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Autore: Aphasia_    23/09/2014    1 recensioni
Con "Ricordi" la protagonista della fiction definisce se stessa e le altre persone come lei: i fantasmi. A differenza però dei suoi simili, possiede una capacità incredibile: ha la capacità di viaggiare, cosa che generalmente è vietata ai fantasmi (specialmente ai condannati, ovvero a quelli che hanno ancora delle faccende in sospeso con la propria vita umana). Tuttavia a tutti è concessa la capacità di sognare, anche se si tratta più che altro di immagini, memorie della propria vita, qualunque cosa possa confortarli o al contrario ricordar loro dei propri peccati, delle proprie azioni commesse quando erano in vita. Ma al "ricordo" protagonista accade qualcosa di inaspettato, sogna un ragazzo misterioso che le dichiara il suo amore. Decisa così a seguire quel sogno, e per abbattere quella solitudine fatta delle solite conversazioni tra "ricordi" (ovvero fantasmi), e convinta che sarà proprio l'amore il suo riscatto, la sua salvezza, partirà per un viaggio difficile. Scopo: trovare il ragazzo del sogno.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Noi "ricordi", noi fantasmi, non possiamo ricordare. Ciò che si materializza in noi, quando capita, non sono che immagini sparse, citazioni sconnesse della nostra vita ormai passata, emozioni sbiadite, vuote, nient'altro che gusci, conchiglie belle da vedere, di quelle in cui si può sentire il rumore del mare, ma nulla di più. Tuttavia, come sempre nel mondo dei fantasmi, c'è un'eccezione alla regola. Gli episodi che è possibile ricordare in modo completo ed intenso sono soltanto tre, e per ognuno di noi sono diversi, spesso terribili, spesso essenziali, spesso semplicemente belli. Nel mio caso erano i seguenti: la mia nascita, la mia morte, la mia prima parola. E ad ognuno di questi episodi è possibile associare una sensazione, un elemento, come se fossero persone definite, vive, alle quali attribuire persino un carattere e una personalità, stabilire se fossero simpatiche o meno.

Il ricordo della mia nascita era associato ad una cosa soltanto: la bruttezza.
La bambina appena nata gridò e pianse. Era proprio quello il senso di bruttezza, il venire al mondo piangendo, come poteva esserci qualcosa di bello in questo? Era ricoperta di sangue, ma non per questo era meno sana, era indifesa, ranicchiata tra le mani guantate di qualcuno, quasi senza alcun senso sviluppato, se non il suo udito, attento alle proprie grida. Era un essere puro, ero lo zero di ogni cosa. Ci fu silenzio, di quello imbarazzante, come se nessuno avesse il coraggio di dire ciò che effettivamente tutti pensavano. La bambina era brutta. Tutta rossa, paonazza, rugosa, cicciottella, un mostriciattolo. Nemmeno la madre disse nulla, chissà se per la stanchezza o se per l'imbarazzo anche da lei percepito. La sua bambina era brutta. Poi una voce, dietro il vetro, uno dei visitatori vide la bambina, già posizionata nel suo apposito lettino, nel reparto maternità. Era uno dei parenti, il nonno. E fu grazie a quella voce che il silenzio cessò, per sempre. E cessò la bruttezza, l'ingiustizia.
«è bellissima» disse. Perché in fondo la bambina era davvero un adorabile mostro. 

Il ricordo della mia morte. Impotenza. 
Bosco buio, le stelle avevano spento le luci delle loro casette. Desolazione, anime che sognavano ingnare di tutto. Tranne due. Una vittima e un carnefice. 
La ragazza che stava per morire gridò e pianse. Un pianto di impotenza, puro suono gutturale. Era stata uccisa e il suo assassino non sarebbe mai stato scoperto, perché due soli erano i testimoni: lei e lui. Impotenza bruciante. Per lei morire era esattamente come affogare, ma senza l'acqua. Affogare nei sentimenti più oscuri e irrimediabili, c'era dispiacere, odio, rabbia, disperazione. Ed essi erano come la pece, come le sabbie mobili, era come una trappola, una stanza fatta di pareti invisibili. Le due lacrime sul suo volto si asciugarono lentamente, mentre giaceva nella sua prigione invisibile, in attesa. Io so chi sei, e questo mi basta, pensò la ragazza. Il buio era solido e le stava crollando addosso, ma dolcemente, perché non aveva bisogno del suo permesso, tutto era al proprio posto, l'ennesima persona sulla terra stava per morire, le tenebre nel cuore, un'immagine in testa, quella dell'assassino, l'impotenza incastrata nella gola, bollente, corrodeva ogni possibilità di salvezza. Ma a che sarebbe servito urlare? Inutile generare altra bruttezza. Meglio morire. 
Io so chi sei, e questo mi basta. La ragazza sorrise, e il buio se la portò via.


La mia prima parola. Panico.
La comunicazione è l'arma più pericolosa mai posseduta dall'uomo. I primi momenti della nostra vita non sono forse anche i più tranquilli? Non c'è conversazione, non c'è possibilità di essere feriti, giudicati. Non c'è la parola. Solo gesti, sguardi, suoni, e nient'altro. La comunicazione non verbale ai livelli più puri e delicati. Solo i nostri occhi che dicono tutto, le nostre mani, il nostro volto. Nessun passo falso, nessuna parola detta al momento sbagliato o alla persona sbagliata. Ma prima o poi commettiamo quell'errore: il bisogno di parlare. E, a partire da quel brevissimo istante, quella frazione di secondo necessaria a emettere quel respiro, a stimolare le corde vocali, a emettere il suono, che viaggia poi attraverso il nostro apparato fino alla bocca, che ne modula la fuoriuscita fino a che... Parliamo.
La bambina, tardivamente, parlò a tre anni. Ci si aspetterebbe che questo ritardo fosse dovuto ad una preparazione eccellente della parola selezionata ed etichettabile sotto "prima", al fine di realizzare una perfetta enunciazione e pronuncia. Nulla. Non era che una parola, più o meno.
«Maaaaaaaaaaammaaaaaaaaa». Deludente. Troppo lunga, sconnessa, poco lineare.
Il ritardo, allora, a che cosa era dovuto? Al panico. La bambina aveva paura. Vedeva cosa le parole potevano provocare, temeva che entrando in quell'oscuro mondo, quello della comunicazione, e facendo così il primo passo verso quello degli esseri umani completi, avrebbe potuto soffrire e provocare a sua volta sofferenza.
L'eccitazione le fece cambiare idea. Cosa avrebbe provato? Perché non provare? E pronunciò. Panico. Ormai era fatta. La bambina era un essere umano completo. Oltre lei la porta delle parole successive e delle loro conseguenze. Era troppo tardi, e doveva aprirla. 

Riportai alla memoria questi tre unici episodi, in questo stesso ordine. Lo facevo sempre, ad ogni viaggio. Ognuno di essi sembrava ricordarmi in qualche modo qualcosa che mi sarebbe tornato utile, che mi avrebbe aiutato a non avere paura delle novità che avrei visto, dei nuovi mondi che avrei conosciuto, delle persone che avrei esplorato, capito, studiato. Ma ognuno di essi, stavolta, sembrava invece dovermi aiutare ad affrontare il ragazzo che mi amava. Se l'avessi trovato e se poteva vedermi, come mi sarei comportata? La chiave erano proprio quei tre episodi. Mi ricordavano ogni volta quali fossero le tre cose da evitare nei miei viaggi, nelle mie esperienze, ma soprattutto quali fossero gli errori che non dovevo più commettere. Erano le mie leggi.
- Rendi la tua bruttezza una questione d'interpretazione artistica;
-Non lasciare che l'impotenza soffochi la tua vita;
-Concedi al panico un minuto soltanto di vittoria. 
  
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