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Autore: Alicenelpaesedeipresimale    21/09/2014    2 recensioni
Un conto in sospeso, occhi sotto zero invasi di follia, capelli ossigenati e passo cadenzato. Una bellezza fuori dal comune di cui anche la morte si è innamorata.
Victor J. Prince, questo è l'angelo della morte.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angel of Death



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Ci sono cose che non si possono cambiare, il colore degli occhi, la grandezza delle mani, il numero di ossa nel nostro corpo, le magliette che ti stanno troppo corte quando butti lo scontrino perché credevi ti sarebbero andate bene e invece no; il colore del cielo, la composizione dell'aria e i fratelli.
Puoi sceglierti gli amici, il tuo ragazzo, il tuo cane, ma i fratelli no. Tanto meno i gemelli.
La gente pensa che basti nascere lo stesso giorno ed avere gli stessi genitori per avere i medesimi gusti, lo stesso carattere o lo stesso modo di pensare. Come se una data e un paio di cromosomi potessero realmente intaccare le voglie del destino. Che idea stupida.
Ma gli esseri umani di idee stupide ne hanno più di una, o forse, pensava Victor, non erano le idee ad essere stupide, ma gli esseri umani in generale.

La canna della pistola fredda contro la coscia, nascosta tra la carne e la stoffa dei pantaloni, una calibro 22 che non ti bastavano due mani per contarne gli anni.
L'orecchio teso ascoltava il silenzio opprimente di quel piccolo monolocale interrotto solo dal battere della pioggia sui vetri come se anche il cielo stesse piangendo il ritorno di quella massa di capelli biondissimi.
Quanto era che non rimetteva piede in quella città? Dieci? Undici anni? O forse di più.
Era il suo mondo, il luogo che lo aveva visto nascere, che lo aveva preso per i capelli fin da bambino e lo aveva tirato in piedi facendolo correre fino a consumarsi le suole, fino a consumarsi l'anima. Quell'anima che adesso brillava in due occhi spiritati e in un ghigno bianchissimo.

J. Willow road, interno 29 C, il sangue si sprecava sul pavimento colorando le mattonelle azzurre di un sadico color scarlatto.
Era davvero ben arredata quella piccola casa, sapeva di mare, sprizzava vita da tutti i pori anche con la morte fatta uomo seduta sul divano il pelle bianca.
Gli piaceva il mare, lo aveva visto una volta su una locandina ma non c'era mai stato. Suo fratello glielo diceva spesso, che lo avrebbe portato al mare, ma a distanza di una decina di anni ecco come erano finiti quei due: a darsi la caccia l'un l'altro come se non avessero passato metà della loro vita, che non era poi tanta ma pur sempre qualcosa, assieme.
Col passo cadenzato che da sempre lo distingueva si era avvicinato a quel corpo senz'anima disteso a terra, osservava come il proiettile si era ancora una volta perfettamente infilato all'altezza del cuore sempre nel solito punto.
Aveva pigramente estratto dalla tracolla verde un nastro giallo con su scritto “Contea di New York” in nero, di quelli che si utilizzano per delimitare la scena di un crimine, e lo aveva avvolto con oziosa precisione attorno al collo della sua ultima vittima legando poi le estremità in un cappio.
Ricordava che quando era stato iniziato alla vita da mercenario non era che un ragazzo fantasioso ed incazzato e, come ogni adolescente che si rispetti, sognava di poter cambiare il mondo. Così aveva preso l'abitudine di impiccare le sue vittime con quell'asettico nastro giallo per ricordare al mondo chi era il vero assassino. Lui non era un criminale, forse era un po' matto,ma era stata la società a schiacciarlo ed a costringerlo a quella vita, di conseguenza il vero killer non era lui ma la Contea di New York, era bene che le persone lo sapessero.
L'angelo della morte, così soprannominato, aveva fatto parlare di sé man mano che la sua firma indelebile si leggeva su un numero crescente di cadaveri, ma il mondo non era cambiato come aveva sperato. Col tempo lo aveva capito, gli esseri umani sono creature incostanti ed egoiste disposte a tutto, il mondo non cambia perché un ragazzino di appena quindici anni si mette a impiccare persone a caso, non cambia neanche se a farlo è un uomo di ventisei anni, lo sapeva bene, il mondo non cambia e basta. È in un senso solo che vanno le cose e tu puoi scegliere se annegare o rimanere a galla, Victor semplicemente aveva scelto di volare o, come diceva lui, aveva scelto di non scegliere.

Sbadigliando aveva dato un'ultima occhiata in giro, giusto per sicurezza, poi scaltro come sempre se ne era andato lasciando aperta la porta.
Volevano morto quel giovane uomo per questioni di eredità, così aveva detto il ragazzo che lo aveva pagato come se a lui potesse realmente interessare.
Appena fuori dal palazzo aveva tolto i guanti di pelle color mogano riponendoli con il nastro nella borsa tornando fischiettando con quel suo passo cadenzato nel centro abitato.

La natura era stata generosa con lui, gli aveva donato due grandi occhi dello stesso colore del ghiaccio polare, una pelle più bianca della neve e dei bellissimi capelli ossigenati, di un biondo quasi bianco che teneva lunghi raccolti in una treccia spessa.
La figura nell'insieme era di una bellezza sconfinata, c'era qualcosa in quel suo essere che lo rendeva irresistibile. Così bello che anche la morte si era innamorata di lui appiccicandoglisi addosso.

Aveva respirato a pieni polmoni lo smog di quella metropoli. I grattaceli, le case, i negozi. Li riconosceva tutti, uno da uno. 
Certo, il mondo aveva scombinato ogni cosa, ma dentro di lui il tempo si era fermato, aveva deciso 
che avrebbe vissuto come l'anima di quel corpo: i secondi non scorrevano più ma impiegavano se stessi per azzerare quelli degli altri.
New York è una roba strana. Una città fantasma fatta di stupide apparenze che saltano in aria se ad un incrocio svolti a destra invece che a sinistra e ti ritrovi nel nulla. Costretto tra i palazzi scrostati ed usurati dal tempo. 
Sono posti pericolosi, posti in cui persino chi ci abita evita di stare. Sono posti veri quelli, dove la gente muore sui marciapiedi delle strade. Posti dove rischi di rimetterci la vita, a meno che tu non ti chiami Victor J. Prince. Allora non hai nulla da temere.
Dire che molte persone conoscevano Victor era fare un eufemismo. In quei quartieri TUTTI conoscevano Victor, persino i muri ricordavano il demone con gli occhi sotto zero. Ti si piantava in testa quel suo modo tranquillo di camminare, come fosse padrone del mondo intero, quegli occhi matti, quel modo asfissiante di fischiettare.
Non te lo dimentichi uno così. Proprio non puoi.

Si guardava intorno con soddisfazione, felice che niente fosse cambiato. I palazzi erano ancora il solito schifo, la gente i soliti incompetenti e lo spaccio era ancora il solito vecchio edificio cadente con le pareti tinte di un bianco sporco e l'odore di muffa prepotente che ti si infila anche dove non batte il sole.
La porta d'amianto si era aperta scricchiolando al suo passaggio, tutto era rimasto perfettamente intatto come fosse stato ibernato.
“Chi non muore si rivede” aveva tagliato il silenzio una voce spenta e stanca, un ragazzo magro dal fisico asciutto messo in risalto da un paio di pantaloni scuri come i suoi capelli era seduto su di un bancone ad angolo intento ad allineare in una scatola alcuni proiettili di un grigio chiaro.
“Era troppo forte per me il richiamo di questa città” gli aveva risposto guardandosi intorno.
Aveva un modo di fare le cose, Victor, che non ti lasciava respirare. Il modo altezzoso di muoversi, la R francese, ricordo di un padre che non aveva conosciuto, il tono basso di chi sa di essere ascoltato, il timbro caldo della voce. Gli davano un'aria di superiorità, lo facevano stare un gradino sopra tutti gli altri.
Il ragazzo sul bancone aveva scosso la testa riportando gli occhi dal biondo ai suoi proiettili. Era abituato ai modi di quel dispotico ragazzo, ci aveva condiviso una vita intera.
“Perché sei tornato?” gli aveva domandato poggiando la scatola sul bancone ed andando verso di lui.
“Nessun motivo particolare”
“che gran cazzata” aveva sussurrato alzando al soffitto gli occhi castani.
“Magari volevo solo salutarti Vitani”
“Victor, tu sei un pessimo bugiardo. Dai, dimmi cosa vuoi”
Il biondo gli aveva sorriso “mio fratello” erano state le uniche parole che aveva pronunciato.
Il moro si era subito incupito, il fratello di Victor era un famosissimo investigatore privato, se non il più famoso, ed era sicuramente entrato nella storia per esser stato a tanto così dal catturare l'angelo della morte. Se Victor era tornato per lui tirava cattiva aria, Vitani lo sapeva.
“Cosa è successo?”
“Ho un conto aperto con lui, lo sai”aveva detto con aria di sufficienza.
“Non ficcarti nei guai, lo sai che se-”
“Se mi prendono finisco sulla forca senza neanche passare dal via, sì, lo so, me lo hai ripetuto cento volte”
“E ho sempre l'impressione che non bastino”
“immagino sia così”
Si erano squadrati a vicenda, il tempo li aveva levigati nel profondo, eppure si sarebbero riconosciuti tra milioni.
“Non hai più bisogno di soldi Victor, perché lo fai?” aveva domandato Vitani con quella voce acerba che tagliava in due il silenzio come se avesse letto in quegli occhi matti l'ultima vita che aveva rubato.
“Non so” aveva risposto con la voce calda che invece il silenzio sembrava portarlo dentro. “Ho del tempo da perdere, e poi hai mai visto un sicario bravo come me?” Aveva domandato con arroganza.
“Sì, me”
E scoppiando a ridere se ne era andato senza salutare, sarebbe tornato, adorava Vitani, aveva pochi anni più di lui ma era stato il padre che non aveva mai avuto, dopo tutto quel tempo aveva bisogno di rivederlo, di sapere che al mondo esisteva ancora quell'unica persona che gli voleva bene.

Suo fratello aveva affermato in una conferenza stampa di non aver mai visto in faccia il serial Killer sparito nel nulla e che se un giorno quel matto fosse tornato lo avrebbe ucciso senza batter ciglio. Victor non era il tipo da farsi scivolare addosso parole così pesanti, la guerra è un gioco che si gioca in due.
Quel paese sarebbe tornato a rabbrividire sentendo il suo nome, era stato via fin troppo tempo e il suo esordio sarebbe stato dei migliori, parola di Victor J. Prince.

Imboccava strade a caso, non aveva bisogno di logica e razionalità, il suo istinto era sufficiente. Si intrufolava con abilità tra un vicolo ed un altro come se quella città gli appartenesse, come se la avesse tatuata dentro.
Un ghigno si era aperto sul suo volto.
Era stato un tatuaggio doloroso, di quelli che non puoi strappar via, che ti logorano fino in fondo. 
E lui era tornato per avere la sua vendetta.

   
 
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