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Autore: MorwenGwen    22/09/2014    1 recensioni
Ma Harry ci pensava sempre e poi mai a quelle ragazze, ci pensava fino alla quinta ora di lezione, ci pensava fino alle 12.03 quando Rosie entrava in classe e si accomodava 3 spalti più in basso di lui.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La quinta ora del giorno.

Ogni giorno Harry varcava la soglia dell'istituto alle 7.20 del mattino, 40 minuti prima dell'inizio della prima ora di lezione.
In maniera monotona e quasi meccanica si recava alle 7.30 alla caffetteria del Bar, quella dove Tiffany gli serviva sempre puntuale e sorridente una tazza di caffè bollente, a volte facendogli saltare la coda di studenti che si ammassavano alla cassa.
Harry la scrutava di nascosto mentre, con aria spensierata e sempre felice, serviva i suoi coetanei come se fosse nata per quello. 
La osservava ricomporre la sua chioma dorata in uno disordinato tuppo per poi tornare con le mani sulla macchinetta del caffè;
Harry lo sapeva quello che Tiffany provava, lo sapeva bene, ma faceva la parte del cieco perchè era più facile affrontare la cosa.
Tiffany era bella, era vivace, era la figura più bella e luminosa che notava alla prima ora di lezione del giorno, poco prima di recarsi in aula.

Nella sua classe di filosofia, che si svolgeva quasi sempre alla seconda ora di un qualsiasi giorno, invece, c'era una ragazza asiatica: Ming doveva chiamarsi, e aveva i capelli così neri e lisci che Harry si chiedeva come sarebbe stato accarezzarli e che profumo avessero- giurò di aver sentito una leggera fragranza di gelsomino un giorno, mentre gli passava accanto- .
Quando a volte gli capitava di poter girovagare per i cortili dell'Università, si imbatteva in una ragazza della quale non conosceva il nome, ella prontamente gli sorrideva e si aggiustava le pieghe del vestito di turno, spesso troppo corto, e dopo averlo superato rallentava la velocità dei suoi passi, quasi a volerlo torturare.
Harry lo sapeva di poter scegliere, ovunque si guardasse non poteva far altro che notare belle ragazze, non poteva far altro che fantasticarci un po' durante le lezioni di matematica,
e proprio in quelle lezioni si ritrovava spesso a pensare a Margaret, la ragazza che frequentava tutte le lezioni e poi nessuna,
quella che un giorno veniva vestita con una gonna a fiori-margherite per essere precisi, quale gioco- e un altro con un maglione che sembrava volerla nascondere;
era un pensiero leggero quella Margaret,
uno di quelli che ti distrae facilmente per tanto tempo, uno di quelli che rifaresti volentieri il giorno dopo.

Ma Harry ci pensava sempre e poi mai a quelle ragazze, ci pensava fino alla quinta ora di lezione,
ci pensava fino alle 12.03 quando Rosie entrava in classe e si accomodava 3 spalti più in basso di lui.
Non era mai riuscito a capirla, Rosie, proprio mai.
A volte fissava il foglio con così tanta insistenza che sembrava essersi addormentata,
altre i suoi occhi brillavano di fermento per l'argomento trattato dal professore.
Non sembrava mai rilassata e felice, Rosie; il suo volto era perennemente distorto in un'espressione di concentrazione, quasi un broncio, non era come Tiffany che anche nel più umile dei lavori sembrava trovarci l'oro.
I capelli di Rosie le ricadevano disordinati sulle spalle, luminosi si, ma non come quelli di Ming: sempre ordinati, lisci, profumati di gelsomino, brillanti nel loro essere neri.
In realtà Harry non sapeva di cosa profumasse Rosie, immaginò di rose per analogia,
così come Margaret indossava la sua gonna decorata con le margherite.
Rosie era minuta, magra- forse fin troppo- e non si preoccupava affatto dello sguardo che Harry le rivolgeva poco prima di uscire dalla classe, non rallentava il passo per farsi osservare meglio ma spariva dietro il primo corridoio che dava sulla sinistra.
Rosie era bella, a modo suo, era sempre disordinata, fasciata da una serie di vestiti che ne nascondevano le inesistenti forme;
a differenza di Margaret lei era un pensiero strano, uno di quelli che il tempo invece di farlo scorrere veloce lo blocca.
Non era bello pensarla, era... stancante, perchè ogni qualvolta Harry la osservasse il peso del suo broncio gli si accumulava automaticamente nel petto. La voce di Rosie era quasi rauca, stanca, combattuta da una serie di sentimenti che si alternavano ad ogni sua frase;
gli occhi invece erano velati impedendo a qualsiasi persona di esaminarli, di esaminarla.
Rosie rendeva le giornate di Harry più lente, più pesanti, più riflessive, le 5 ore di lezione pesavano come 10 dopo averla vista;
ma si rese conto di preferire vivere 10 ore di lezione al giorno e vederla una mezz'ora in più piuttosto che star seduto due ore intere al Bar osservando Tiffany, o Ming allisciarsi i capelli, o Margaret saltellare nella sua gonna.

Harry era rapito dal pensiero di Rosie, dal pensiero di qualcosa di stranamente pesante, perchè delle cose leggere era stanco.
Le cose leggere svanivano, proprio così come sorgevano nella sua mente, ondeggiavano tra i suoi ricordi come una piuma che si posava dove poteva in base al vento. Rosie invece era un'incudine: non permetteva a nessuna folata di vento di spostarla, se ti entrava in testa non se ne andava facilmente e ad Harry andava bene così.
Gli andava bene che Rosie oscurasse un po' il mondo, rendendolo un po' più fresco, un po' più vivibile.
Rosie era quel venticello di Agosto che ti faceva sempre piacere ma che verso gli inizi di Settembre cominciava già a farti gelare le vene, e ti faceva cambiare idea. Harry la stava osservando 3 spalti sopra di lei,
con il gomito poggiato sul banco e la testa poggiata a sua volta sul palmo della mano aperto,
lei si voltò nella sua direzione e gli sorrise, con il volto leggermente coperto dai capelli annodati,
gli occhi lo salutarono educati e quasi contenti, circondati da due grandi occhiaie violacee forse portate dallo studio notturno.

Rosie non poteva essere leggera, non doveva.
Harry se lo era ripromesso.
Rosie era quel pensiero che ti riportava con i piedi per terra, che quando aprivi gli occhi: c'era. Esisteva.
Era quel qualcosa che ti rendeva un po' più pesante.
Un po' più con i piedi ancorati per terra, circondato dalla realtà.
Un po' più vivo.
   
 
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