tenere lontane quelle che fanno male, a volte lo zucchero non basta a mandare giù la pillola. Però può essere un buon palliativo, può aiutare a distogliere l’attenzione dal reale sapore delle cose.
E poi la pietà delle persone non la voglio, perché sono determinata a non cambiare una virgola di ciò che sono sempre stata. Perché scombinare l’equilibrio delle cose per il tempo restante alla fine della corsa? No. Non voglio diventare la protagonista della vita di qualcuno che non ha chiesto di essere parte della mia. Le tragedie non mi sono mai piaciute, preferisco rilassarmi e godermi lo spettacolo da spettatrice…o al massimo da comparsa fugace e insignificante. Contribuire senza fare la differenza, senza essere essenziale, come una figura qualsiasi che si muove sullo sfondo. Il mondo è pieno di persone così, che vivono senza fare fatica, ed io voglio solo non essere responsabile di scompiglio nella vita altrui.
 Mi sono sempre piaciute le sale d’attesa, l’osservare le persone e chiedermi chi siano e cosa facciano. Dare loro un nome e una storia, certamente migliore di quella che hanno già. E voglio mantenere l’illusione, nel caso qualcuno si chieda chi io sia. Cosa io faccia. Cosa io pensi. Come stia. Preferisco che lui pensi che me ne sia andata da casa sua per non rovinare la nostra amicizia, o semplicemente perché ho visto troppi film e volevo anch’io la mia uscita a effetto…chi non la vorrebbe? Io so già quando la farò, quando il trucco verrà svelato. E tutto ciò che desidero è non coinvolgere persone ignare nel mio piccolo teatrino. Su questo non posso mentire, di questo non posso lamentarmi: sono una privilegiata che avrà un finale col botto.
Quando Shannon è entrato nel mio negozio, non avevo dato alcun bado a lui considerandolo uno dei tanti clienti che passano di lì; quando ho elemosinato dello zucchero suonando il campanello del suo appartamento, avevo pensato ad una banale fatalità. Quando ho cominciato a fare affidamento sulle nostre brevi chiacchierate, al fatto che sarebbe passato al negozio con un the caldo e la richiesta di qualcosa di cioccolatoso, ho iniziato ad avvertire i primi segnali di allarme. Non potevo. Non potevo guardarlo con gli occhi di chi vorrebbe qualcosa di più, o pensare a lui come se potesse essere parte della mia quotidianità. A me non è concesso, e non perché sia una scelta imposta da una qualche giuria o che: sono io a sapere di non potere, la giuria in questione è la mia coscienza. Non avrei potuto coinvolgermi e non avrei dovuto coinvolgere una persona nella mia vita, in cose che non sarei stata capace di gestire e di spiegare. C’era già tanto di cui preoccuparsi, tanto di cui mi preoccupo e che faccio finta non esista, e la sola idea di dover parlare di prospettive mi mette l’ansia.
Mi basta risollevare la giornata a qualcuno con una delle tante bombe caloriche che preparo nel mio negozio: se potessi scegliere la mia terapia, di certo la vorrei dolce e ingrassante, tanto da farmi aggiungere buchi alla cintura. Ed è l’ironia della sorte, perché quella che mi aspetta, per l’ennesima volta, non è dolce per niente…anzi, potremmo dire che è corrosiva. Tossica. Chiodo schiaccia chiodo, no?
C’è una cosa che si chiama remissione e nel mio caso specifico era parziale. Significa che le cose stavano andando bene, che c’era una risposta al trattamento e che tutto sommato ero in una situazione di standby. Però,  per una qualche coincidenza che devo ancora comprendere, per un motivo o per l’altro, la giostra può ricominciare a girare e la remissione non esiste più. Ricomincia il giro, la routine, la paura. Ricomincia tutto quello che avevi osato dimenticare, perché finalmente stavi bene.
Non ne faccio colpa a nessuno, non sono arrabbiata con Dio per il mio linfoma –sì, si chiama così, anche se spesso lo chiamo “stronzo”- dato che ormai siamo amici da circa tre anni e di momenti come questi ne abbiamo passati diverse volte: si addormenta, poi si sveglia, io vomito, sto di merda, arranco, ma poi si assopisce di nuovo. Ecco, diciamo che mi fa compagnia, che è un compagno silente che ben si presta agli insulti e agli improperi. Lo odio. Lo odio, perché mi impedisce di essere libera di non sentirmi in colpa per l’essere spensierata. Perché questa è la mia quotidianità. E me ne ero dimenticata quando Shannon è diventato una costante…una rassicurazione, una certezza. Una persona con cui sentirmi normale, una Jane Doe qualunque con le dita impiastricciate di zucchero.
È stato difficile ricordarmi di non esserlo, quando mi si prospettava una cena e forse qualcosa di più: una serata che è umanamente normale sperare, su cui ho osato fantasticare e che mi ha fatta sentire bene. Felice. Nervosa. Agitata. Come se potesse essere un inizio. E la cosa che mi fa ridere è che tutti vorrebbero sentirsi diversi e anch’io lo volevo…poi lo sei e vuoi solo essere come tutti gli altri. Che stronzata.
Avrei davvero voluto sapere quanto intenso fosse il suo profumo e bere quel bicchiere di vino rosso, cenare come due persone normali e flirtare come avrei fatto…come ho fatto in passato. Avrei voluto, ma poi lo avrei coinvolto. Avrebbe capito, avrebbe visto. Ho avuto paura che mi accarezzasse le spalle, il collo, che scendesse a sfiorare la mia pelle che non desiderava altro che il suo calore. Ma a quel punto il trench di lana sarebbe stato troppo sottile a coprire i segni, a coprire le vie di accesso al mio corpo. Lo chiamano catetere venoso, perché è da lì che cercano di posticipare la mia data di scadenza…e vorrei tanto posticiparla anch’io, vorrei tanto sapere come sarebbe continuata la serata e avrei davvero voluto sentirmi normale. Libera di restare lì, di svegliarmi con lui, di sapere cosa succede dopo la fine del libro. Ma con che coraggio avrei potuto illuderlo di avere a che fare con una come tante? Anzi, continuare ad illudere me stessa, prima di lui? Dio, aiutami…perché mi sento così vigliacca e falsa nel fingere che tutto ciò non sia niente di straordinario. Mi sento così in colpa a pensare a lui, a desiderare di incontrarlo per le scale o nell’aspettare che passi in negozio. Mi sento così sadica a sentirlo parte della mia quotidianità: non voglio che sappia, che si senta in dovere di starmi vicino…non voglio che mi guardi in modo diverso.
Perché non voglio che mi guardi come guarderebbe Melissa…quella con il linfoma, quella che ha scoperto di non essere più in remissione. Voglio che veda solo Melissa, quella che ha il negozio di dolci in fondo alla strada e che abita nel suo palazzo. Tutto qua. Ed io non voglio guardarlo chiedendomi quanto potrebbe confortarmi un suo abbraccio, perché credo che i suoi abbracci siano speciali, siano quelli che ti fanno davvero passare tutto quanto…non voglio illudermi che averlo al mio fianco potrebbe cambiare il sapore delle cose.
 




 
 
-The last mistake before you die-
 


Nevicava un sacco, nevicava sempre: ok, un po’ rimpiangevo il clima relativamente mite degli inverni di Los Angeles, ma non mi dispiaceva essere a New York. Avevo Melissa, che senza dire una parola di troppo si era scusata per avermi lasciato solo a cena qualche sera prima rifilandomi una crostata di mandorle e una tazza di cioccolata calda. Avevo capito che le piaceva esprimersi con questi piccoli gesti, considerando i dolci il mezzo migliore per dire cose che a parole forse sarebbero suonate strane. E mi piaceva, perché era essenziale. Ancora una volta mi ritrovavo a vederla con gli occhi di chi voleva scoprirla a ritmo lento, dettato dal suo stesso modo di svelarsi agli altri: sorridente e pacato, gentile, sincero.
Melissa era diversa, lo so…è uno di quegli stereotipi che fanno girare le palle quando letti o detti da qualche personaggio di un film. Lei è diversa, non puoi capire. Che banalità. E forse sì, Melissa era banale e scontata, perché non faceva niente di speciale per distinguersi dalla massa di persone. E suonerei imbarazzante se dicessi che tutto questo la rendeva speciale ai miei occhi. E invece no, non era speciale. Era semplicemente diversa. Era così perché credeva che il mondo non si accorgesse di lei, che io non sentissi il suo lento allontanarsi: era convinta di passare inosservata, visto l’impegno che ci metteva per essere come…trasparente. Era come se ciò che la riguardava non avesse importanza, come se ciò che faceva non avesse peso, come se non avesse rilievo parlare della sua giornata quanto più della mia. Lei era così, come un biscotto alla cannella in una sera piena di neve: ti dava calore, ti faceva sentire a casa, sorrideva con quegli occhi dolci e buoni e sembrava volerti dire che bastava tanto poco per essere felici. Lei lo era sempre. Ed io stavo cominciando a dipendere dalla sua serenità, dalla sua presenza, da lei.
Dopo quella sera le cose, a dire il vero, non erano cambiate granchè: ci vedevamo ancora, facevamo ancora parte l’uno delle giornate dell’altra, cenavamo insieme, non c’era stato alcun distacco. Ma nemmeno un avvicinamento fisico. Però si era intensificato il bisogno di sentire la presenza dell’altro: eravamo amici, eravamo fermi in attesa che un ulteriore soffio di vento ci avvicinasse ancora di più…e lo sapevamo entrambi. Ma Melissa sembrava come deglutire sonoramente ogni qualvolta la brezza spostasse anche solo di un millimetro una sua ciocca di capelli nella mia direzione. Era come se fosse combattuta, come se non aspettasse altro e come se considerasse tutto ciò come uno sbaglio.
«Mel!».
«Sei già qui? Ma il film non comincia alle nove?».
Appoggiai la giacca di pelle sulla spalliera del divano. «Sì, ma se usciamo adesso facciamo in tempo a prenderci un hot dog da qualche parte…o hai già cenato?». Da qualche settimana Melissa aveva cambiato il giorno di chiusura del negozio, spostandolo dal lunedì al venerdì, dicendo che preferiva tenersi libero l’intero weekend piuttosto che cominciare la settimana in ritardo. Non capivo che differenza facesse, dato che trascorreva l’intero fine settimana chiusa in casa a dormire. Quella sera, però, ero riuscito a convincerla ad andare a vedere un film a Broadway.
«Uhm…ok, dammi solo un secondo».
Raggiunsi la porta del bagno, da dove proveniva la sua voce mischiata al rumore dello spazzolino elettrico. «Come sei ottimista…» commentai, cogliendola ancora con i pantaloni del pigiama e la canottiera: i capelli raccolti e due occhiaie da spavento. I suoi occhi incrociarono i miei nello specchio illuminato dalla luce tenue della stanza, che accentuava il pallore del suo viso. Aggrottai la fronte, vedendo qualcosa pendere dalle spalline della canotta e in quel preciso istante il terrore passò dal suo sguardo al mio. Mi sentivo come se avessi invaso il suo spazio vitale, la sua privacy, come se fossi stato testimone di un qualcosa che non avrei dovuto vedere. Lo leggevo nelle sue iridi cerchiate di blu, nel semplice gesto del lavarsi i denti che stava a racchiudere qualcosa che non voleva sapessi. Mi sentivo in colpa, perché il suo sguardo era risoluto e deluso. Anche se non sapevo perché. «Mel» bisbigliai.
Chiuse il rubinetto e subito dopo la porta. «Dammi un secondo, arrivo».
«No».
E calò il silenzio, riempito solo dall’eco di quella sillaba uscita dalle mie labbra. C’era tensione, paura…avevo visto troppo e avevo troppe domande e supposizioni che mi balenavano per la mente. Melissa uscì dal bagno, imperturbabile, con addosso una maglia. «Mi infilo i jeans…» disse.
«Melissa». Mi ignorò, ma senza darlo a vedere. Era una ragazza qualunque che aveva poco preavviso per rendersi presentabile prima di uscire il sabato sera. «Non sono un medico, ma non sono stupido».
«Non penso tu lo sia». Senza degnarmi di uno sguardo si sfilò i pantaloni del pigiama per mettersi i jeans. In qualunque momento avrei desiderato assistere a quella scena, ma non in quello. Mi sedetti sul letto.
«Nel linguaggio dei dolci cosa consiglieresti per dire quello che a quanto pare non mi hai detto?».
Mi rivolse uno sguardo deluso. «Non dobbiamo parlarne, preferirei quell’hot dog di cui parlavi prima».
«A me è passata la fame». Senza volerlo continuavo a fissare il punto in cui sapevo esserci quei tubicini. Melissa se ne accorse e mi raggelò con un’occhiata che non le apparteneva. «Scusami». Lei annuì, lo sguardo fisso in un punto indefinito.
Restammo così: io seduto sul bordo del letto, lei in piedi con le braccia conserte a fissare il nulla. Muti e con così tante cose da dire, nella confusione più assoluta, e con la voglia di accendere quel fottutissimo interruttore che aveva mandato in blackout tutto quanto. Mi sembrava di essere finito in un film, che fosse tutto uno scherzo o un sogno dal quale non riuscivo a svegliarmi: ero cosciente eppure mi sentivo legato e imbavagliato.
«Puoi dirlo, se vuoi». La sua voce mi scosse dai miei pensieri.
La guardai e la vidi. «Perché…?» scossi la testa, confuso.
«Perché non te l’ho detto? Beh…non era affar tuo, non credi?» sorrise amaramente e poi si morse le labbra e il cuore in quel momento smise di battermi nel petto. La vedevo, sola…inerme, fragile e spaventata. Mi alzai e la strinsi tra le braccia. Non era sola, non era fragile: l’avrei protetta, l’avrei custodita, l’avrei tenuta con me.
«Ai brownies avresti potuto allegare un post-it…».
«Ps. Non sono più in remissione e questa volta lo stronzo ha deciso di farmi il culo».
«Ecco, io sarei stato meno incisivo…».
«Ah, sì?». Una mezza risata le uscì dalle labbra, la strinsi più forte, appoggiando il mento sui suoi capelli.
«Sì…che ne so…Ciao, mi chiamo Melissa…se vuoi fare del sesso radioattivo chiamami».
«Uhm…» scosse la testa. «Avrei rischiato grosso».
«Sarebbe stata una proposta indecente che non avrei saputo rifiutare». Adesso ero io a fissare il vuoto e lei, di nuovo, tacque. «Forse l’hot dog non è una cattiva idea» dissi poi, scostandomi. «Uhm?».
«Uhm» annuì, sorridendo e le scompigliai i capelli. Mi sentivo strano, come se avessi trovato risposta a domande che mi ponevo da tempo senza che in realtà sapessi quali fossero, e come se avessi appena preso coscienza del fatto che la mia vita stesse cambiando. Cambiava perché io l’avevo deciso nell’istante in cui l’avevo abbracciata.
 
Quello che volevo fare era semplice e allo stesso tempo difficile da farle accettare: non le facevo domande se non indirette, non scendevo nello specifico, restando sul vago; volevo sapere, avere risposte, ma non volevo invadere ciò che aveva difeso fino a quel momento e che continuava con dignità a difendere. La sua integrità. Non voleva che la guardassi con occhi diversi, ma come poteva pretendere che l’idea del suo corpo martoriato da un qualcosa cui non riuscivo a dare un nome non intensificasse il riflesso dei suoi occhi nei miei?
Vederla e non guardarla era diventata una sfida cui non potevo resistere, sfiorarla e cercare il contatto fisico era ormai la mia debolezza più grande: sapere che c’erano cose che nascondeva, che custodiva gelosamente per sé, ingrandiva la considerazione che avevo di lei. Era profonda e piena di un’energia che mi attraeva come la luna con le maree. Non riuscivo a spiegarmi come il sapere che fosse malata, che stesse deperendo sotto i miei occhi, mi spingesse fino a volerla nel modo più assoluto possibile. Vedevo la sua stanchezza, le sue dita affusolate sempre più sottili, le occhiaie cerchiarle gli occhi nonostante il trucco, i capelli spenti. Coglievo tante piccole cose che confermavano i miei sospetti: il suo sedersi non appena le capitasse l’occasione, il suo smettere di cucinare dopo l’orario di chiusura del negozio, il suo non fare parola di dove trascorresse i venerdì mattina. E adesso capivo perché nel weekend si rinchiudesse in casa, perché quella sera si fosse allontanata all’improvviso.
«Posso venire con te, domani?».
«Hai il gusto per l’orrido, o ti piacciono semplicemente gli ospedali?». Amavo quelle risposte secche e prive di finta ironia. Dritta al sodo, nessun fronzolo.
«Chiamala curiosità morbosa».
«Mi piace la tua schiettezza, ragazzo».
«È un sì?». Alzai un sopracciglio, ma tutto ciò che ottenni fu un sorriso indecifrabile. «È un sì» aggiunsi, ammiccando.
«Non mi vedrai vomitare, scordatelo».
«Non illuderti, non siamo così tanto in confidenza…prima dovrei vederti nuda».
Spalancò gli occhi. «Era un no, mi dispiace». Sollevò le spalle, ridendo tra sé. La tirai verso di me per un piede, facendole aggrottare la fronte. «Si era detto Dirty Dancing, non Streeptease».
«Non nasconderti Mel». Le accarezzai la clavicola, passando le dita sopra ai tubicini. «Non da me».
Chiuse gli occhi per un istante, scuotendo la testa. «Non voglio affrontare questo discorso. Non con te. Non ora. Lascia perdere».
«Sono abbastanza forte per spostarti i capelli mentre vomiti, ma non abbastanza per non starti accanto. Per allontanarmi da te, adesso». Appoggiai delicatamente il palmo nel punto esatto in cui avevo passato le dita poco prima. «Lascia che ci sia per te».
Con riluttanza appoggiò la fronte sulla mia spalla. «Non sai cosa c’è, dietro tutto questo e non hai idea di che sapore abbia. Non voglio che tu ne abbia un ricordo, o che senta l’amaro in bocca».
«Cosa può esserci di amaro in te?». Le sollevai il mento. «Melissa…hey…non ti intralcerò, ma non tenermi fuori. Ho bisogno di te». Le sue dita strinsero le mie, tanto forte da farmi male.
«Non voglio che sia così…è sbagliato. Io sto marcendo, è una cosa irreversibile…e non voglio che tu ne venga coinvolto». Mi prese il viso tra le mani, stringendo le labbra fino a farle diventare bianche. «Tu non puoi scegliere questa vita, questa cosa…non puoi volerlo a meno che non sia un masochista».
Ci fissammo senza dire una parola e poi feci il passo decisivo, quello che non mi avrebbe permesso di tornare indietro. Le sfiorai le labbra, gradualmente fino a sentirle piene sulle mie. «Ho fatto la mia scelta, ho deciso per me stesso. Non discuterne più».
Fare l’amore con Melissa era come tornare a casa dopo un viaggio tra i ghiacci, perché il calore che sapeva trasmettere era un qualcosa che non avevo mai provato prima: non c’era niente di sbagliato in lei, niente che la facesse sembrare meno forte o più fragile di qualsiasi altra persona. Volevo prendere tutto di lei e darle tutto di me, sentirla tremare sotto le mie mani, rabbrividire al passare delle mie labbra sulla sua pelle e sentirla ansimare, stringermi le mani e graffiarmi le spalle. Vederla sopra di me, i capelli spostati di lato, le mie mani sul suo seno e la sua schiena che si inarcava ad ogni nostro movimento mi mandava in tilt: era lì, con me, e non avrei permesso a niente e nessuno di cancellarla con un colpo di spugna.
«Perché quel ghigno?». Mi morse le labbra, eravamo abbracciati sul divano: nudi e con solo una coperta in cachemire a coprirci. La sollevai a coprirle la spalla.
«Ti ho vista nuda».
«Vuoi rovinare la poesia, eh? Voi maschi…romanticismo zero».
«Non sapevo fossi una di quelle» la presi in giro.
«Una di quelle?» sorrise, non riuscendo a capire.
Mi girai di fianco, guardandola e cominciai a disegnare piccoli cerchi sulla sua guancia. «Una di quelle romantiche, tutte cuori e fiori…».
Le sue dita giocherellavano con il lobo del mio orecchio. «Nah, ho il finale più strappalacrime che si possa sperare…non mi serve essere romantica».
«No, infatti…sei pessima». I miei occhi erano fissi nei suoi.
«Ho uno spiccato senso dell’umorismo».
«Ti amo».
«Ecco, non così spiccato».
«Smettila».
«Non ti ci voglio domani».
«Io ci sarò anche dopodomani».
«Mi fai male così». Sospirò. «Non voglio farti male, Shan…non te lo meriti».
«Non mi merito te, è diverso. E non saresti tanto determinata a tenermi lontana se…».
Appoggiò le dita sopra le mie labbra. «Dire le cose le rende reali e ce ne sono già troppe, per il momento».
Le baciai le dita, una ad una. «Posso sopportarle».
«Io no…». Mi guardò, gli occhi che si riempivano di lacrime. «Non so se ce la faccio».
Come potevo fingere che non avesse ragione, che tutto ciò fosse assurdo e che mi sembrava la presa per il culo più grande che potesse essere messa in scena?
Restammo così abbracciati sul divano, accarezzandoci e facendo l’amore per tutta la notte: era come se dovessimo recuperare i mesi in cui non avevamo avuto il coraggio di sfiorarci, come se ogni minuto a nostra disposizione non fosse abbastanza. Poco prima dell’alba mi svegliai, sentendo Melissa appoggiare la testa sul mio torace. Le accarezzai i capelli, non riuscendo a dare nome alla sensazione di pienezza nel sentirla ancora accanto a me.
«Mi mancherai tanto». Quelle parole sussurrate squarciarono il silenzio. «Non volevo innamorarmi di te e non volevo farti soffrire, scusami se non sono stata abbastanza forte per evitarti tutto questo…non voglio lasciarti». Poteva esserci un urlo di dolore più forte di quello? Non credo.
 




 
 
-Tonight’s the last to say goodbye-
 


Non mi hai mai permesso di accompagnarti in ospedale, o di spostarti i capelli quando passavi le giornate chiusa in bagno china sul water: aprivi tutti i rubinetti e facevi finta che tutto andasse bene. Ricomparivi in cucina con gli occhi ancora arrossati dalle lacrime e un sorriso debole ma mai spento sul tuo volto. E quando mi avvicinavo per baciarti le labbra sapevi di dentifricio e collutorio. Li spendevi così i tuoi soldi, sì.
Più le settimane passavano e più ti stringevo a me, più mi accorgevo di quanto la tua pelle fosse sempre più sottile e le tue ossa sporgessero come lame dal quel corpo che era ancora così pieno di vita. Quella vita che cercavo di darti con tutto me stesso in ogni momento, quella vita che soffocavi sul nascere sulle mie labbra quando sapevi che stavo per dirti quanto ti amassi. Volevo dirtelo e ripeterlo fino allo stremo, certo che sarebbe bastato per dare colore alle tue guance e riportarti l’appetito. Non mangiavi più, dicevi che eri stanca. Ed io non mi sentivo abbastanza per te, perché non riuscivo a darti la forza che ti mancava per essere la Melissa che sapevo essere rannicchiata da qualche parte dentro di te.
Ma non ti lamentavi mai, anzi…avevi deciso di prenderti qualche settimana di ferie, visto che le sedute di chemioterapia erano sempre più potenti e non riuscivi a stare dietro al lavoro. Mi ero offerto di darti una mano, ma avevi detto che non ce n’era bisogno. Avevi detto che dopo quelle terapie avresti riaperto il negozio. Dicevi che ci eri già passata, che era la prassi. Ma avevi anche detto che lo stronzo questa volta ti avrebbe fatto il culo. Me lo ricordo. L’avevi detto. E sapevo che continuavi a nascondermi cose che invece avrei dovuto sapere, anche se non ne avevo il diritto, anche se non era affar mio…ma tu stavi morendo sotto i miei occhi e non c’era nessuno a spiegarmi come avrei potuto starti accanto. Come avrei potuto dare la mia vita pur di salvare la tua.
Non avevo mai amato nessuno, non così.
«Ti porto in ospedale». Il mio tono era perentorio, intransigente. Duro.
Avevi sollevato il viso dal lavandino, allontanandomi con un gesto flebile della mano. «Non ci vado in ospedale, sto bene. Adesso passa». Ti avevo sorretta mentre ti accasciavi per terra.
«Stai vomitando sangue, non passa. Chiamo un’ambulanza». Avevi allungato la mano verso l’asciugamano appeso accanto alla doccia, chiudendo gli occhi nel pulirti la bocca.
«Lasciami in pace, vai via. Non devi stare qui».
«Non puoi stare sola».
«Vattene, cazzo». Ma anche con tutta la forza che avevi in corpo, non eri riuscita a rendere quella frase più che un sussurro. «Non voglio che tu mi veda così». Avevi paura.
«Non era mai successo» dissi, riflettendo ad alta voce.
«Sto morendo». Anche tu parlavi con te stessa, dando voce agli incubi che non ti davano pace. «Sto marcendo».
Bagnai l’asciugamano e te lo passai sul viso. «Mel…ti prego».
Avevi posato i tuoi grandi occhi da gatta sui miei, tristemente. «Non uscirò più da quell’ospedale. Lo sai anche tu. Sto morendo. Non voglio morire. Non voglio lasciarti, non posso lasciarti da solo. Ho bisogno di te, Shan…non portarmi in ospedale ti prego». E ti eri accasciata su di me, singhiozzando. «Non sono pronta, non è giusto. Io posso ancora farcela, ma non portarmi in ospedale ti prego».
Non volevo che mi vedessi piangere, non volevo darti la conferma che le tue parole fossero vere. Non volevo dirti che sì, Mel, stavi morendo tra le mie braccia ogni fottutissimo minuto di ogni fottutissimo giorno. «Non ti lascerò andare, scordatelo. Ma non posso vederti così…non ce…».
«Non ce la fai». La tua voce era forte e chiara, serena. Tu lo sapevi, l’avevi sempre saputo. Sapevi cosa sarebbe successo, quanto sarebbe stato cruento e crudele. Avevi fatto di tutto per evitarmi quei giorni. Perché mi amavi forse più di quanto io stesso ti amassi. «Lasciami un’ultima notte, se domani non starò meglio andrò in ospedale. Per favore».
E poi, testarda e forte come solo tu sapevi essere, ti eri alzata dal pavimento ed avevi aperto l’acqua della doccia. Con la dignità che mai avresti permesso ti abbandonasse, ti eri lavata i denti, ti eri spogliata e ti eri messa sotto il getto di acqua bollente. Ed io ero entrato nella doccia al tuo fianco, non per aiutarti ma per accarezzarti come un uomo accarezza la propria ragazza. Perché ti amavo e perché non ero pronto a lasciarti andare. Ti eri asciugata i capelli, ti eri vestita e mi avevi raggiunto in cucina, abbracciandomi la schiena mentre ti preparavo una tazza di the.
«Sai, quando sei entrato in negozio quel giorno non vedevo l’ora te ne andassi».
«Ah, davvero?».
«Uhm, sì…stavo guardando l’ultima puntata di Arrow in streaming».
«Sei vergognosa».
«Sono contenta tu sia entrato quel giorno, da quella porta e nella mia vita. Anche se ho incasinato la tua».
«Mel, tu sei la parte migliore della mia vita». Ti avevo asciugato le lacrime, desiderando di poterti tenere sempre con me. Mi sarebbe bastata anche solo una tua mano, da stringere quando il dolore sarebbe stato troppo forte per riuscire a respirare. «Cosa vuoi fare stasera?». Quella era la nostra notte e niente avrebbe potuto portarcela via.
«Vivere». Era un sorriso il tuo, una richiesta, una speranza, una preghiera. «Viverti. Te».
Non era la fine, no. Eri ancora così bella, Mel. Eri ancora così forte. Eri ancora così calda. Eri ancora capace di sussurrare il mio nome e stringermi mentre facevamo l’amore. Eri ancora viva, amore mio. Avevi riso, in quel modo roco e dolce, avevamo riso tutta la notte e avevamo fatto l’amore ancora, tappandoci la bocca perché quello che sentivamo era troppo forte. Troppo intenso. Eravamo ancora troppo vivi. O forse era solo un’illusione, dataci per vivere la nostra ultima notte, per dire addio a quella che era stata la nostra vita. Non lo so se fosse stato un piccolo miracolo in sé, o se quella fosse l’ennesima dimostrazione di quanta energia avessi. La lotta estrema per non cedere, per non…lasciarmi.
La mattina ti eri vestita, avevi preparato una borsa e mi avevi guardato deglutendo nel modo in cui facevi quando eri combattuta con te stessa.
E avevo capito.
Hai lottato con i denti, combattendo per la tua dignità: non volevi dipendere dagli altri, non volevi permettere che quella cosa ti annientasse. Ed io ti amavo, sostenevo la tua lotta e rispettavo le tue scelte.
«Shan».
«Dimmi». Eri pallida, stanca, eppure volevi alzarti e guardare Manhattan fuori dalla finestra. «Mel?».
«Uhm».
«Hey».
«Il medico mi ha detto una cosa, ma non so decidere da sola».
«Cosa ti ha detto?». Ti accarezzai i capelli, eri sempre così bella. Com’era possibile che fossimo in quella stanza?
«Le cellule staminali. Ha detto che…ha detto che…». Allungasti il braccio verso la bottiglia dell’acqua, ti lasciai fare sapendo quanto ti infastidisse essere aiutata. «Forse sono in tempo per un trapianto, anche se non è detto che riesca a…». Sentivo gli occhi bruciare, ma il tuo sguardo era troppo vivido per nasconderti il mio. Eri tu quella forte, Mel. «Se vuoi gli dico di sì».
«Melissa…».
«Se vuoi…».
«Non devi farlo per me, non devi…sei tu quella importante. Sei tu che sai, non devi pensare a me…».
Mi avevi guardato con fatica, quasi come se ti sentissi in colpa per quello che stavi per dirmi. «Non voglio lasciarti, ma non so se ce la farò…mi sento sempre più lontana».
«Va bene così, lo sai». Avevo guardato il tuo petto sollevarsi nella fatica di respirare. «Non devi preoccuparti per me, lasciati andare…non soffrire più, ok? Non farti più del male, ci sono io qui per te e mi occuperò io di te, amore mio…lasciati andare…».
«Uhm…».
«Puoi andare, Melissa…puoi andare. Ti amo tanto, ma così tanto che non ne hai idea…».
«Uhm…».
Te ne sei andata quella notte, avevi sete…tanta sete. Avevi freddo. Avevi paura di lasciarmi da solo. Continuavi a fare di testa tua, continuavi a lottare…perché dovevi averla vinta. Perché non potevi lasciarmi da solo con il vuoto della tua perdita. Sei sempre stata una testarda, Melissa. Fino alla fine. Non volevi togliere i brownies dalla vetrina, volevi lo zucchero di canna, non volevi coinvolgermi nella tua folle vita e hai voluto quell’ultima notte.
Adesso so che non è stato un caso se quel giorno ho deciso di entrare nel tuo negozio, se hai suonato alla mia porta e se mi sono innamorato di te con la stessa pacatezza e dolcezza con cui vivevi la tua vita. Non è stato un caso perché ero alla ricerca del silenzio per mettere ordine nella mia vita. Ero convinto fosse ciò che mi servisse. Invece non era ciò di cui avevo bisogno. Avevo bisogno di te, Mel…perché dovevo ancora vivere la parte più bella della mia vita. 




 


Ciao ragazze, 
che dire...avevo promesso qualcosa su Shan a suo tempo e finalmente sono riuscita a scriverla. 
La pubblico così, in maniera estemporanea, as soon as I can risponderò alle recensioni dell'epilogo di Letters to Mars e colgo l'occasione per ringraziarvi di cuore e mandarvi i migliori saluti da parte dei Jaren (cit. XD)
Vi mando un bacione grande, 
Ste <3<3<3
   
 
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