Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: Mariarrow    23/09/2014    0 recensioni
La vita di Desmond Miles, un modesto barista che allieta le serate dei clienti con gustosi e originali cocktail, procede ordinaria senza ostacoli. Dietro il suo sorriso spensierato, però, si cela un doloroso rimpianto, e dietro l'angolo della strada che percorre ogni giorno per andare al lavoro si nasconde la misteriosa sagoma di un uomo sconosciuto pronto a insegnare a Desmond che ignorare il proprio passato non equivale a cancellarlo e che, prima o poi, con i propri ricordi bisogna fare i conti.
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Desmond Miles, Lucy Stillman, Rebecca Crane, Shaun Hastings, William Miles
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
NOTAAlcuni dei dialoghi sono tratti più o meno liberamente dai diversi titoli della saga di Assassin's Creed.


Image and video hosting by TinyPic



 
“Goooodmorning, America!” fa la voce squillante del conduttore radiofonico, in una pessima e fastidiosa imitazione di Robin Williams.
Come ogni mattino, alle undici precise la radio si accende e mi sveglia. Come ogni mattino, mi giro pigramente nel letto e con un gesto vagamente deciso e soddisfatto la zittisco.

Quando mi alzo al mattino, Alvin e Nathan sono già usciti e già da un pezzo si dimenano fra la folla, con i loro completi firmati e le loro cravatte costose. Lavorano a Wall Street. I loro fermacravatte costano tanto quanto il mio intero guardaroba, eppure condividono con me un mediocre appartamento a Brooklyn, con tre stanze e un bagno solo. La proprietaria è una signora italiana che indossa solo abiti a fiori ed ha la strana abitudine di gesticolare e toccarti mentre parla con te. Non è una cattiva signora, però. La domenica ci porta il sugo con le polpette.

Mi allontano dalla mia camera per raggiungere la cucina, dove trovo come al solito la macchinetta del caffè semi-vuota, due tazzine sporche nel lavandino e una scatoletta di cartone di Dunkin’ Donuts con un bigliettino per me. Mentre addento la mia ciambella ripiena di crema alla nocciola, mi avvicino alla finestra e con il dolce stretto fra i denti la spalanco e inspiro profondamente l’odore della città. Tossisco, e le briciole si spargono sul davanzale incrostato delle macchie di caffè.

New York. La grande mela. La città metamorfa che mi ha accolto nel suo ventre per nove anni. Nove anni di latitanza, in mezzo ai grattacieli e alle masse erranti dei turisti in qualunque periodo dell’anno. La città costantemente attraversata da una folla informe di persone sempre in ritardo.  New York City. La città può sembrare un vampiro, a volte. Ti frega sempre i momenti migliori, li succhia via appena sono cominciati, e non fai in tempo a viverli che già sono andati, scomparsi. Spettacolo abbagliante di luci e movimenti, di rumori, odori, forme sempre diversi. L’atmosfera naif di Soho, con i suoi palazzi di ghisa e  i colori scintillanti. Il caffè con la panna che puoi sorseggiare seduto all’una del mattino in un coffe shop di China Town, circondato da anziani uomini asiatici e scrittori insonni in cerca di ispirazione. Il profumo del cibo e il rumore invitante delle stoviglie che si percepisce passeggiando per Little Italy all’ora di pranzo e mi fa essere impaziente che la domenica arrivi e porti con sé le polpette della padrona di casa. E poi Broadway, e la moltitudine dei musei, le piazze, i boulevard, la musica dei neri di Harlem. Semplicemente, New York. Qualcuno mi disse, in qualche posto che non ricordo “Se non hai niente, va’ a New York. Così se te ne vai a mani vuote, nessuno ti chiede perché, e se te ne vai con qualcosa, sei un fortunato figlio di puttana.” E così è lì che andai.

All’inizio sono rimasto abbagliato. Il cambiamento radicale si è fatto presto sentire. Sceso dal traghetto ho avvertito sul viso la sensazione frizzante di una sferzata di libertà che si mescolava al vento fresco di settembre. Mi guardavo intorno e ovunque vedevo gente affaccendata, che calpestava con noncuranza il suolo di New York, come fosse abituata al sapore della libertà e ormai la buttasse giù senza neanche pensarci, senza assaporarla, come stavo facendo io. Pregustavo il momento in cui quella familiarità alla libertà avesse colpito anche me, e già mi vedevo camminare sicuro per le strade, schivando gruppi di turisti che all’improvviso inchiodano, attratti da una bancarella, da una vetrina o da un’insegna luminosa. Ero un uomo nuovo. Rinato. Solo, ma vivo. Mi aspettavo che il passato fosse automaticamente cancellato, ma mi sbagliavo. È risultata una battaglia difficile, ma l’eccitazione che la città mi trasmetteva, le mille opportunità, il sogno che pendeva nell’aria e al quale tutti mi sembrava si aggrappassero mi dava rinnovata forza. Eppure sono qui, nove anni dopo, in piedi di fronte ad una finestra che affaccia sui binari di un treno, stordito dal rumore, frastornato dal mal di testa. Lo splendore svanito. La vecchia amarezza tornata al solito posto, alla bocca dello stomaco. Di nuovo le stesse sensazioni, la stessa pesantezza. Ancora una volta, stanco.

Ma la giornata, come le altre, ugualmente deve essere affrontata. La ciambella è terminata, e con essa il tempo tanto prezioso quanto sfuggente che al mattino posso dedicare alla coscienza dell’essere al mondo, fra la colazione e la partenza. Mi lavo in tutta fretta, ma la malinconia quest’oggi sembra una macchia più ostinata e non vuole andare via con una spruzzata d’acqua sul viso. Lo scaldabagno è rotto. Il contatto con l’acqua ghiacciata mi riporta all’infanzia, quando il suono della campanella, poco prima che il sole spuntasse dalle colline, cinque volte a settimana, significava in piedi prima del gallo e un tuffo nel torrente per darsi una svegliata.

Giusto il tempo di indossare i soliti vestiti e, via, attraverso le scale in un baleno. Saluto i dirimpettai con un gesto educato, ma freddo; mi mimetizzo fra la folla come per sfuggire ad un misterioso nemico senza volto. Scendo, inghiottito dal sottosuolo della città pulsante. Mi abbandono sul sedile della metropolitana, mi lascio cullare, e nel tragitto da Brooklyn al centro ho il tempo di ascoltare le conversazioni stravaganti degli altri passeggeri. Le studentesse soddisfatte che hanno saltato un giorno di scuola si snodano con fare tronfio le cravatte dal loro collo sottile. Uomini in completo borbottano del prezzo delle azioni. Un uomo atletico si accarezza i muscoli credendo che l’aria pesante della metropolitana e i granelli di polvere che si sfidano in una gara attraverso i raggi di luce intermittenti lo proteggano da sguardi indiscreti. Non riesco a trattenere una risatina di scherno, ma il sorriso divertito lascia presto spazio all’invidia che suscita in me l’immagine di un uomo e di una donna dalla pelle scura e dagli sguardi che vegliano senza distrazione sul sonno di una creatura avvolta con dedizione in un morbido fagotto, mentre con dolcezza si sfiorano l’uno le dita dell’altro, indugiando sulle pieghe, sulle nocche, sulle rughe. E il ricordo di mia madre affiora spontaneo, senza che io possa fare nulla per resistervi. Il colore dei suoi occhi, la morbidezza dei suoi fianchi, il suono della voce rotta con cui ha pronunciato le ultime parole che ho sentito da lei. Ripeteva il mio nome. “Dove vai? Perché ti allontani? Perché non torni da me?”

Mi faccio sopraffare dal rumore dei motori. Cambio a Washington Square. Smonto a Triangle Plaza. Seguo la moltitudine variopinta di persone su per le scale del sottopassaggio, risalgo dal sottosuolo come un morto vivente, con la luce di mezzogiorno che mi acceca e il sole di fine agosto che mi tiene caldo. La passeggiata di dieci minuti fra la fermata della metropolitana e il bar è sempre piacevole, anche se la sensazione non dura mai.

Il venerdì è al solito una giornata impegnativa. La prima serata del weekend: la gente ansiosa di divertirsi sprofonda nelle poltrone attorno ai tavoli e, assetata, reclama da bere per iniziare a festeggiare la fine tanto desiderata di una intensa settimana di lavoro. Non c’è un minuto da perdere.
 
 

 


 


L’insegna del Bad Weather è accesa, segno che lì dentro fervono i preparativi già da prima del mio arrivo. Il neon sibila dentro ai tubi, la luce va e viene. Dentro, Jenny è impegnata a sistemare i tavolini sui pavimenti freschi di lucidatura. Mi saluta con un sorriso malizioso, io mi avvicino, ma Derek, il proprietario, è più veloce di me, mi afferra per il braccio e mi trascina dietro al bancone per discutere del programma della serata. Mi sta vicino, mi guarda insistentemente, credo che abbia una cotta per me. “Per il tuo aspetto seducente!” disse “Per il tuo sorriso vincente!” rispose, quando sorpreso gli chiesi anni prima per quale motivo avesse scelto proprio me per servire i cocktail nel suo locale. Dopo di che, mi mostrò il bancone e mi lanciò uno shaker.

Questo lavoro mi è piaciuto sin da subito. L’idea di allietare le serate altrui con coloratissime bevande mi rende felice. Gli altri ragazzi che lavorano al Bad Weather sono simpatici, anche se un po’ stravaganti.

Jenny è una ragazza dolcissima, sebbene cerchi di sembrare una dura, con i tuoi tatuaggi e i lobi dilatati. È una studentessa di arte, lavora al bar solo per mantenersi gli studi e pagare l’affitto di un monolocale a Brooklyn. Poi c’è Harry, o meglio Harold, per essere precisi. Il mio aiuto barista: un misto affascinante fra David Bowie e Ernesto Guevara. Battuta pronta e dita guizzanti, un vero intrattenitore, ma all’occorrenza sa tirar fuori il suo lato da inglese misterioso e le ragazze impazziscono per il suo accento da principe William. La sua specialità è il Long Island Iced Tea. Che a nessuno venga in mente di dirgli che chiunque nel raggio di cinquanta chilometri sa perfettamente che lui non è delle colonie. È così orgoglioso delle sue origini che costringe Derek a sintonizzare la tv sulla partita quando gioca il Manchester United. Da bravo britannico consiglia ai clienti più sconsolati di innaffiare la loro tristezza in abbondante birra scura e  un paio di salsicce, che non guastano mai. Rosie, beh, Rosie è sensazionale. Si muove agilissima fra i tavolini e prende le ordinazioni a ritmo di musica. Mi batte sempre a biliardo, le dovrò almeno trecento dollari. Come se non bastasse, è la migliore anche a freccette.

Fra i grotteschi tentativi di abbordaggio di Harry e le sfide all’ultima birra attorno al tavolo da biliardo, le serate passano in un battito di ciglia al Bad Weather. La compagnia è insostituibile, ma la cosa che mi piace più di tutte, è starmene lì, in piedi dietro al bancone: assistere all’ingresso dei clienti, ai loro movimenti plateali, alle danze, quando la band inizia a suonare.  Il silenzio che regna prima dell’apertura si trasforma in un turbinio di voci stonate ma talmente intense da superare il volume della musica quando i clienti riconoscono una canzone famosa. Cantano, ed intrecciano mani e gambe sulla pista da ballo, muovendosi vorticosamente a ritmo di musica, trascinando i loro amici più timidi nella mischia. La musica stordisce, rimbomba energicamente nella cassa toracica, centoventiquattro battiti al minuto, il doppio della velocità del cuore.

Qualcuno nella folla mi riconosce e mi saluta, avvicinandosi al bancone e dandomi pacche sulle spalle, stringendomi la mano, parlandomi amichevolmente mentre io faccio volteggiare lo shaker per aria. “Des, vai alla festa dopo la chiusura?” Rispondo di no, che sono stanco, che per stasera passo, non mi va. “Des, cos’è quel drink che mi hai fatto l’altra sera? Quello che ti sei inventato?” domanda Derek, volutamente ad alta voce, attirando l’attenzione di un gruppo di instancabili ballerini che lo circondano. “Lo Shirley Templar?” Uno di loro interrompe la danza e incuriosito si avvicina al bancone, facendosi spazio con i gomiti fra gli avventori che gli rubano la scena. “Shirley Templar? Che cosa c’è dentro?” mi chiede, ancora affannato. Un goccia di sudore gli scivola lungo il viso arrossato. “Il solito, con un’aggiunta di gin” Alla mia risposta ride, sonoramente. “Perfetto! Faccene quattro, allora!” E si allontana, trascinando con sé la sua compagnia.

Me la cavo, con i clienti. Sono affabile, ma li tratto con rispetto. Parlo con loro, ma mai troppo. Tengo sempre qualcosa per me, qualcosa che possa incoraggiare i più temerari a conoscermi più approfonditamente. Ho un discreto successo con le ragazze, al bar. Derek ne è sempre circondato, e neanche questa volta si smentisce. Lo seguono ovunque, senza sosta, ridono alle sue battute. Dio, sono tutte così carine. Le minigonne, le ciglia che sbattono, le goccioline di sudore. Parlano continuamente, ogni tanto ridono, si muovono sinuosamente, piano, si toccano i capelli maliziosamente. “Com’è la vita a Omaha?” “Noiosa” “Ci sono bei ragazzi?” “Solo se ti piace il campagnolo sudaticcio e stupido” . Risate. “E tu di dove sei?”. Derek non mi lascia rispondere. “È cresciuto in una setta o roba del genere. Sai… nell’ovest.” Le ragazze lo guardano stupite e affascinate. “I miei erano dei fricchettoni cospirazionisti” aggiungo, alzando la voce a fatica, per coprire il frastuono della musica. “Vivevano isolati, nei boschi” “Sul serio?” “Sul serio! Erano completamente suonati. Fuori di testa!” Il mio racconto li diverte. Ridono, e rido anche io, della mia famiglia, del mio passato. Scherzo su tutto, persino sulla fine del mondo. Ma mentre gli scoppi fragorosi di risa intorno a me si fanno più intensi, il mio senso di amarezza ritorna, e al ritmo di musica pulsa nella cassa toracica, fa capolino, fra un battito e l’altro. “Ti va di ballare?” una di loro chiede con tono supplichevole. “Avanti. Coraggio!” Coraggio, Desmond, mi ripeto.

Coraggio.

Lasciati andare.

Dimentica.

 
 

 

 
Il venerdì sera era molto diverso, alla Fattoria. Il pasticcio di carne per cena. Un unico bicchiere di vino che i ragazzi più grandi ingurgitavano con avidità. Niente musica assordante. Nessuna ragazza in minigonna. Probabilmente quella stessa sera, la sera del 31 agosto di dieci o undici anni fa, dovevo essere seduto per terra, su quel suolo sacro per i nativi americani, con i pantaloni sporchi della sabbia scura delle Black Hills, accanto a un fuoco. Circondato da una decina di altri ragazzini, di diverse età, cercavamo di restare in silenzio, e fermi, nonostante la noia ci pizzicasse le gambe come fosse un insetto. Mancava poco, ormai. Ancora un’ora, o al massimo due, e poi avremmo avuto il permesso di alzarci e tornare nei nostri bungalow. Prima, però, avremmo dovuto prestare attenzione ai racconti che gli adulti, a turno, recitavano, guardando fisso nel fuoco, quasi che vi leggessero il passato e il futuro. Una ventina di coppie, immobili e assorte, tenendosi solidalmente la mano, attendevano il loro turno. Gli Assassini. Sono nato fra loro, destinato a diventarne adepto, non per mia scelta, ma come per una specie di diritto di nascita. Fin da quando ero piccolo non hanno fatto che ripetermelo. “Tu sei un assassino” mi dicevano “e questo è il nostro credo: nulla è reale, tutto è lecito.” Ma cosa voleva dire? Nulla è reale… un mondo senza scopo, forse? Un mondo in cui un manipolo di ragazzini è costretto ad alzarsi dal letto prima dell’alba, un mondo di uomini e donne capaci di non legarsi a niente e a nessuno, pronti a far fagotto e a scappare via da casa in sessanta secondi se loro ci avessero trovati. “Ci stanno cercando. E non si fermeranno finché non saremo tutti morti.” Erano tutti così seri. Ma anche spaventati. Tutti quei discorsi su Assassini e Templari, sulla fine del mondo. Una guerra antica, infinita. Ma quale guerra? Per che cosa combattiamo? Ero l’unico a farmi delle domande, a mettere in discussione quello che ci davano a bere? Mi guardavo intorno, mi sembrava di sì. Immagino che fossi solo, tutto sommato
.
Solo, in mezzo alla gente.

Se ne avessi parlato con qualcuno, magari avrebbero condiviso i miei dubbi. Ma mio padre non ne voleva sapere, sapeva solo ripetermi sempre le solite frasi. “Sono ovunque, Desmond. Hanno le mani in ogni cosa. Politica, guerra, finanza, tecnologia, agricoltura. La gente dorme, e mentre sogna la Abstergo costruisce un incubo.” Era questa, per lo più, la sua argomentazione più forte. Le sue parole davano forma alla cospirazione globale.

La Abstergo Industries. Una compagnia farmaceutica gestita dai templari. Tentacoli ovunque: governi, università, multinazionali nelle loro mani. La minaccia terribile che incombeva sulle nostre vite, sulle nostre case, costringendoci a vivere con poco, quasi come nomadi. Tutto quello che finiva sulla nostra tavola era stato coltivato nei nostri orti; gli abiti che indossavamo, cuciti dai sarti più abili. Qualcuno, alla Fattoria, era sempre sveglio, a qualunque ora. Quando finalmente la giornata terminava, noi bambini andavamo a letto e i grandi restavano svegli per ore, a pianificare il lavoro del giorno dopo e i turni di guarda notturni. Vivevamo nel terrore che tutto potesse finire. Nell’illusione che le nostre assurde precauzioni potessero salvarci la vita, che tutto sommato non avremmo mai dovuto lasciare casa. Casa. È una parola strana da usare, per riferirsi alla Fattoria. Non che assomigliasse, a una vera Fattoria. Certo, coltivavamo qualcosa, allevavamo qualche animale, ma più che una Fattoria sembrava una Fucina. Già alle quattro del mattino, uscendo ancora assonnato dal bungalow numero sette sentivo il rumore dei generatori in funzione da un pezzo, l’odore del legno bruciato e la puzza di gasolio che ti faceva passare la fame nonostante la sera prima avessi saltato la cena. Sembrava di essere tutti un insignificante ingranaggio di una grossa e minacciosa macchina costantemente accesa, che non badava alle esigenze di nessuno, che non si curava di sapere se quel giorno avevi mal di testa o semplicemente non ti andava di arrampicarti su una parete di roccia.

Il mal di testa era un problema quasi insormontabile, alla Fattoria. La mamma un giorno mi mostrò una scatola di analgesico. Mi raccontò che in una casa media americana ci sono almeno un trentina di prodotti della Abstergo Industries, mi diceva che eliminarli dalla loro vita era un lavoro a tempo pieno. “Non si riesce ad evitare. Ognuno sceglie le sue battaglie, tra le tante che ci sono.” Mamma e papà lo facevano sembrare spaventoso, ma io non avevo paura. Come si può avere paura di un nemico senza volto? No, non erano i Templari, né una casa farmaceutica o una manciata di pillole per il mal di testa a farmi paura. Quello che mi spaventava era l’addestramento. Ogni mattina il suono della campana ci distoglieva dal sonno. Mi sono chiesto, a distanza di anni, come facessi a prendere sonno e riposare sulle brande che affollavano i bungalow in mezzo al deserto. Dio, com’erano scomodi. E quelle specie di coperte marroni a strisce, che detestavi perché pizzicavano le gambe più instancabili delle zanzare, ma alle quali dovevi la vita, perché senza saresti morto congelato sulla branda durante le notti d’inverno. Eppure, nonostante tutto, quei bungalow erano la nostra salvezza.

La mia, almeno.

Durante le ore interminabili dell’addestramento e dello studio non facevo che pensare a quando finalmente sarei tornato nel caldo di quello che chiamavo letto, al sicuro nel fortino che ogni sera costruivo con i cuscini. Non vedevo l’ora di tornarmene lì, dove davvero mi sentivo riparato, con una pila puntata sul viso e il naso immerso in un volume polveroso trovato nel magazzino adibito a biblioteca. Avrò letto decine, decine di libri. I racconti di Canterbury, le commedie di Molière, i romanzi dell’ Ottocento. Con il senno di poi, direi che non sono i libri che avrei voluto leggere da bambino, che avrei preferito il Dottor Seuss o che so io. Eppure i ricordi migliori dei miei anni alla Fattoria li devo proprio a quei vecchi libri ingialliti e impolverati. Grazie a loro ho visitato la Terra Santa, ho assistito alla costruzione di Notre Dame, ho passeggiato per le strade di Mosca, ho incontrato principi e regine, ho navigato per i sette mari.

La pazienza e la perseveranza appresi dai miei eroi immaginari mi hanno assistito, per un po’. Per sedici anni ho sopportato la stancante, impietosa routine. La marcia, il tuffo nell’acqua gelata per lavarsi, la corsa verso la mensa. Ci precipitavamo ai nostri posti, affamati per l’aria pungente e l’attività. Divoravamo con avidità la colazione poco invitante: avena col burro e succo di mela, bleah. Pochi minuti di tregua e poi l’addestramento cominciava. Avrò corso più di un milione di miglia prima dei dieci anni. L’addestramento portava lacrime, frustrazione, e qualche volta un labbro spaccato. Ma certe volte era bello. Mi piacevano quei giorni sulle colline. Il silenzio, l’aria aperta, l’oscurità della foresta. Mio padre che mi indicava le città lontane avvolte dalla nebbia e mi accompagnava in cima alla collina per mostrarmi la valle silenziosa. Le crostate alla frutta che la mamma lasciava freddare sul davanzale, la domenica mattina. Dio, se ci penso ne sento ancora il profumo sotto il naso. Gli altri ragazzi la adoravano.

I miei compagni di stanza avevano la mia età. Era incredibile pensare a quanto condividessimo, eppure a quanto fossimo diversi. Anche loro rinchiusi in quella gabbia, anche loro sottoposti all’addestramento obbligatorio, costretti a sorbirsi tutte quelle storie improbabili su Assassini e Templari. Non battevano ciglio. Non ne dubitavano, o, se lo facevano, lo  facevano in silenzio. Ricordo ancora i nomi di alcuni di loro. Mickey. Sid. Francis. Eravamo inseparabili. Giocavamo a carte di nascosto, alla luce della candela. Ci sbucciavamo le ginocchia rincorrendo un pallone sui prati. Facevamo il filo alle ragazze, alle quali l’addestramento non era risparmiato. Alcune di loro erano più brave di noi. Più agili, più determinate, più disciplinate.

Mi ricordo una di loro, in particolare.

Non saprei dire come si chiamasse, ma non posso dimenticare i suoi capelli sottili muoversi, animati dal vento, mentre correva superando con sicurezza gli ostacoli posti lungo il percorso. La chioma si tingeva di una tonalità simile a quella dell’oro quando si fermava sotto al sole del deserto per riprendere fiato alla fine di un’estenuante corsa. Le sue braccia esili sollevavano pesi con più energia di quanto avessero mai fatto le mie, i suoi occhi vispi dello stesso colore dell’acqua del ruscello alla fonte scrutavano instancabilmente le mosse degli altri. Qualche volta ho pensato che se c’era qualcuno alla Fattoria con il quale avrei potuto parlare dei miei dubbi senza vedermi lanciati contro i panini marmorei della mensa, quel qualcuno era lei. La vedevo, in piedi insieme a tutti gli altri, sussurrare a fior di labbra le parole mistiche e apparentemente insensate del credo. Nulla è reale, tutto è lecito, pronunciavano le sue labbra, ma i suoi occhi dicevano altro. Avrei voluto avvicinarla, ma mi metteva soggezione quella ragazza così forte e sicura, quella ragazza che sembrava non aver bisogno di nessuno.

Sì, certe volte era bello, alla Fattoria, ma gli sporadici momenti di normalità, i gesti e le parole che mi facevano dimenticare l’amarezza di ogni giorno, la fatica degli inutili, interminabili allenamenti, non mi avrebbero mai restituito una vita che fosse mia, davvero. Ad un certo punto iniziai a fregarmene. Non riuscivo più a sopportarlo, non ero capace di sentire la parola “templare” senza ridere. Per non parlare di Assassino… Provavo odio, o forse pena, per i miei genitori. Che senso aveva, quello che mi stavano facendo passare? Perché sprecare la mia vita in quel modo? Perché crescermi nel terrore che si sarebbe verificata una terribile catastrofe? “Un giorno capirai, vedrai. Tutto questo… disagio, sarà valso a qualcosa. Te lo prometto.” Non ci credevo più. Volevo solo andarmene. Dove? Chissà. Mi bastava che fosse lontano. Non era un granché, come piano, ma lo misi in pratica ugualmente. Avevo sedici anni. Semplicemente, mi allontanai. Qualcuno se ne accorse, e cominciò a chiamarmi a gran voce. Avvisarono mia madre e mio padre e solo allora io cominciai a correre, in preda all’estasi e al terrore, e pensai che finalmente gli addestramenti erano valsi a qualcosa. Correvo e correvo e correvo, instancabilmente, continuai a correre finché non fece buio. Trovai una radura e mi addormentai sotto le stelle. Non ho mai più trascorso una notte più serena di quella, né prima, né dopo.
 

 

 

 

 

La sensazione di calore sul mio braccio destro mi risveglia dal malinconico torpore in cui sono caduto. Mi ritrovo seduto ad un tavolino del bar, di fronte a me la bella ragazza di prima, interessata a sapere da dove venissi. Mi guarda con gli occhi spalancati, come se fosse in attesa di qualcosa. “Beh?” esordisce, con tono impaziente. Rispondo con una strana smorfia, faccio spallucce. “Ma allora! Non mi stai ascoltando? A cosa pensi?” mi chiede. Glielo dico, senza prima riflettere un attimo sull’opportunità che forse non le interessa davvero, a cosa penso. “Hai idea di come ci si senta ad essere intrappolati in un posto sapendo che c’è un intero mondo che non riuscirai mai a vedere?” La ragazza tace, mi guarda fisso negli occhi, talmente fisso da mettermi in imbarazzo. Mi sembra di averla messa a disagio, così prendo fiato, e apro la bocca, pronto a rompere il silenzio con una battuta simpatica ma lei mi interrompe. “Sì.” Dice soltanto, con naturalezza. “Sì?” le faccio eco. “Quando ero bambina, andavo sempre in vacanza ad Albuquerque, in New Mexico. I miei zii abitavano lì. Non mi piaceva per niente. Mio zio un giorno mi portò a vedere il muro. Sai, quel muro che separa l’America dal Messico, hai presente?” annuisco, interessato. “Mi ha raccontato di cosa succede al confine. Delle persone che credono che superando quel muro potranno cambiare la loro vita. E io pensavo sempre, chissà cosa si prova. A stare dall’altra parte del muro. Poi ho capito. Si prova la stessa cosa che proviamo noi. Pensiamo che fuori sia tutto migliore. Rischiamo la vita per superare quel muro, e quando ci rendiamo conto che i giorni migliori li abbiamo alle spalle è ormai troppo tardi.” Rimango a guardare la ragazza per un po’, incredulo che il discorso abbia preso questa piega.

“Così sei scappato da quel posto?” rispondo di sì. “Come?” sembra davvero interessata, così decido di raccontarle ogni cosa. Le racconto di quanto ho corso, giù per la collina, corso a perdifiato fino a non sentire più un solo rumore dalla Fattoria. Le ho raccontato della radura in cui ho trascorso la mia prima notte lontano da casa, del fiume il cui corso ho seguito per miglia. Della paura di fare l’autostop, del dolore ai talloni, del freddo che di notte mi congelava le ossa. A un certo punto ho incontrato delle ragazze dell’Illinois, gentili e spigliate, che mi hanno portato con loro a Omaha, e poi a Chicago, per due giorni di viaggio in auto. “Fino a quando qualcuno mi ha parlato di New York, e così, eccomi qua!” concludo sorridendo. La ragazza non sembra soddisfatta dal mio racconto. “Ti manca la tua famiglia? Ti manca casa, qualche volta?” “Qualche volta, sì. All’inizio mi sentivo forte, credevo che nulla avrebbe potuto sottrarmi la felicità che avevo conquistato scappando dalla Fattoria. Ma con il tempo non ho potuto fare a meno di coltivare un senso di profonda nostalgia.

Qualche volta mi sorprendo a pensare alla mamma e al papà, mi chiedo se stiano ancora lì, se abbiano avuto altri figli, se si ricordino ancora di me. Potrebbero essere morti, per quanto ne so. Se ci penso mi sento davvero uno stronzo. Sono convinto che mi volessero bene e che, a modo loro, cercassero di proteggermi, inculcandomi delle idee che non condividevo. Certo non avrebbero previsto che da un giorno all’altro me ne sarei andato. Non avevano calcolato le conseguenze inevitabili di tutta quella faccenda, sai, del credere senza capire. Ma cosa si aspettavano, da me? Che mi bevessi tutto, che accettassi di trascorrere il resto della mia vita intrappolato in quelle quattro mura, quando dalla cima della collina vedevo le luci delle città più grandi accendersi una dopo l’altra quando faceva buio e l’unico pensiero che mi vagava per la testa era “chissà come si vive oltre la Fattoria, chissà com’è la libertà.”? Ultimamente questi pensieri si stanno facendo così insistenti da non riuscire mai a metterli da parte del tutto. Certo, cerco di scacciarli via ed andare avanti con la mia vita, ma non nascondo più a me stesso ormai che quanto più sento la mancanza della mia famiglia, più provo odio per me stesso. Ho voluto fuggire in cerca di una libertà e una vita che potessi scegliermi, e adesso? Adesso mi guardo intorno, e ho tutto quello che ho sempre desiderato. Non è il massimo, è vero, ma è mio. Mi appartiene. È fatto dalle mie scelte, dalle mie iniziative. Eppure… eppure mi manca qualcosa. Sento che non sono completo, che qualcosa dentro di me chiede di essere ancora risolto, compreso, colmato. È possibile che la libertà perda il suo valore, senza una famiglia, senza i vecchi amici con cui condividerla? È possibile che nulla sia cambiato, dai miei giorni alla Fattoria? Che comunque, in un modo o nell’altro, io abbia impiegato la mia vita a combattere per niente?”.

Mi rendo conto di non aver detto neanche una di queste parole ad alta voce quando la ragazza, rassegnata, sospira e sussurra un “beh…” sommesso raccogliendo la sua borsa dal tavolino. Sono sollevato. La guardo alzarsi, osservo i suoi movimenti misurati e delicati. La vedo avvicinare la sua mano alla mia e sento che ne carezza affettuosamente il dorso. “Certe volte non vogliamo ammettere che progredire possa significare fare un passo indietro.” Dice, e se ne va, sparendo fra la folla. Forse dovrei alzarmi e rincorrerla, chiederle il suo numero di telefono o invitarla a ballare. Invece rifletto ancora un poco sulle sue parole. Progredire… un passo indietro… Ha terribilmente ragione, e la verità mi spaventa. A cosa serve voltare pagina, se non si riesce a dimenticare? A cosa serve correre lontano se non si riesce a liberare la propria mente?

Ma sto esagerando, sto drammatizzando. Come più volte ho detto a me stesso, è vero, non è una vita perfetta. E non è solo lo squallido appartamento, i coinquilini ipocriti che vivono oltre le loro possibilità economiche, il vicino ficcanaso che ogni mattina controlla se tornando a casa hai portato qualcuno con te. Non è solo il bar affollato dove lavori ininterrottamente da nove anni, il bar dove ognuno crede di sentirsi a casa, crede di conoscerti, crede che il fatto che da quasi un decennio shakeri il martini per lui vi renda amici, anzi, più che amici, fratelli. Il diritto che credono di avere di parlare con me e vomitarmi addosso tutti i loro racconti sulle donne che portano a letto, sulle auto che guidano, sulle città dove vanno in vacanza. E per il solo fatto che ascolto in silenzio pensano di essere i miei amici migliori di sempre, la mia famiglia elettiva.

No, non è solo questo.

Sono gli anni passati in una metropoli come a nascondersi fra la sporcizia e la folla, passati a tenere nascosto il mio nome per paura di essere trovato. A pagare ogni cosa in contanti, a non avere un conto in banca, a non potersi permettere una famiglia, no, ma neanche una famiglia, un cane. A non potersi permettere di adottare un cane, perché non hai una carta di identità. Nove anni di solitudine, immerso in un dedalo di strade trafficate per mimetizzarsi tra la folla, a passo svelto, le mani in tasca in segno di diffidenza. Tutto questo può essere terribile, ma ha un grosso vantaggio. È quello che ho scelto, per me stesso. È la mia vita, la mia sfuggente identità. E qui non sono un Assassino, non sono un Templare, non sono una pedina nella mani di un nemico sconosciuto. Sono solo me stesso. Sono il barista entusiasta di un bar del centro. L’orgoglioso inventore dello Shirley Templar. Sono solo Desmond Miles. Nulla di più.
 

 

 

 

 
Finalmente l’orario di chiusura. Il frastuono si affievolisce, la folla si dirada. Restano gli ultimi clienti, impazienti di pagare il conto e proseguire la serata altrove. Harry sta ancora discutendo con uno di loro sull’esito della partita di pallone, mentre Rosie porta via i bicchieri dall’ultimo tavolino appena liberatosi. Jenny è molto generosa stasera, con me. Si offre di risistemare tutto, anche il bancone del bar. “Non ho voglia di tornare a casa” dice. La ringrazio con un bacio sulla guancia, prendo la mia felpa ed esco, lasciando che la porta si chiuda lentamente, cigolando, dietro di me. Frastornato, cammino stancamente verso la fermata della metropolitana, scansando piano le persone ancora sveglie e pimpanti che vagano per la strada alle quattro del mattino. Non ascolto musica, sono già abbastanza confuso. Mi limito a sentire in sottofondo il rumore dei miei passi e delle auto che sfrecciano a tutta velocità. Non vedo l’ora di tornare a casa, di sprofondare sul letto senza neanche togliermi i vestiti. Tutto sommato non è cambiato molto dai vecchi tempi. Le giornate si ripetono tutte pressoché uguali. Anche domani la sveglia suonerà alle undici, e mi riprometterò di cambiarla. Non sarà mutato il percorso della metropolitana che mi porta sino al centro. Forse il prezzo dei pomodori Pachino al mercato sarà aumentato di qualche penny, ma ad ogni modo sarà quello il colpo di scena più mozzafiato della giornata.

Certe volte mi sveglio convinto che quella sarà la giornata che mi cambierà la vita. Al bar incontrerò la persona con la quale trascorrerò il resto dei miei giorni e finalmente vincerò alla lotteria e potrò salutare Alvin e Nathan che mangiano un panino passeggiando per Wall Street durante la pausa pranzo mentre sfreccio a bordo della mia Lamborghini. Mi dico che tutto è possibile. Nove anni fa non credevo che fosse anche solo concepibile una vita diversa da quella che conducevo, ed ora eccomi qui. È tutto così mutevole. O almeno potrebbe esserlo. Mi tornano in mente le parole del credo. Nulla è reale. È questo che voleva dire? Ogni certezza è un’illusione? Eppure i giorni hanno un po’ tutti lo stesso sapore, e ancora una volta l’avvenimento più entusiasmante che possa aspettarmi dalla mia vita è l’oscillazione improvvisa del costo delle verdure così scintillanti da sembrare sintetiche esposte sugli scaffali di WalMart al 1200 di Marketplace Drive. La presunta saggezza del credo ora, alla luce fioca e altalenante dei lampione, mi appare per quello è: una macroscopica, palese contraddizione, quando la verità nuda è che viviamo come sospesi, in stallo, aggrappandoci con tutte le nostre forze a due sentimenti contrapposti che si escludono a vicenda eppure non possono fare a meno di coesistere: la speranza che la nostra esistenza un giorno cambi e il bisogno inspiegabile che le nostre certezze restino salde di fronte agli scossoni che, ogni giorno, senza eccezione, incassano.
 

 

 

 

 

 
Mio padre sembrava trarre piacere nell’umiliarmi davanti all’intera popolazione della Fattoria. Dopo tutto, credo che queste siano le conseguenze dell’avere tuo padre come insegnante. Non era il fatto stesso che mi rimproverasse a turbarmi, ma la sensazione che ci provasse gusto nel farlo pubblicamente. Sarà pur vero che alla Fattoria non c’era tempo per dedicarsi alle tenerezze, ma gli unici ricordi che ho del mio vecchio sono spiacevoli ed hanno a che fare con umiliazioni, rabbia repressa e sabbia scura che si sporca di lacrime e sangue. William Miles si comportava come se fosse il padrone. Era l’uomo più ammirato dagli adulti e il più temuto dai bambini. Quando ci rendevamo conto al mattino, ancora assonnati, che quel giorno ci avrebbe allenati mio padre tutti si scambiavano occhiate di intesa e rassegnazione e all’improvviso sentivo il peso degli occhi di ciascuno spostarsi su di me. Quei giorni potevo percepire che tutti condividevano un odio inspiegabile nei miei confronti, come se fosse colpa mia. Quando i nostri campi visivi si incrociavano per pochi istanti, mentre saltavamo titubanti da una piattaforma all’altra del nostro percorso a ostacoli, i loro occhi si serravano e mi lanciavano sguardi fulminei come raggi di luce intensa attraverso le feritoie di una cella. Se avessero saputo che detestavo mio padre tanto quanto loro forse mi avrebbero considerato diversamente. Mi imbarazzavano quegli sguardi, erano talmente pesanti da sbilanciarmi. Per cercare di sfuggirvi abbassavo la testa, guardavo altrove, e spesso per la foga di ripararmi dal loro risentimento perdevo l’equilibrio e cadevo.

La reazione di mio padre non tardava ad arrivare. “Avanti Desmond! Maledizione, concentrati!” La sua voce si faceva sempre più intesa e chiara man mano che a grandi falcate si avvicinava a me, che me ne stavo ancora lì, disteso per terra e accartocciato su me stesso, stringendomi la caviglia dolorante. “Tirati su, scansafatiche. Mi sembra di avere a che fare con un bambino di sei anni.” E mi strattonava per un braccio, cercando di costringermi a tirarmi su sulle mie gambe. Maggiore era la mia resistenza, più dolorosa e paralizzante sarebbe stata la sua stretta. Lo sapevo, e sapevo anche che avrei fatto meglio a mettermi in piedi al più presto, ma non volevo. Il calore della sabbia umida  che aveva attutito la caduta in un certo senso mi confortava. Per qualche stupida ragione, pensavo che se fossi rimasto lì immobile abbastanza a lungo il tempo prima o poi si sarebbe fermato, o magari mio padre avrebbe perso interesse in me e mi avrebbe lasciato lì, accasciato al suolo. Ero consapevole dell’irrazionalità dei miei pensieri, ma tutto in quell’istante mi sembrava meglio che alzarmi in piedi ed espormi alle risa dei miei compagni mentre mio padre mi strillava contro sputacchiando che ero la peggiore recluta che avesse mai avuto il disonore di addestrare.

“Che problema hai, Desmond?”. Sentivo la rabbia che incalzava in lui emergere dalle increspature nel tono della sua voce. Stava sforzandosi di mantenere il controllo. “Rispondimi” e questa volta avvertii il suo fiato sulle mie guance arrossate dal calore e dalla vergogna. Mi afferrò per il braccio e mi tirò a sé, irritato e stanco. Non opposi resistenza e mi lasciai trascinare fin quando tra i miei occhi impauriti e i suoi, ribollenti di rabbia, non era rimasta che una spanna. Per la prima volta lo guardai davvero. Per la prima volta, da che ho memoria lessi sul suo viso la disillusione, lo sconforto e l’ipocrisia che le sue battaglie nascondevano. A pensarci meglio, fu forse quello il momento in cui decifrai i miei sentimenti e mi accorsi di provare per lui, e per chiunque altro in quel covo di follia, una profonda compassione.


E decisi di umiliarlo.
Davanti a tutti.

Come lui aveva fatto con me per tanti, lunghi anni.


In un moto di orgoglio, mi divincolai energicamente per liberarmi dalla sua stretta che, per quanto invincibile potesse apparire, cedette in fretta alla mia ribellione. “Vuoi sapere qual è il mio problema?” sentii queste parole di sfida riecheggiare nell’aria, incredulo che a pronunciarle fossi proprio io, il ragazzino quindicenne che fino a pochi minuti prima se ne stava raggomitolato per terra, impaurito e rassegnato. “Sono stanco di essere trattato come se non esistessi. Desmond, fa’ questo. Desmond, fa’ quest’altro. Desmond, ti conviene saltare più in alto, correre più in fretta, o il mondo finirà o qualche altra boiata colossale si abbatterà su di noi e saremo costretti a lasciare le nostre topaie per salvarci il culo e sarà stata solo colpa tua! E lo so che non sono stato tanto gentile con te in questi anni, ma avrei proprio bisogno che tu ti arrampicassi sopra quella cazzo di parete a raccogliere una stupida bandierina. Eccotela la tua risposta. Sono stanco di essere trattato come una cazzo di pedina.” Per un attimo la vista si oscurò.

Sentii l'inconfondibile ronzio che emette l'aria quando viene attraversata da un movimento rapido e deciso. Ruzzolai al suolo, protendendo le mani in avanti per proteggermi. Quando le ginocchia toccarono terra con un colpo secco e doloroso, solo allora capii cosa fosse successo. Davanti a me, vidi la sabbia tingersi rapidamente di rosso. Una goccia, poi un’altra. Mi sfiorai il viso indolenzito con una mano, avvertendo qualcosa di caldo e denso espandersi fra le mie dita rendendole appiccicose. Il naso cominciò a pulsarmi senza sosta, sempre più forte. Gli occhi mi si colmarono di lacrime per il dolore insopportabile, come di uno strappo, all’altezza delle labbra. Ancora stordito, mi girai verso mio padre facendo pressione contro il naso con il palmo che in poco tempo si cosparse di sangue; cercai di dare un senso alle immagini sfocate che prendevano forma davanti a me. Ricordo ancora il bruciore terribile e pungente del sudore che mi scivolava negli occhi costringendomi a sbattere le palpebre ad un ritmo serrato e impedendomi di mettere a fuoco, quando l'unica cosa che avrei voluto fare era spalancarli e fissare un punto alto e lontano per fermare le lacrime che mi gonfiavano ulteriormente il viso.

Impiegai alcuni istanti per inquadrare la figura di mio padre. La sua espressiome era tesa, deformata da una smorfia di rabbia, come se il pugno che mi aveva sferrato avesse liberato solo una parte dell’astio che provava per il suo unico figlio. Si sfregava ancora la sinistra contro le nocche spaccate e arrossate che mi avevano colpito, quando instancabile riprese a parlare. “Ingrato. Ti rendi conto di quello che dici? Tutto quello che faccio, tutto quello che ho sempre fatto, non l’ho fatto per altri che per te. Mi capisci? Può darsi che ti spinga un po’ oltre, a volte, o che ti faccia un po' troppa pressione. Ma niente di tutto ciò è fatto per puro piacere. È per il tuo bene, per renderti pù forte! Senza queste pressioni, ti saresti mai spinto oltre i tuoi limiti, pigro e insicuro come sei? Pensa, prima di affrontare tuo padre apertamente. Sei un insolente, irrispettoso! Datti una regolata, ragazzino. E voi, perché vi siete fermati? Forza, continuate a correre, non c’è niente da guardare qui!”.

Quando mi viene chiesto, rispondo sempre che non so cosa mi spinse a prendere una decisione così avventata come quella di scappare dalla Fattoria. Da solo, senza un soldo in tasca né uno straccio di idea su come fosse fatto il mondo all’esterno di quelle mura. Da un certo punto di vista, è vero. Quella di andarsene fu un’esigenza che maturava dentro di me da tempo. All’inizio era solo una vaga idea, una fantasticheria, anzi. “E se me ne andassi di qui?” mi chiedevo “Come sarebbe?”. Lentamente l’insofferenza crebbe sino a diventare insopportabile e fuggire sembrava davvero l’unica soluzione, per quanto spericolata e incosciente che fosse. Chi mi chiede perché sono scappato di casa probabilmente si aspetta una risposta più profonda e articolata di un semplice “Non saprei dire”, me ne rendo conto, ma spesso non ho voglia di ragionare con loro ad alta voce dei mille pensieri indistricabili che mi affollavano la mente quel giorno di nove anni fa. Nemmeno io, allora, sarei stato in grado di fare chiarezza in quel marasma di sensazioni. Eppure, a distanza di anni, quando sono solo in compagnia di me stesso e posso davvero essere sincero, non faccio fatica a capire quale fu la goccia che, una volta per tutte, trasformò la vaga fantasticheria della fuga nel bisogno incontenibile di correre verso la libertà.

Fu l’indifferenza.  La spietata, terribile noncuranza con cui quel giorno mio padre continuò il suo lavoro, dopo avermi rotto il naso e spaccato un labbro a suon di pugni. Dopo aver letto negli occhi di suo figlio che non provava altro per lui se non rabbia e forse un pizzico di compassione. La consapevolezza che io lo odiassi sembrava non aver minimamente scalfito la sua dura pelle né suscitato in lui alcun dubbio su quello che mi stava facendo. Che fosse davvero così stoicamente convinto di agire per il mio bene da non tenere in considerazione le mie rimostranze? Non mi posi questa domanda, allora, ma mi fermai all'amara constatazione che nulla mai sarebbe stato in grado di scalfire le sue convinzioni, nemmeno sapere che proprio queste mi avevano portato a disprezzarlo.

Contavo davvero così poco agli occhi del mio stesso padre...

Questo, più di ogni altra cosa, mi ferì. Mille volte di più delle sue nocche di ferro che senza alcun segno di pietà, in preda ad un istinto impetuoso e incontrollabile come la marea, mi squarciavano le labbra con un unico , impietoso, colpo.
 

 

 

 

 

 


 
Cammino veloce e a testa bassa. La distanza fra il bar e l’ingresso della metro sembra coprire miglia. Sono così stanco… Le gambe pesano più del solito mentre mi trascino verso casa. Fischietto una canzone, per tenermi sveglio. Qualcosa attira la mia attenzione e per un attimo mi sembra che la curiosità mi abbia restituito le energie. Un uomo, una imponente sagoma nera mi si avvicina e prende forma sotto la luce di un lampione. Se ne sta lì, fermo, ad ostruirmi la strada; la testa calva luccica sotto la luce artificiale. Senza alzare lo sguardo mi tiro su il cappuccio, lo raggiungo e cerco di aggirarlo. Ma la sua voce calma e profonda mi richiama quando sono ormai a neanche un passo da lui, e io mi giro, di scatto, per guardarlo in viso.

“Il signor Miles?”
“Sì?”
Rapidamente rivolgo lo sguardo intorno a me. La strada sembra sgombra, escluso qualche cane randagio. Quell’uomo mi inquieta. Mi inquietano i suoi occhi verdi, il suo tono terribilmente pacato, la sua età indecifrabile sotto la luce deformante dei lampioni e delle insegne. Sento l’urgenza di scappare, di sottrarmi allo sguardo indagatore di quell’uomo sconosciuto.
Desmond Miles?”
“Sì, mi dica.”
Di colpo, due braccia mi afferrano bruscamente in una stretta improvvisa. Un uomo corpulento vestito di nero mi solleva da terra e io dimeno le gambe, in preda al terrore, cercando di colpirlo con un calcio, cercando di sottrarmi alla sua morsa.
“Cos..?”

Non faccio in tempo a lamentarmi, a chiedere cosa stia succedendo. Tutto diventa nero, l’aria si fa irrespirabile, sento il tessuto del sacco che mi copre la testa pizzicarmi il collo. Mi trasportano altrove, mi caricano su un veicolo, un furgone credo, per il rumore. Rapidamente qualcuno mi sfila la felpa. Sento un ago infilarsi nel braccio destro, un liquido caldo spandersi per le membra. Le forze vengono meno, non sono più in grado di resistere agli eventi.
Chiudo gli occhi e, finalmente, mi lascio andare.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: Mariarrow