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Autore: berlinene    05/10/2008    9 recensioni
ahem...Prima classificata al terzo concorso di Endless Field "Quelli che il calcio...". C’è un “E se…?” che ha sempre stuzzicato la mia fantasia riguardo a Ken: e se succedesse qualcosa a suo padre e lui dovesse tornare a occuparsi della palestra? In occasione del concorso ho trasformato questo “E se…?” nel pretesto per far partire la riflessione di Ken sul calcio. Vi prego di apprezzare anche lo sforzo nell’uso dei nomi originali…Enjoy.
Genere: Sportivo, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ed Warner/Ken Wakashimazu
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Abbraccio tutti voi, ma nessuno si offenda se dedico questa FF in modo particolare ad Akuma... because Ken will always be PRICELESS

RIPENSO

Ripenso…

Ripenso a come, d’istinto, respinsi quel primo tiro di Kojiro. Fece male, ma non lo detti a vedere.

Ripenso alla gragnola di colpi cui mi sottoposero lui e il mister Kira nei giorni successivi.

Ripenso ai lividi. A quante mattine alzarsi da letto è stato penoso.

Ripenso alle pallonate in faccia, nello stomaco, al cuore.

Quando il polso si gira all’indietro e le dita si piegano.

Quando a dispetto di ogni istinto d’autoconservazione ti getti sui piedi di uno che sta per sferrare un calcio.

Ripenso a tutte le volte che, lo sguardo fisso sul pallone, sono andato a scontrarmi col palo. E la solita battuta: guarda che è sempre stato lì. Ah, ah.

Ripenso all’incidente e a quanto è stata dolorosa la riabilitazione perché volevo tornare. Tornare a cadere, a prendere pallonate. E insulti.

Ripenso alle bordate di Schneider. Al piede di Napoleon. Al mio polso che fa crack.

Ripenso al macigno di responsabilità che sentivo sulle spalle. È colpa tua Ken, se siamo pari, sei stato tu a incassare tutti quei goal. E ora sei tu che ci devi portare in finale. Tu non ci sarai è vero, ma lo devi fare per noi. Devi parare quel rigore, Ken. Devi costringere il pallone a urtarti il polso spezzato. Devi andargli incontro. Il pallone è tuo amico. Già, e come spesso succede con gli amici, ti fa male.

Ripenso al mister Mikami che dice col suo sorrisetto sadico: “…e in porta Wakabayashi”. Dice anche “Wakashimazu sei un perdente”, ma lo sento solo io.

Ripenso a quei cazzo di pugnali che sono gli occhi scuri, freddi e determinati di Wakabayashi. Ma perché esisti, perché?

Cos’è il calcio per te, Ken? Quante volte me l’ha chiesto con rabbia mio padre. E quante Kojiro con la voce impastata dopo una notte in giro per locali.

Dolore, ecco cos’è.

Ma non sapevo davvero cosa fosse il dolore fino a oggi, fino a ora. Su questa scomodissima sedia di legno, con la scritta “Terapia intensiva” che riempie il mio campo visivo. Con mia madre prostrata e in lacrime al mio fianco. Con mio padre che lotta per la vita.

Eppure non riesco a non pensare che adesso dovrò occuparmi della palestra, che il sogno è finito. Adesso il calcio è un sogno. No, Ken, non ricordi? Era dolore. Non è un sogno è un incubo di dolore. E ora che è finito dovresti essere contento, no?

Guardo di nuovo mia madre e risento quella conversazione fra lei e papà, che spiai, l’orecchio incollato alla porta della cucina. Mia madre era stata a prendere la mia pagella e papà voleva sapere com’era andata.

“Sai che Ken è bravo a scuola, però gli insegnanti dicono che è un po’ timido. Dicono che uno sport di squadra gli farebbe bene, per socializzare. E anche io sarei più contenta se imparasse qualche altro modo per rapportarsi agli altri che non sia fare a botte”.

“Il karate non è fare a botte. È una filosofia, è disciplina. E Ken ha un potenziale enorme”.

“Ma ha detto che vorrebbe giocare a calcio… Mi pare una buona idea… io penso che non dovremmo opporci-”

“Sta’ zitta!” urlò mio padre battendo il pugno sul tavolo. “Lui diventerà quello che da secoli sono tutti gli Wakashimazu: un bravissimo karateka e un grande maestro, uno dei più grandi se ancora ci capisco qualcosa”.

Mamma mi ha sempre sostenuto. E so che non è stato facile opporsi al marito. Eppure alla fine papà si era convinto. Era anche un pochino orgoglioso di me, credo. Ma ormai non c’è più scelta. Avrei dovuto smettere. Eppure una cosa mancava ancora. L’ultima partita.

Mio padre aveva avuto un ictus nel cuore della notte. Ma ce ne eravamo accorti solo al mattino, quando mamma non era riuscita a svegliarlo. L’ambulanza, l’ospedale e poi quella diagnosi che non lasciava scampo: “Il suo cervello è stato troppo senza ossigeno: non si risveglierà”. Tutto così in fretta che non avevo avuto tempo di chiamare nessuno, neanche Kojiro, neanche Sawada, neanche il mister della mia nuova squadra. E quel pomeriggio avevo una partita. Decisi in un attimo che avrei detto tutto dopo. Solo io avrei saputo che era l’ultima e l’avrei giocata come tale.

Indosso la mia migliore espressione indifferente. Per fortuna non sono uno che ride e parla molto, per cui nessuno si accorge di nulla.

Come gesti di un rituale antico, metto la divisa. Mi soffermo un attimo a osservare il numero uno sulla schiena. Infilo gli scarpini e poi i guanti. Come saranno nude le mie mani senza di loro. Infilo la testa sotto il rubinetto e poi scuoto i capelli, schizzando tutti, fra le proteste generali. Poi avrei tagliato anche quelli. La morte cerebrale di papà sarebbe stata anche la morte del vecchio Ken.

Il corridoio, il tunnel che porta al campo, la luce del sole che, uscendone, ti ferisce gli occhi. Solo un attimo, poi riesci a distinguere il pubblico, non molto ma fa lo stesso. Riconosci qualche faccia amica e quello ti basta. A bordo campo i compagni stanno già facendo riscaldamento. Mi posiziono vicino a loro ma non troppo e mi metto a fare i miei esercizi. Entra l’altra squadra, non so chi sono ma so già che oggi avranno le facce dei miei avversari preferiti.

Tsubasa, Misugi, Matsuyama, Schneider, Napoleon…

Mi posiziono fra i pali. Sorrido pensando a mia madre che voleva per me uno sport di squadra perché socializzassi. E io ho scelto comunque la solitudine, come sul tatami di mio padre.

Il solo vestito diverso.

Il solo a poter toccare la palla con le mani.

Il solo che non può sbagliare.

Solo, imprigionato fra i pali, la rete e le righe bianche di un’area di rigore, da cui puoi uscire solo a tuo rischio e pericolo.

Solo come il numero uno sulla schiena.

Solo come un portiere.

Il calcio per un portiere è solitudine.

E allora perché? Davvero in questi anni non ho fatto che perseguire il dolore e la solitudine? Solo pochi secondi dopo, è il fischio dell’arbitro a dare risposta a queste domande. Quel suono acuto e penetrante e poi il leggero tump del calcio di inizio sono nel mio corpo un brivido e il cuore che perde un colpo. L’adrenalina. L’emozione. La sfida. La voglia di superarsi. Un piacere quasi sensuale.

Il mio corpo si muove da solo, d’istinto, probabilmente sto giocando molto bene ma non è la partita di oggi che vedo.

Vedo il rigore di Matsuyama… il mio esordio. Vedo la prima finale con la Nankatsu e poi tutte le altre. E poi la Nazionale… Levin, El Cid , Napoleon, Schneider.

L’ennesimo tiro che si spegne fra le mie braccia è accompagnato dal triplice fischio dell’arbitro che mi riporta bruscamente alla realtà. Tutti i compagni mi corrono incontro. Mi sa che abbiamo vinto. Qualcuno mi grida che ho giocato una partita perfetta. Sono contento, l’idea era quella. Forse l’ho detto ad alta voce perché tutti mi guardano straniti. Come se parlassi di qualcun altro racconto ai miei compagni e al mister quello che è successo. Il mister mi mette una mano sulla spalla. Mi dice di prendere un po’di tempo per pensare e decidere.

Ma non sa che tutto è già deciso da tempo?

Di colpo mi ricordo che ho lasciato mia madre sola e disperata. Il calcio ha portato ancora solitudine e dolore. E per giunta a mia madre. A me può fare tutto ma non a lei… Non ha più importanza, comunque. È finita.

Lungo la strada per l’ospedale passo di fronte a un barbiere. L’avevo giurato. Entro: non c’è nessuno. Mi siedo sulla poltroncina e dico semplicemente: “Taglia”.

Quando esco i capelli mi arrivano appena a metà orecchio.

Quando giungo all’ospedale vedo mia madre singhiozzare abbracciata a un ragazzo che avrà più o meno la mia età. Un artiglio d’acciaio mi stringe il cuore, una sensazione di vuoto e la consapevolezza che mio padre non c’è più. Il calcio mi ha tenuto lontano anche da mio padre sul letto di morte. Cos’altro vorrà ancora da me? E cosa vuole quel tizio che consola mia madre, lo dovrei fare io.

“Mamma” sussurro.

“Oh, Ken, tesoro, amore di mamma… Abbracciami pulcino, papà…”

“Mamma io non c’ero, perdonami…”

“Oh, tesoro, papà non avrebbe mai voluto che ti perdessi la partita, lo sai”.

A dire il vero non lo sapevo. Credevo che preferisse sapermi sul tatami.

“Ken, mi dispiace tanto” interviene il ragazzo tendendo le mani per abbracciarmi. Devo essermi ritratto perché lui mi ha chiesto: “Non ti ricordi di me?”.

Ho scosso la testa.

“In effetti eravamo ancora piccoli l’ultima volta che ci siamo visti, mi chiamo Toshio Wakashimazu, sono un tuo lontano cugino, piacere”.

Sono passati tre giorni dal funerale. Toshio, che ha trentacinque anni, è sposato da poco e ha una bambina piccola, ci è stato di grandissimo aiuto per sbrigare tutte le pratiche, gestire i parenti etc. Però non capisco perché continui a vivere in casa nostra.

Stamattina ho deciso di andare in palestra. L’intenzione era solo di cominciare a sistemare un po’ le cose ma ho messo comunque il kimono.

Con mia grande sorpresa Toshio è lì che si sta allenando. Evidentemente neanche lui esula da “quello che da secoli sono tutti gli Wakashimazu”.

“Buongiorno, Ken. Ti va di fare due scambi?”

Annuisco.

Prima ancora che me ne accorga mi trovo a parare i suoi attacchi e solo a fatica riesco ad attaccare a mia volta. Di lì a poco mi atterra addirittura.

“Sei davvero bravo” ammetto.

“Ah, è solo perché sei fuori allenamento… comunque grazie, sono contento che la pensi come tuo padre”.

“Che vuoi dire?”

“Beh, se ha scelto me è evidente che mi riteneva il più idoneo in famiglia”.

Evidentemente c’è qualcosa che mi sfugge.

“Perdonami, Toshio, ma non capisco”.

“Beh, è vero che non doveva andare così, doveva succedere fra un po’ e tuo padre avrebbe dovuto affiancarmi ma… Aspetta un attimo, Ken… tu lo sai, vero?”

“So cosa?” dico, un po’ irritato.

“Che tu padre mi aveva chiesto di venire qui ad aiutarlo con la palestra, con la prospettiva di sostituirlo quando avrebbe deciso di andare in pensione. Poveraccio, non c’è arrivato…”

Sono rimasto senza parole. “Io… non ne sapevo niente” balbetto.

“Io… Tuo padre… insomma noi credevamo che tu volessi proseguire col calcio. Io non voglio assolutamente usurpare il posto che ti spetta di diritto, basta che tu me lo dica e me ne vado…”

Sento un grande calore diffondersi nel petto, e le lacrime salirmi agli occhi. Mio padre aveva capito. Mi aveva sollevato da quel dovere. Aveva addirittura trovato uno Wakashimatzu in modo che la palestra rimanesse in famiglia. Vorrei abbracciare mio padre ma lui non c’è più, così senza pensarci mi getto fra le braccia di Toshio che, dopo un primo momento di imbarazzo, ricambia l’abbraccio. Poi mi racconta di come mio padre lo avesse cercato e sottoposto a un duro esame e infine gli avesse proposto di venire a vivere nella nostra città per lavorare con lui nella palestra.

“Mi disse che ero abbastanza bravo ma che dovevo ringraziare un certo Kira per questa opportunità, quello che ti aveva fatto conoscere il calcio. Disse che vi aveva odiati entrambi, ma che quando il giorno della finale trovò il letto vuoto, capì che per te quello sport era tutto, proprio come per lui il karate. Capì che ti eri ribellato a lui ma che in fondo eravate uguali. Aggiunse anche che forse non era mai riuscito a dirti quanto fosse orgoglioso dei tuoi successi perché in fondo in fondo gli dispiaceva che tu non seguissi le sue orme. Ma smise di insistere e cercò me”.

È stato come scoprire un padre che non avevo mai conosciuto anche se troppo tardi. Questa notte ho dormito stringendo come un orsacchiotto il suo kimono preferito.

Solo che all’improvviso non c’era più niente di deciso, potevo fare quello che volevo. L’ultimo regalo di mio padre era stato la libertà di scegliermi la mia strada. Un regalo impegnativo, però: è molto più facile nascondersi dietro un presunto destino che assumersi la responsabilità di una scelta. Ma forse papà ci ha messo lo zampino di nuovo perché un suggerimento è arrivato dritto dal cielo.

Quando apro la porta mi trovo davanti Kojiro. Nonostante qualche giorno prima a telefono gli avessi detto che non era necessario, aveva preso il primo aereo dall’Italia ed era venuto. Non c’è stato bisogno di parole ci siamo abbracciati e poi siamo andati a correre. Abbiamo corso fino a farci scoppiare i polmoni e infine ci siamo buttati esausti sulla spiaggia.

Mi ero dimenticato quanto la fatica fisica aiuti. Ti dà una scarica di energia e i problemi ti appaiono meno grandi dopo. Sembra che il vento in faccia ti spazzi via dalla fronte, col sudore, anche i cattivi pensieri e che il dolore dal cuore si travasi nei quadricipiti. O forse è che Kojiro è di nuovo con me.

“Mi manchi, capitano” ammetto, ansimante

“È per questo che ti sei tagliato i capelli?” risponde lui ridendo. Poi aggiunge: “Anche tu”. La luce arancio del tramonto bacia la sua pelle bruna, resa dorata dal sole italiano, e i capelli corvini da cui ad ogni movimento stillano minuscole goccioline di sudore. È così bello.

“Ken” riprende tirandosi su facendo leva sul gomito e voltandosi verso di me. Il suo viso, in controluce, è nascosto nell’ombra e posso solo indovinare i movimenti delle labbra sottili. “Vieni con me. In Italia ci sono tante opportunità per uno bravo come te. Persino alla Juve, forse”.

La fa facile lui. Eppure, mi trovo a pensare con un sorriso, lo seguirei ovunque. Mia madre sembra aver trovato un nuovo equilibrio grazie a Toshio: è tutta presa dal pensiero della moglie e della bambina che a breve verranno a stare da noi. Forse Kojiro ha ragione. La morte di mio padre è stato un segno, è ora di dare una svolta. Certo mamma non sarà entusiasta che io parta ma mi ama troppo per impedirmelo. E così partirò per l’Italia e lascerò che ancora una volta sia il calcio a decidere della mia vita. Non sarà facile, forse starò male, forse mi sentirò solo ma ci sarà Kojiro con me e poi… chissà.

Il calcio è dolore, solitudine ma anche amicizia, amore persino, forse.

Il calcio è la vita.

La mia vita.

È vero... ho ceduto alla vena tragica... chiedo perdono.

Grazie ancora alle Webzie per aver ritenuto questa mia degna dell'onore del primo posto. Ancora non ci credo...

   
 
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