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Autore: atonement    27/09/2014    1 recensioni
Non so come successe. Ancora adesso non so come sia possibile, ogni volta che mi succede.
Quando rialzai la testa e riaprii gli occhi, puntandoli nel punto in cui avrebbe dovuto esserci il muro della mia camera, vidi tutt’altro. Era come guardare un film, eccetto che lo schermo erano i miei occhi. Non so spiegarlo bene, e non saprei in che altro modo esprimermi. Semplicemente, era come se i miei occhi fossero gli occhi di un’altra persona, e io stessi guardando tutto ciò che lei stava vedendo in quel momento.
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Alcune piccole precisazioni. È una storia che praticamente non prende in considerazione gli avventimenti del telefilm – o meglio, non quelli che riguardano la storia tra Blaine e Kurt. Perciò, fondamentalmente Kurt non è mai andato alla Dalton, e Blaine, ovviamente, non si è mai trasferito al McKinley.
Con "fantasy" non mi riferisco a niente che riguardi fate, maghi o draghi, ma semplicemente ad un fatto che non potrebbe accadere nella realtà.
Oh, chi narra in prima persona è Blaine. E adesso vi lascio a questa piccola cosina.










 




E gli occhi pieni di te

C’è una strada che va dagli occhi al cuore senza passare per l’intelletto,
Gilbert Keith Chesterton.
 
 
 


 
 
 
Ho visto per la prima volta con gli occhi di Kurt un giorno in cui ero molto arrabbiato.

Avevo quindici anni. Era un giovedì, il mio giorno preferito della settimana. Ho sempre pensato che il giovedì fosse un giorno a tutto tondo, un giorno morbido e dolce, soprattutto perché era il giorno in cui mi permettevo di curiosare in giro per la libreria dietro casa per comprare un nuovo libro. E forse mi piaceva tanto anche perché il giorno dopo, il venerdì, era il giorno preferito da tutti, il finesettimana, e il giovedì, per me, raccoglieva tutta la gioia e l’aspettativa del “domani sarà un giorno pieno di persone felici”.

Probabilmente, fu proprio per questo che qualcuno – chiamasi Dio, o Destino, o Fato, o Caso – decise di tirarmi un brutto tiro proprio di giovedì.
 
Non sono mai stato una persona coraggiosa, né uno a cui piace prendere l’iniziativa. Non che io sia ciò che viene generalmente definito timido, però… però non amo mettermi in mostra. Non proprio. L’unico lusso che mi concedevo, di tanto in tanto, era cantare sul palco della mia vecchia scuola, da solo, quando ero certo che non ci fosse nessuno nei dintorni.

Era la prima volta che lo facevo di giovedì. In genere lo facevo di venerdì, quando nessuno aveva voglia di stare lì a provare o a perdere tempo che avrebbe potuto impiegare altrove. Così salii su quel piccolo palco, sorrisi nel sentire il suono dei miei passi e il solito, vecchio scricchiolio dell’asse di legno posta proprio al centro della piattaforma, e cominciai a cantare. Cantai Let me out, dei Ben’s Brother.

Non riuscii ad arrivare al secondo ritornello. Alcuni ragazzi dell’ultimo anno, piuttosto robusti e piuttosto stupidi, mi presero per le spalle, da dietro, e mi buttarono giù dal palco. Adesso, quando ci ripenso, mi rendo conto di quanto la loro sia stata una mossa incredibilmente scontata, incredibilmente banale, incredibilmente da film americano per ragazzine, ma allora mi spaventai moltissimo e non riuscii a reagire in alcun modo – un po’ per la paura, un po’ perché, comunque, non avrei avuto la possibilità di fare niente per difendermi.

Corsi a casa con un labbro spaccato e il sangue ormai secco che mi colava dal naso, e lasciai che mia madre mi medicasse come meglio credeva. Non ricordo bene cosa mi chiese, né cosa le risposi, ma parlai pochissimo. Lei, come al solito, capì. Si limitò a curarmi, a disinfettarmi, e infine a spedirmi in camera. Era ormai sera, il cielo era arancione, la mia camera anche, e io avevo solo voglia di piangere. Non ero arrabbiato per il dolore, e non ce l’avevo tanto con quei ragazzi, quanto con me stesso.

Mi sentivo stupido, umiliato e preso in giro. Sapevo di non essere chissà quale grande esempio di mascolinità, non lo sono nemmeno adesso, con i miei papillon e i miei capelli pieni di gel e i miei vestiti colorati, ma… ma non riuscivo a smettere di piangere. Ero incredibilmente, terribilmente arrabbiato, e mi odiavo così tanto. Così mi rannicchiai a terra, la schiena contro il letto, poggiai la testa contro le ginocchia, e poi chiusi gli occhi.

Non so come successe. Ancora adesso non so come sia possibile, ogni volta che mi succede.
Quando rialzai la testa e riaprii gli occhi, puntandoli nel punto in cui avrebbe dovuto esserci il muro della mia camera, vidi tutt’altro. Era come guardare un film, eccetto che lo schermo erano i miei occhi. Non so spiegarlo bene, e non saprei in che altro modo esprimermi. Semplicemente, era come se i miei occhi fossero gli occhi di un’altra persona, e io stessi guardando tutto ciò che lei stava vedendo in quel momento.

Vidi mani candide gettare una salviettina in un piccolo secchio, piedi coperti da spessi calzini neri camminare, mura sconosciute, e poi… e poi una voce dolce e acuta cominciò a cantare. Non c’era nessuno sfondo musicale, perché la persona – il ragazzo, capii – che possedeva quelli che al momento erano i miei occhi, e a quanto pare anche le mie orecchie, era appena entrato in quella che doveva essere la sua camera, che osservai distrattamente per la confusione del momento. Cantò Fix you, quella dei Coldplay.

In quei pochi istanti di confusione mi ero mosso, anche se non mi ero alzato, e avevo appurato che, se i miei occhi e le mie orecchie erano altrove, con il tatto potevo ancora sentire il parquet tiepido della mia camera, e con il naso il fastidioso odore del disinfettante di mia madre. Ma quando sentii quella canzone, qualcosa mi disse di fermarmi. Forse era la semplicità con cui il ragazzo cantava, mentre metteva a posto riviste e cd, o forse erano le parole della canzone, che erano esattamente ciò di cui avevo bisogno in quel momento. O forse fu la sua voce che, in quel momento, cantava solo per me.

Quando la canzone finì e io sbattei le palpebre, ero di nuovo nella mia stanza. Ci ero sempre restato anche in quei pochi minuti, è ovvio, ma con mente, occhi e orecchie ero altrove. Completamente.

Per parecchi minuti restai seduto a terra, con i miei ricci disordinati per colpa del gel lavato via da sudore e lacrime e con gli occhi stretti, serrati, pronti ad aprirsi per tentare di ripetere la magia. Ma non successe.
Nei giorni seguenti, più volte mi capitò di pensare che fosse stato tutto solo un sogno, o un pensiero da cui mi ero lasciato cullare, o magari un desiderio profondo e nascosto che aveva preso forma. Ma ogni sera, prima di chiudere gli occhi per addormentarmi, mi ritornava in mente quella voce, e mi dicevo che mai e poi mai avrei potuto inventarmi una voce del genere, così chiara e acuta e cristallina.




Tre mesi più tardi, lo rividi. Fu allora che cominciai a capire – più o meno – in che modo funzionava quello strano meccanismo che mi faceva vedere con gli occhi di un’altra persona. Più che rabbia, quel giorno provai così tanta delusione che fu un sentimento ancora più forte, forse.

Avevo un diario, un diario segreto. Non che ci scrivessi chissà che cosa, però… era mio. Era un confidente taciturno, silenzioso, che non avrebbe mai rivelato i miei segreti a nessuno. E ne avevo senza alcun dubbio bisogno, visto che allora, di amici, non ne avevo poi così tanti.

Ciò che mi fece male fu tornare a casa dopo una serata a teatro con un’amica, salutare mia madre con un bacio sulla guancia, entrare nella mia camera, andare verso la mia scrivania, e poi vedere che il mio diario non si trovava dove si trovava di solito. L’avevo appoggiato sopra ad una vecchia cartolina comprata da qualche parte, una cartolina in bianco e nero bellissima, che ho ancora, con la foto della prima nuotata di una piccola, minuscola tartaruga. Quando tornai a casa, la cartolina era appoggiata sopra il diario, e in modo piuttosto maldestro.

Scesi le scale lentamente, tenendo il diario stretto al petto, e a mia madre bastò un’occhiata a ciò che tenevo tra le mani per assumere uno sguardo incredibilmente colpevole. Prima che potessi dire qualcosa, cominciò a parlare a vanvera di un sacco di cose diverse, che nemmeno c’entravano qualcosa l’una con l’altra. Avrei dovuto aspettarmelo, perché è ciò che fa quando è nervosa.

Cominciò a raccontarmi di quanto fosse in pensiero per me, di quanto ultimamente io fossi strano, sempre con la testa tra le nuvole, di quanto… continuava a parlare, ma io non la ascoltai più di tanto. Tornai nella mia camera prima che avesse finito e mi sedetti sul letto, combattendo per non piangere. Oltre alla delusione, c’era la paura. Non avevo ancora confessato ai miei genitori di essere omosessuale, e temevo che dalle pagine del mio diario si potesse intuire qualcosa.

Non so dirlo con certezza, ma sono abbastanza sicuro che in quel momento ero talmente sconvolto che i miei pensieri erano molto lontani dal ragazzo con la voce acuta e la camera pulita ed ordinata. Ma poi, quando chiusi gli occhi con forza e poi li riaprii, puntandoli sul soffitto, successe ancora una volta.

Lui era sdraiato nel suo letto. Di fianco. Lo capii perché i miei occhi erano i suoi, e vedevano una piccola porzione di materasso e lenzuola bianche, con un muro sullo sfondo a cui feci appena caso. Le mani del ragazzo, bianche anch’esse, tenevano stretta tra le dita la foto di una donna molto bella, molto giovane, molto… non molto nitida, in realtà. Il ragazzo stava piangendo.

Lo capii dai suoi singhiozzi soffocati, dal modo in cui accarezzava quella foto, dai respiri spezzati e pieni d’affanno. La donna aveva lunghi capelli chiari, occhi azzurri e un bel sorriso. Sembrava felice. In quel momento desiderai sentire non gli odori della mia camera, che mai come allora mi erano sembrati tutt’altro che familiari, ma quelli della camera del ragazzo, che potevo solo vedere con gli occhi e sentire con l’udito. Per quanto triste, per quanto strano e per quanto intimo, quel momento sapeva incredibilmente di casa, proprio come, mi resi conto solo allora, il momento che avevo già vissuto tre mesi prima, nella stessa stanza, con la stessa persona.

Il ragazzo sussurrò “Buonanotte, mamma” con voce arrochita dalle lacrime, baciò la foto, l’appoggiò sul comodino accanto al proprio letto e spense la luce. Fu proprio in quel momento che, quando sbattei le palpebre, non continuai a vedere quella bella stanza, ma la mia, soffocante e fastidiosa.

E fu dopo quell’episodio che, forse involontariamente, forse di proposito, cominciai a fantasticare sul ragazzo. Avevo ormai capito da tempo di essere omosessuale, e mi ci vollero solo altre poche settimane per confessarlo ai miei, che capirono. In realtà, dissero di saperlo già, e quando chiesi loro come fosse possibile, pronto ad accennare con rabbia al mio diario e al fatto che probabilmente avessero continuato a leggerlo, mi risposero con un semplice, irritante (ma per loro dolce) “siamo i tuoi genitori”.

Tornando al ragazzo, invece, il suo viso prese la forma di Justin Taylor, uno dei protagonisti di Queer as Folk. In realtà, a me Justin nemmeno piaceva. Trovavo senz’altro più bello, interessante e tutto il resto Brian Kinney, il suo coprotagonista, ma il ragazzo, quel ragazzo che sapeva di casa… quel ragazzo sembrava troppo piccolo, troppo timido, troppo dolce, per essere come lui. Mi ricordava Justin, e molto.

Oltretutto ebbi molto tempo per fantasticare sul suo viso, perché non rividi il suo mondo per molto tempo. Fui sorpreso di non vederlo quando fui picchiato da alcuni bulli della mia scuola solo perché io e un mio amico, anche lui omosessuale dichiarato, ci eravamo presentati insieme al ballo della scuola. Lo cercai in ogni modo, piangendo e chiudendo ossessivamente gli occhi, per poi riaprirli subito dopo.

Credevo di aver capito, ormai, che potevo vedere attraverso i suoi occhi solo quando avevo davvero bisogno di lui, quando soffrivo molto, o quando provavo un’emozione molto forte. E invece non lo vidi. Il ragazzo che sapeva di casa non mi mostrò cosa vedeva né in quei giorni in cui stetti così male, né nei mesi a seguire.

Dovetti aspettare l’anno successivo, l’anno in cui mi trasferii in una scuola privata per evitare altro bullismo ed altre gite in ospedale. Dovetti aspettare di prendermi una cotta, e dovetti aspettare di essere rifiutato, seppur gentilmente. Fu allora che rividi quel mondo che sapeva di casa. E fu allora che vidi il suo viso.

Quella volta, non mi trovavo in camera mia. Ero in bagno, seduto a terra a gambe incrociate, a strappare pezzettini di carta igienica. Ero imbarazzato, e forse anche un po’ depresso perché il ragazzo che mi piaceva mi aveva guardato come si guarda una zanzara fastidiosa e portatrice di malattie. In quel momento, capii perfettamente come doveva essersi sentito Ron Weasley quando era stato rifiutato da Fleur Delacour.

Mi alzai per osservarmi la faccia nel grande specchio che ricopriva tutta una parete. Avevo gli occhi un po’ gonfi, il labbro rosso per averlo mosso parecchio, ed ero basso come sempre. Mi trovai anche più bruttino del solito. Non pensai al ragazzo che sapeva di casa, in quel momento. Mi passai una mano sulla faccia, sugli occhi, nella speranza che, dopo averli riaperti, avrei trovato qualcos’altro a guardarmi, un ragazzo forte, senza i capelli incasinati e la pelle a chiazze per colpa delle lacrime, e poi –

– occhi azzurri azzurri azzurri mi fissarono di rimando, ma in uno specchio diverso, in un bagno diverso. E fu allora che lo vidi. Fu allora che vidi il ragazzo che sapeva di casa.

Fu allora che vidi pelle chiarissima, proprio come quella delle sue mani, e un naso all’insù, e labbra chiare e rosa, e piccole lentiggini sulle guance, e capelli castani, e uno sguardo color del cielo e del coraggio. Era bello in un modo strano, e forse, a dir la verità, al tempo non lo trovai nemmeno attraente; aveva il viso da bambino, le guance un po’ paffute, e sembrava estremamente delicato. Si guardava allo specchio, vestito in modo particolare e forse un po’ azzardato, ma aveva una postura fiera e uno sguardo altrettanto forte e determinato.

«Kurt!» sentii chiamare. Il ragazzo si voltò di scatto, sospirò, chiuse gli occhi e –

– occhi ambrati mi fissarono di rimando, attoniti e incantati.


 
 
Non l’ho più rivisto.

Adesso ho diciotto anni, mi sono appena trasferito a New York, non sono più vergine e non ho più paura del mondo. Ancora oggi, quando mi sento triste o in difficoltà, penso a quegli occhi bellissimi, a quel viso dolce ma deciso, pronto ad affrontare la vita. Sono quegli occhi che mi hanno permesso di crescere, di superare i miei problemi, di combattere e di maturare.

Ho detto di non averlo più visto. In realtà, non è esattamente così. Non ho più visto il mondo con i suoi occhi, questo no. Non ho più osservato piccoli momenti, piccoli istanti della sua vita. Piccole parti di un mondo di cui avrei voluto far parte. Eppure, una volta credo di averlo… intravisto. È stato come un flash, un’immagine. Non stavo facendo niente di particolare, osservavo il vagone vuoto del treno su cui stavo viaggiando durante un pomeriggio qualsiasi, circa un anno fa, quando lo vidi. Lo vidi rannicchiato contro una parete, gli occhi pieni di lacrime, una coroncina in testa e un abito elegante. E sono sicuro, più di ogni altra cosa, di averlo sentito singhiozzare il mio nome.

Ma è stato solo un attimo, un piccolo istante, e non è più successo. E Kurt, il ragazzo che sa di casa, è sparito con il battito di ciglia successivo.
 

 
-

 


Non so dove andare.

Domani sarà il mio primo giorno alla NYADA, l’accademia dei miei sogni, e non so dove andare. Se c’è una cosa che negli anni non è migliorata, certamente è il mio senso dell’orientamento. È per questo che ho deciso di venire oggi e dare una prima occhiata, ma, ora che sono qui, all’interno di questo magnifico edificio, non so dove andare. E non so nemmeno a chi chiedere, perché la segreteria è vuota. L’idea era quella di capire quali sono le aule in cui dovrò seguire i miei corsi del primo anno, ma dubito che riuscirò a capirlo da solo.
Forse la cosa migliore da fare è aspettare che apra la segreteria e, nel frattempo, fare un giro per l’accademia.

Ci sono parecchie scale che portano al piano di sopra, noto mentre mi guardo intorno un po’ meglio; una delle rampe è a pochi metri di distanza da me. Senza pensare troppo, comincio a salire le scale, la tracolla in spalla e la speranza di non perdermi come al mio solito. Anche da lontano, le aule sembrano enormi, spaziose e luminose, e ce n’è una in cui mi sembra di intravedere un pianoforte a –

«Scusami?»

– coda nero, bellissimo e lucente. Mi rendo conto con un attimo di ritardo della voce che mi ha chiamato. Mi volto verso di lei, lo sguardo ancora un po’ perso per la scuola, attento a non cadere, e –

– occhi azzurri azzurri azzurri mi fissano di rimando, timidamente. Il ragazzo che sa di casa è qui, davanti a me, con i suoi occhi color del cielo e del coraggio, e i capelli ben acconciati, e i vestiti particolari, e tutto un mondo di cui ho sempre voluto far parte.

Lo guardo. Osservo la sua posizione sulle scale, in bilico tra un gradino e un altro. Trattengo il respiro, ma solo per un attimo.
Eccoti qui, penso.

Kurt mi guarda, spalanca la bocca, sgrana gli occhi. È un momento un po’ comico, mi rendo conto, perché lui è qui, e io sono qui, e tutto ciò che stiamo facendo è fissarci senza dire niente. E poi, lui mi conosce? Anche lui aveva bisogno del mio mondo, come io del suo, quando gli sembrava che tutto gli stesse sfuggendo di mano?

«Io – »

Scuoto la testa, e lui si zittisce. Non lo so, che cosa devo fare. Non sono bravo con le parole, non lo sono mai. Negli anni, ho imparato che è meglio stare zitto, se non hai niente di intelligente da dire. Ma come posso non dirgli niente?

Poi sento qualcosa. È un odore strano, un profumo, credo. Per me che sono abituato a profumi dolci, questo è poco forte, un po’ aspro, ma non fastidioso. Sembra che si adatti perfettamente al mio, di odore. È l’odore di Kurt. E senza pensarci, glielo dico.

«Sento il tuo odore.»

Kurt sembra indeciso tra lo sgranare gli occhi e ridere, ma alla fine arrossisce, mentre io faccio lo stesso. È solo che…

«Il mio odore?»

Scendo le scale di un gradino, trovandomi quasi alla sua altezza; eppure, sembra comunque molto più alto di me. È bellissimo. Non è più il ragazzino che ho visto anni fa nello specchio, non è più il ragazzo che piangeva con una coroncina in testa. Ha i lineamenti più delicati, il viso più affusolato, il corpo più magro e forte, i capelli sistemati per bene; gli stessi meravigliosi occhi.

Ma ancora non riesco a capire se anche lui ha tutta questa confusione in testa, se anche lui conosce il mio mondo, come io conosco il suo.

«Io… tu mi… insomma, tu?…»

Kurt annuisce. Poi, quasi timidamente, mi ripete la domanda che mi ha posto pochi momenti fa.

Il mio odore?

Lo guardo in cerca di parole, sbuffando una risata e sentendomi un po’ sciocco. Non sono esattamente le prime parole che si dovrebbero dire ad una persona.

«Scusami» mormoro. «È solo che… mi sembra strano, non lo so. È passato così tanto tempo, e ora riesco a sentirti in ogni modo, mentre prima avevo solo la tua voce nelle orecchie, e…»

Kurt mi guarda. Aspetta che continui, sorridendomi con dolcezza.

«E?» mormora.

Non lo so. Beh, lo so, ma non so come dirglielo. Non so come farglielo capire, né come spiegarmi in modo semplice. Dovrei dirgli semplicemente ciò che sento, forse?

«E gli occhi pieni di te» dico in risposta.

Kurt non reagisce come mi aspettavo. Non che mi aspettassi qualcosa in particolare; ma non mi aspettavo che si avvicinasse di più, mi prendesse per mano, mi sorridesse e mi facesse capire che, in realtà, non l’ho ancora sentito in ogni modo.



 
-
 



Starei ad ascoltarlo per ore.

Non è solo il suono della sua voce a tranquillizzarmi. È ciò che dice, il modo in cui mi racconta la prima volta che ha visto il mio mondo, la prima volta che ha sentito la mia voce, la prima volta che non si è più sentito solo.

Aveva quattordici anni quando ha visto per la prima volta attraverso i miei occhi. Alcuni ragazzi della squadra di football lo avevano buttato dentro i cassonetti della scuola perché era femminile, perché aveva una voce troppo acuta per un ragazzo e perché vestiva in modo strano. Quando è riuscito ad uscire dalla sporcizia e a raggiungere il bagno, le lezioni ormai iniziate e dimenticate, si è chiuso in uno di quegli sporchi cunicoli e ha cominciato a piangere, senza nemmeno riuscire a trattenere i singhiozzi. E poi, è successo. Ha strizzato forte gli occhi, li ha riaperti, e ha visto un altro mondo. Ha visto il mio mondo. Non stavo facendo niente di particolare, era solo uno di quei momenti in cui tentavo di strimpellare qualcosa con la chitarra di papà. A quanto pare, tentai di cantare Wherever you go di Bryan Adams. Piuttosto male, ha ammesso Kurt con una risatina imbarazzata, divertita e nostalgica.

Ma ha anche ammesso che è uno dei ricordi più belli che ha.

 
Passiamo tutta la mattinata qui, in un piccolo bar poco lontano dall’accademia. Parliamo, e parliamo, e parliamo. Mi sembra di conoscerlo da sempre. Mi racconta di tutte le volte in cui ha visto il mio mondo, e di come è stato incoronato reginetta al ballo scolastico, e insieme, piano piano, rimettiamo insieme tutti i pezzi del puzzle. In effetti, ci preoccupiamo più di parlare di ciò che provavamo quando vedevano con gli occhi dell’altro, di ciò che ricordiamo di quei momenti, che di capire come tutto questo possa essere possibile. Non ne parliamo nemmeno, in realtà.
Per un po’, tempo fa, ho pensato che fosse la cosa più importante, la prima cosa da capire, da risolvere.

Ma come può esserlo? Kurt è qui, che mi guarda, che mi sfiora la mano, che me la stringe, come se non potesse fare a meno di toccarmi. Credevo di aver già provato cosa vuol dire fare l’amore, ma ora, in confronto a ciò che ho condiviso con Kurt, in confronto a ciò che stiamo condividendo in questo momento, tutte quelle esperienze passate non mi dicono niente, non mi danno niente.

«Blaine?»

Kurt mi risveglia dai miei pensieri. Gli chiedo scusa con poche, imbarazzate parole, ma lui scuote la testa e mi chiede a cosa stavo pensando.

Alzo le spalle.

«È solo strano, sai? Stare qui con te, poterti sentire in ogni modo… è più bello di quanto avrei mai potuto immaginare.»

Lui fa per rispondermi ma, non appena apre bocca, la richiude. Sorride piano, inclinando la testa di lato.

«Non in tutti i modi» mormora, mentre tenta in modo piuttosto evidente di non ridere. Lo guardo fintamente male, un po’ confuso e ferito, ma devo sembrare molto comico e poco convincente, perché scoppia a ridere e mi si avvicina piano, facendomi cenno di fare lo stesso.

«Allora» dice. «Mi hai sentito con vista, udito, odorato e tatto. Ne manca uno, non ti pare?»

E poi, mi bacia. Non lo fa né velocemente né lentamente; annulla la poca distanza che c’è tra di noi e le fa scontrare, le nostre labbra, in un bacio morbido e umido che mi fa girare la testa. Quando si stacca, sta ancora sorridendo, e mi accorgo con mia sorpresa che sto facendo lo stesso.

«Quindi?» sorride.

Rido, allungando una mano per accarezzargli una guancia. Socchiude gli occhi e vi si struscia leggermente contro, sembrando completamente tranquillo e felice. Probabilmente lo è davvero. Proprio come lo sono io.

«Sei sempre il ragazzo che sa di casa» mormoro, guardandolo con dolcezza.

Kurt mi sorride, in quel suo modo un po’ nostalgico e un po’ sbarazzino.

«Anche tu» mi risponde in un sussurro. «Lo sei sempre stato.»

 
 
 


Fine.











 
Note: Salve! Non so se qualcuno si ricorda di me, visto che sono sparita per un po' di mesi, ma comunque, finalmente sono riuscita a scrivere qualcosa. Qualcosa che, stranamente, mi piace e mi ha dato soddisfazioni.
Ho scritto questa storia in modo diverso dal solito, senza appuntarmi troppe cose, senza farmi troppi schemi mentali. Mi sono lasciata guidare dalla riproduzione casuale del mio iPod, cosa che credo di non aver mai fatto. Infatti, mi rendo conto che la storia è un po' costellata di canzoni, a partire dal titolo, preso dalla canzone Le tasche piene di sassi di Jovanotti. 
In realtà, mi sono ispirata ad una specie di gioco che mi diverto a fare, ogni tanto, quando ne sento il bisogno. Chiudo gli occhi, e quando li apro immagino di vedere con gli occhi di qualcuno altro, o che qualcuno veda ciò che vedo io. E, sapete cosa? A volte funziona, e ti fa sentire un po' meglio.

Spero che la storia vi sia piaciuta almeno un pochino. (:
 
  
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