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Autore: dirgewithoutmusic    21/09/2014    2 recensioni
Storie per le donne di Hogwarts, che piangono, vacillano, ridono, oltrepassano il limite e che meritano il nostro rispetto senza eccezioni.
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Oppure era qualcosa di completamente differente, questo trio che non era d’oro? Erano i non prescelti: l’Horcrux abbandonato e l’ultima Weasley; il coraggioso e massacrato ripiego del Ragazzo Che È Sopravvissuto; la ragazza lunatica che perdeva le scarpe e aveva più amici fra i Thestral che nella propria sala comune. Ginny aveva radunato un esercito nella Stanza delle Necessità usando l’abilità della madre nell’alzare la voce, le parole suadenti di Riddle, la passione tormentata di Harry, e si era chiesta se fosse lei ad essere l’eroe di questa storia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Luna Lovegood, Neville Paciock, Un po' tutti | Coppie: Harry/Ginny
Note: Missing Moments, Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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Note: questa fanfiction è originariamente in inglese ed è parte della serie We must unite inside her walls or we'll crumble from within (citazione dalla canzone del Cappello Parlante ne L'Ordine della Fenice) dell'autrice straniera dirgewithoutmusic. Qui non figura ancora come serie in quanto ho per ora tradotto solo una delle cinque storie che comprende - che riguardano rispettivamente Ginny Weasley, Hannah Abbott, Cho Chang, Calì Patil e Pansy Parkinson. A gestire questo profilo e le relative traduzioni sono Imp e Nymphadorashair; nel caso vogliate tradurre qualche altra fanfiction di questa autrice contattate una delle due allegando il primo capitolo tradotto, e allora vi forniremo la password di questo profilo. 
Traduzione di: Imp. Che chiede perdono perché l'inglese dell'originale è complesso e macchinoso e non è stato facile.
Originale: http://archiveofourown.org/works/2249544

 

Piagnona: in difesa di Ginny Weasley.
 
Ginny Weasley sognava di svegliarsi nella Camera, Harry e il suo alone d'oro Fenice che la riportavano in vita. Per lei sarebbe potuta essere un'immagine cui aggrapparsi quando le ombre tutte intorno frusciavano come pagine, ma invece Ginny chiudeva gli occhi con forza. L'ultima volta che un ragazzo carismatico con i capelli scuri era diventato il suo mondo l'aveva divorata intera.

Lucius Malfoy aveva fatto scivolare il diario di Tom Riddle, fra tutte le cose, proprio nel libro di Trasfigurazione di Ginny. Lo capì anni dopo e le sembrò una bugia in qualche modo calzante.

Ginny aveva riversato la propria anima in un libro, e il libro si era riversato a sua volta in lei. Non era riuscita a capire dove avesse il cervello, ma questi era in grado di capire lei. Il libro aveva custodito la propria mente dentro di lei, l'anima di Tom che le scivolava all'interno di grammo in grammo. Lui riusciva a capirla. Pensava di riuscire a capirla, quell'arrogante ombra di un ragazzo.

Nell'estate dopo il primo anno, Arthur aveva insegnato a Ginny come smontare la macchina e poi rimetterla insieme. Lei spalmava manate unte di olio sulla tuta da lavoro, sulla camicia bianca di stoffa grezza. Sua madre alzava gli occhi al cielo, la rimproverava con leggerezza, ma Ginny sorrideva. Le piaceva sapere da dove provenissero le proprie macchie. Le piaceva sapere come far volare le cose. 

Sua madre aveva provato a starle attorno in punta di piedi, ma la calma e la pazienza non erano mai state virtù di Molly. Non erano neanche ciò di cui Ginny aveva bisogno, non da lei. Vedere Molly tranquilla, esitante, tentennante faceva solo sentire Ginny più fragile. La prima volta in cui Molly era sbottata, sbattendole davanti piatti da lavare o lamentandosi dello stato dei suoi capelli pieni di nodi, Ginny aveva sentito del calore nascerle dentro. Aveva cinto con le mani quella sensazione ruvida e l’aveva tenuta stretta.

Aveva undici anni e andava per i dodici. O no? Gli anni di Riddle ora contavano come suoi, dopo che avevano vissuto così a lungo nel suo corpo? Ed erano i diciassette anni del ragazzo fantasma o le decadi che aveva passato intrappolato fra le pagine? Ginny fece molta fatica, crescendo, a separare la frustrazione di Riddle contro quella gabbia di carta dalla propria rabbia nei confronti invadenza a fin di bene della madre, dei solchi che tutti i suoi fratelli avevano già tracciato. Aveva inciampato nel tentativo di seguirli, fino a quando non aveva smarrito il loro sentiero.
Aveva senso tenere ancora conto degli anni dal momento che Ginny era morta e tornata indietro, si era incamminata verso la propria tomba umida per poi svegliarsi lì sul pavimento freddo? 

Ginny aveva scritto sui muri del castello con sangue di pollo. Aveva lottato per trattenere le lacrime mentre lavava mantelli che non ricordava di aver macchiato di rosso. Hogwarts aveva guardato Harry in tralice, mormorando dell'Erede di Serpeverde. Nelle viscere di Ginny si erano annodati serpenti. Lei era la settima figlia di una casata decaduta. Non era l'erede di nulla.

Ginny e Charlie facevano lunghe passeggiate per i campi e le paludi attorno alla Tana. Parlavano di volo. Lei riusciva a vedere suo padre nel fratello, mentre stavano in piedi nella luce della sole a guardare verso l'alto. Charlie era un uomo selvaggio scurito dal sole, suo padre allegro, un goffo burocrate, ma in alcuni momenti la somiglianza era accecante. Erano entrambi così bravi nel trovare della bellezza nei luoghi nascosti, e così innamorati di cose pericolose in grado di volare. 
Ginny pensava che Charlie e suo padre amassero il volo per i panorami, le nuove prospettive, gli orizzonti che scivolano via in ogni direzione. 

Ginny voleva imparare a lasciarsi alle spalle il terreno.

Ron chiamava Ginny chiacchierona, diceva che non stava mai zitta. Aveva passato un anno a scrivere ad un amico fantasma perché non aveva nessuno che ascoltasse.

All'epoca aveva già ancora incontrato Luna? O sarebbe successo dopo, dopo che Ginny era caduta e tornata a galla, quando avrebbe imparato a cercare anime isolate? Quando avrebbe capito il valore di qualcuno che leggeva al rovescio e credeva in cose che non poteva vedere? Non fidarti delle cose se non riesci a capire dove hanno il cervello, Ginny riusciva sentire suo padre ripeterlo, ma non era che Luna non si fidasse di nulla, decisamente no, si fidava di tutto. 
La torre di Corvonero era protetta solo da indovinelli, quindi Ginny saliva per andare a trovare Luna. I Corvonero capivano l’importanza di studi interdisciplinari per qualche materia, quindi le riservavano solo occhiate curiose. C'era un Serpeverde nell'angolo tanto spesso quanto Ginny se ne stava accoccolata in poltrona. Lui si allentava il cravattino verde vicino ad un Corvonero, entrambi a testa china su fogli pieni di appunti, un obiettivo da raggiungere che faceva nascere il desiderio di una scoperta. 

Essendo la più piccola di sette fratelli, a Ginny piacevano le attenzioni ma odiava che la si accudisse. Si era costruita su battute pungenti, pacate, e divertita compassione; sapeva ridere con un solo movimento delle labbra. Aveva un'abilità con le parole che a volte attribuiva al modo in cui una parte della sua anima era bruciata all'interno di quelle pagine avvelenate dal basilico. Altre volte, in giorni migliori, attribuiva quella sua facilità alla continua confusione di casa Weasley, al cercare di tenere il passo con sei conversazioni contemporaneamente, o allo starsene seduta in rari pomeriggi tranquilli con Bill ad ascoltarlo che mormorava di poesia fra sé e sé. 

Ginny aveva baciato il primo ragazzo al quarto anno. Non era Harry e lei non aveva bisogno che lo fosse. 
Harry aveva scorto parti di lei col passare degli anni: era la sorellina timida di Ron, era un mucchietto afflosciato sul pavimento della Camera che lui era in dovere di salvare, era capelli di fuoco e sguardi di fuoco, che avevano incontrato i suoi occhi al sesto anno e l'avevano accecato. Entrambi pensavano che fosse il fuoco che bruciava nell'altro che amavano così tanto. Ed era così: lei ardeva d'ira, nei confronti di Fleur, di Ron, di lui, brillava con impeto solcando i cieli con i capelli che le ondeggiavano dietro. 

Ma fu con le ombre che avevano dentro che erano riusciti infine a stabilire un contatto. Avevano entrambi qualcosa di così orribile dentro. Entrambi erano, ciascuno a modo proprio, Riddle resuscitato. 
Sia lei che Harry avevano fatto ciò che Voldemort non era stato in grado di fare: morire per poi tornare indietro. Harry sacrificato, morto come un leone per rinascere come un agnello. Ginny era risorta nella Camera al conficcarsi di una zanna in un diario avvelenato, ma non era stato allora che era tornata alla vita. Quando aveva lasciato la Camera era un'ombra né più né meno di quanto lo fosse stato il disperato fantasma di Tom Riddle. 

Non erano stati l'eroismo di Harry, la disperazione di Ron, l'amore di sua madre o lo scherzo dell'asse del water dei suoi fratelli a riportarla in vita (anche se l'asse del water aveva aiutato). Ginny aveva fatto respiri profondi la notte. Aveva pianto. Si era ricordata come arrabbiarsi. Era sgattaiolata fuori la notte e aveva preso a turno i manici di scopa di tutti i suoi fratelli. Aveva raggiunto i cieli e si era riportata in vita da sola.

Lucius aveva messo il diario di Riddle nel libro di Trasfigurazione di Ginny, ma non l'aveva trasformata. Ginny ricordava, sapeva che questo suo essere non era una novità: scattare contro Malfoy al Ghirigoro; rubare i manici di scopa dei fratelli e puntare al cielo; correre dietro all'Espresso per Hogwarts a dieci anni, gridando e ridendo e piangendo. 

Tom aveva rubato frammenti e frammenti di lei, ore e sicurezza e la purezza delle sue mani. E le aveva insinuato dentro altre cose: la propria voce suadente, la cadenza delle parole che Ginny trovava pesante in bocca anni dopo, oscurità che le scorreva nelle fibre dei muscoli, per i Dissennatori tutte cose di cui impadronirsi, da succhiare avidamente. 
A volte Ginny usava la voce di lui, anche ora. Ma le parole erano le proprie, quelle sagge e quelle sciocche, brillante umorismo macabro e affetto spigoloso. Quelle non erano di Riddle. Lei non era mai stata di Riddle. Lui era un ladro, e lei si era rubata a lui. 

Ginny Weasley apprezzava la paura. Desiderava incutere timore. Aveva paura. Per lungo tempo aveva pensato che ciò la rendesse indegna di Grifondoro. 

Harry era uscito di schianto dalla Passaporta, piangendo sul corpo di Cedric. Si era infuriato nei visceri di Grimmauld Place numero 13, arrabbiato ma più che altro terrorizzato, più che altro disperato, mentre Ginny lanciava Caccabombe contro la porta della stanza delle riunioni ed origliava. Harry aveva segni incisi sul dorso della mano. Aveva urlato quando Sirius era morto. Aveva insegnato a dei bambini a combattere nella Stanza delle Necessità perché sapeva che il mondo avrebbe richiesto loro di sapersi difendersi da sé prima o poi, lo sapeva bene, davanti ad uno specchio, vicino alla vecchia pelle di un serpente, in un nugolo di Dissennatori attorno ad un lago gelato, in un cimitero. 

La paura era un tesoro per la casata di Godric. Senza paura non c'è neanche il coraggio.

Ginny aveva pensato che la propria paura fosse la cicatrice di Riddle, la bruttezza che lui le aveva lasciato dentro, il modo in cui tremava di notte. Ginny era stata nell'Ufficio Misteri, nella Sala Grande, nella propria pelle e il respiro le era tremato nel petto. La mano con cui teneva la bacchetta era rimasta ferma. 

Harry aveva i lineamenti di Riddle, gli occhi della madre, il coraggio del padre e anche il suo testardo pregiudizio. Ginny aveva i capelli della madre, la sfacciata Casa della propria famiglia, e l'orribile eco della giovane anima di Tom che le risuonava dentro. Tutti loro erano fatti di pezzi delle generazioni che li avevano preceduti.

Ginny aveva le proprie mani ferme. 

Quando Ginny aveva levato la propria voce fra la folla e nominato l'Esercito di Silente, l’aveva nominato per la paura più grande del Ministero. Aveva pensato che fosse una cosa molto da Grifondoro, il capire il potere di una cosa simile.
Quando ad Harry era stato chiesto di scegliere fra il mondo e lei, aveva scelto il mondo. Se n’era andato con Ron ed Hermione alle calcagna, alle spalle, al fianco, per salvarlo.

Ginny era rimasta. Il mondo era fatto di luoghi diversi in cui restare, e quello sarebbe stato il suo. Luna, Neville e lei erano saliti sull’Espresso per Hogwarts insieme. Gli scompartimenti vuoti li schernivano.
Dei tre che erano rimasti, Ginny si era chiesta quale fosse lei.

La leader, che brillava splendente ed impulsiva, con le cupe impronte del cattivo sotto la pelle? Aveva una spalla fidata e fedele al fianco ed una brillante giovane donna all’altro. Era rimasta nella Stanza delle Necessità ad insegnare ai bambini a combattere, e si era sentita potente, si era sentita scelta, si era sentita condannata.
In quel momento Ginny era stata più vicina di quanto chiunque fosse mai arrivato a capire la vita di Harry Potter. Harry era l’unico che avrebbe mai potuto anche solo cominciare a capire cosa significasse stare nella pelle violata di lei.

Oppure dei tre era la Weasley, capelli rossi, il braccio che ben si accompagnava al destino eroico di Neville e alla facilità con cui il ragazzo accettava la perdita ed il sacrificio, che ben si accompagnava alla bizzarra e viva intelligenza e alla spensierata gentilezza di Luna?

O Ginny era quella intelligente, con la sua sottile arguzia, le parole, le maschere che indossava? Ma la sua intelligenza era meno gentile di quella di Hermione, da sempre, più adatta a questa guerriglia combattuta in corridoi inviolabili.
Oppure era qualcosa di completamente differente, questo trio che non era d’oro? Erano i non prescelti: l’Horcrux abbandonato e l’ultima Weasley; il coraggioso e massacrato ripiego del Ragazzo Che È Sopravvissuto; la ragazza lunatica che perdeva le scarpe e aveva più amici fra i Thestral che nella propria sala comune.

Ginny aveva radunato un esercito nella Stanza delle Necessità usando l’abilità della madre nell’alzare la voce, le parole suadenti di Riddle, la passione tormentata di Harry, e si era chiesta se fosse lei ad essere l’eroe di questa storia.

Aveva scritto Esercito di Silente, reclutiamo ancora sui muri. Ginny aveva lanciato incantesimi per Confondere Amycus, insinuato sussurri nelle orecchie contorte di Aletto, modificato un corridoio in modo che spedisse nella torre più alta di Hogwarts tutti quelli con il Marchio Nero. Aveva dunque pensato che non fossero i vincitori del secondo posto dopo Harry: magari loro tre erano i successori dei gemelli, i gemelli e Lee Jordan rinati in tempo di guerra. Di sicuro Pix era dalla loro parte quando scorrazzava urlando per i corridoi facendo esplodere palloncini pieni di pudding in testa a Piton.

Si erano barricati nella Stanza delle Necessità con stanche, disperate risate, sporchi di polvere. Neville, che una volta si era presentato come nessuno, ora insegnava a quelli del primo anno incantesimi guaritori di base e spalmava pomate sulle loro ferite. Luna faceva scintille con la bacchetta cercando di inventare qualche nuovo incantesimo utile. Vari Corvonero tutti ingessati, che ora cominciavano ad essere meno rigidi, la attorniavano sempre più da vicino per assistere. Ginny si allenava con le Fatture Orcovolanti e tracciava percorsi sicuri, vie di fuga e piani di battaglia.

Forse erano qualcosa di completamente differente.

Luna aveva portato loro il primo Serpeverde, un ragazzo tranquillo, schivo ed intraprendente, disperatamente leale verso quel luogo che l’aveva accolto. Ne erano arrivati altri. I pochi nati Babbani in verde e argento, ma anche altri. Una era una giovane donna, brillante e furba, che se la cavava meglio di tutti loro con fatture creative a lungo termine. A Ginny ricordava i gemelli più di chiunque altro, a partire dall’abilità nel combinare guai fino al modo in cui prendeva in disparte undicenni spaventati e li faceva sorridere.

Ginny li faceva sentire al sicuro. Aveva riso di Luna quando gliel’aveva detto. La bambina più piccola di una vecchia casata, non era né lo scudo né la spada di nessuno.

Ginny li aveva guardati la volta dopo in cui aveva scagliato una Fattura Orcovolante contro un manichino, i capelli che le volavano intorno come uno stendardo di battaglia. Quelli del primo anno, la Tassorosso che era così brava con gli incantesimi, il Corvonero del settimo anno che diceva quattro parole la settimana, ma sempre quelle giuste, loro guardavano lei. Stavano in piedi con la schiena un po’ più dritta. Ginny li faceva sentire al sicuro. Ginny li faceva sentire coraggiosi.

Harry, Ron e Hermione erano tornati ad Hogwarts attraverso il tunnel di Hogsmeade. I veterani di Hogwarts erano scattati su a salutarli, confrontando cicatrice con cicatrice. Ginny si era tenuta in disparte ed aveva osservato gli eroi unirsi alla folla, invidiosa ed orgogliosa.

La loro era una storia di ricerca. La sua era una di riscatto, vendetta, difesa. Si sarebbe ripresa quei corridoi, quelle classi, quel corpo. Avrebbe ripulito col fuoco il modo in cui il suo sterno le sembrava lurido ancora adesso. Quella era la sua casa, quelle mura di pietra e quelle costole che cullavano polmoni fragili. Erano sue, eppure uomini oscuri continuavano a farvi scorrere sopra dita sudice. L’avrebbero rimpianto, con una zanna nel cuore, un fuoco nelle sue viscere, un Avada Kedavra nella Sala Grande.

Ciò che avevano lì era l’oscurità. Ciò che desideravano era la luce. Il punto era che la prima carriera di Ginny era volare e la seconda scrivere, che la Battaglia di Hogwarts era solo la sua seconda battaglia per una terra sacra. Aveva i palmi delle mani macchiati, rossi di vernice, neri d’inchiostro, annegati nel veleno del basilisco e nell’umido della fredda pietra. Non avrebbe potuto lavarli e farli tornare puliti, non avrebbe potuto, quindi aveva stretto le mani a pugno.
Era una lunga battaglia per una ragazzina il convincersi di avere diritto al proprio corpo. Proprio questo, gli occhi castani, le lentiggini, il sorriso di George e il ghigno di Bill, il feroce affetto della madre e l’amore del padre per le cose lasciate da parte.

Era una lunga battaglia. Avevano vinto.

La bacchetta, il mantello, la pietra. Harry se li era guadagnati tutti crescendo da ragazzo in uomo. Solo uno era una benedizione.

Quando aveva riletto le favole di Beda a tredici anni, Ginny aveva cominciato a ridere. Attraverso la sala comune Ron aveva alzato gli occhi, allarmato, speranzoso; Hermione l’aveva guardata, preoccupata.

Le persone pensavano davvero che servisse una pietra magica per avere fantasmi che ti tormentavano? Ginny poteva sentire Tom che leggeva da sopra la sua spalla, attraverso i suoi occhi, con la sua pietà e la sua malizia.

Fra l’imparare dai gemelli giochi di prestigio con le carte e il cercare qualche sorta di creatura invisibile nei corridoi ai piani alti assieme a Luna – il trucco, aveva detto Luna, era scovarla seguendo il suo profumo di pastasciutta al formaggio e lavanda – Ginny sentiva ancora il gocciolio dell’alto soffitto della Camera. Divenne brava con gli Incantesimi Silenzianti e dormì con le tendine del letto ben chiuse. Non aveva bisogno di una pietra per avere fantasmi che le infestassero i sogni.

Ma Harry era riuscito a gettarla via. Aveva gettato la pietra, aveva gettato la bacchetta e aveva tenuto il mantello.

Ginny era gelosa. Gelosa del potere di cui lui era riuscito a liberarsi, mentre lei andava a dormire con la voce di Riddle che le risuonava nelle ossa. Ci vollero anni prima che si rendesse conto che Harry non era riuscito a liberarsi di quelle cose più di quanto ci fosse riuscita lei.

Ginny lo scopriva a fissare fuori dalla finestra o a guardare vecchie foto. Lui le raccontò di un ragazzino Babbano incantato dalle immagini che si muovevano, di una ragazza che amava Divinazione, di un padrino che anche lei conosceva e per cui piangeva. E lei gli raccontò storie a sua volta, storie di Sirius che si agitava senza sosta a Grimmauld Place, delle promesse di Fred e la tazza del gabinetto. Guardarono entrambi al passato.

Una volta Harry era passato per colazione e l’aveva trovata in piedi nella cucina cadente e illuminata dal sole a fissare la tazza di tè. Ginny aveva un colloquio per un lavoro d’ufficio in meno di un’ora, e allenamenti di Quidditch per un campionato di scarsa importanza nel pomeriggio, ma l’odore del tè mattutino le aveva riportato alla mente quello di pagine ammuffite. Il tè era troppo verde, non era dello stesso colore degli occhi affilati di Riddle ma ci andava vicino, e guarda un po’ che cosa stupida, eppure lei non riusciva a respirare.

C’erano giorni in cui anche lui aveva lo stesso aspetto. Allora si sporgeva verso di lei, esitante, e Ginny lasciava che l’avvolgesse fra le sue braccia.

Le persone per strada fissavano Harry come intontite, una presenza mediatica ancora peggiore adesso di quando era minorenne, sotto il naso amico di Silente, non più Il Ragazzo Che È Sopravvissuto ma Il Ragazzo Che È Morto, Che L’Ha Ucciso, Che È Risorto. Ginny era passata da lui una sera per guardare Cotto e Incantato e qualcuno aveva tirato un sasso contro la finestra, rompendola – i Mangiamorte non muoiono mai, neanche quando si taglia la testa al serpente. Harry aveva distrutto la bacchetta di sambuco, ma era Harry Potter, Il Ragazzo Che Ha Trionfato, e non sarebbe mai riuscito a lavare via quella macchia di potere dalla fronte.

Si nascondevano insieme sotto al mantello dell’invisibilità. A volte entrambi avevano bisogno di sentirsi al sicuro. Nelle sere piovose si accoccolavano insieme sotto al mantello e facevano finta che neanche la morte potesse sfiorarli.
Harry guardava al passato, guardava al passato. Aveva gli occhi della madre. Ginny aveva la malizia del fratello negli occhi affilati e i propri fantasmi. Aveva la risata di Tonks, la furba pazienza di Tom, tutte queste cose ripiegate in tasca. La appesantivano. Le davano qualcosa cui aggrapparsi per rimanere a terra.

Entrambi portavano con sé antichi morti mentre andavano avanti, ma andavano avanti. Ginny gli prese la mano, lui un ragazzo che aveva salvato il mondo e lei una ragazza con l’oscurità nelle ossa, una tomba abbandonata e una battaglia vinta. Gli prese la mano e gli mostrò come camminare nella luce.
   
 
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