RITRATTO
AD OLIO
Ragazza
d'acciaio non amavo nessuno al mondo
Non amavo nessuno eccetto colui che amavo
Il mio innamorato il mio amante colui che mi attraeva
Ora tutto é cambiato è lui che ha cessato di amarmi
Il mio innamorato che ha cessato di attirarmi sono io?
Non lo so e poi cosa cambìa?
Sono ora stesa sulla paglia umida dell'amore
Tutta sola con tutti gli altri tutta sola disperata
Ragazza di latta ragazza arrugginita
O amore amore mio morto o vivo
Voglio che tu ti ricordi del passato
Amore che mi amavi da me ricambiato.
-
Jacques Prévert –
Un vecchio film babbano, diceva che il cuore delle donne è un oceano di segreti.
Ricordo
ancora che al tempo, quando udii questa frase, mi misi a ridacchiare certa che
non fosse assolutamente possibile. Ero abituata a scaricare ogni mia angoscia,
dubbio o perplessità, nel mio diario o sulle spalle di Hermione che,
all’epoca, era quanto di più vicino alla figura della ‘migliore amica’
potessi vantare. Niente del rapporto di allora è rimasto. Con nessuno, non solo
con lei. E non possiedo neanche più un diario segreto. Non ne ho bisogno. Ogni
ricordo, bello o brutto che sia, è stampato a fuoco nella mia mente e non credo
che nessuno, mai, potrà impedirmi di rivivere il più piccolo istante.
…ma la storia di come sono finita qui, in questo
appartamento interamente arredato da me, con Penelope, la mia adorata gatta e i
mobili di legno intarsiato, a cui cambio continuamente posto, è lunga e
tortuosa. Il perché ho deciso di abbandonare famiglia e amici e di andare ad
abitare alla periferia di Hogsmeade non è così semplice come sembra. Non è un
banale bisogno di libertà e indipendenza.
Ho venticinque anni e non mi considero una persona ‘adulta’.
Forse matura, perché ho sempre pensato che la maturità non si acquisisce con
l’età, ma con l’esperienza e col dolore. La tristezza non ha sempre fatto
parte della mia vita, per fortuna. Ma c’è stato un periodo, tanto tempo fa,
in cui l’angoscia e la disperazione bussarono alla mia porta, trascinandomi in
un vortice di depressione.
Come dicevo… la storia di come è accaduto tutto ciò,
è molto triste e confusa.
Quando terminai il mio ciclo di studi ad Hogwarts, la
seconda guerra contro Voldemort era incominciata da ben due anni e la situazione
non accennava a migliorare. Caramell si era finalmente deciso a riconoscere il
ritorno del Mago Oscuro e, in evidente ritardo, aveva fatto scattare il piano
d’emergenza, coinvolgendo Auror e Agenti Speciali di ogni parte d’Europa.
Durante le feste, estive o invernali, quando rientravo
a casa da scuola e la famiglia era riunita, i discorsi inerenti ai campi di
battaglia si sprecavano. Ben tre dei miei fratelli, erano coinvolti
nell’esercito dell’Ordine e se a loro aggiungiamo Harry ed Hermione, che in
quel periodo risiedevano in pianta stabile a casa nostra, le voci da cui si
ascoltavano storie di disfatta e tristezza, erano ben cinque. Harry aveva smesso
già da un anno di vivere con i suoi zii, ritenuti sì sicuri per via
dell’ormai noto incantesimo di protezione che Lily Evans aveva posto su di lui
e mantenuto in vita grazie alla sorella Petunia, ma non abbastanza da
garantirgli copertura in eterno. Sarebbe bastata una maledizione senza perdono
su ogni singolo abitante di quella villetta in Privet Drive ed Harry sarebbe
rimasto scoperto. Hermione, invece, aveva abbandonato da tempo la casa paterna,
conscia di esporre i suoi ad un pericolo troppo grande per dei semplici babbani.
Ad ogni modo, per precauzione, i genitori dei soldati mezzosangue, erano stati
fatti trasferire in un luogo protetto, tra pianti e abbracci preoccupati. Il
dolore della separazione però, era reso più sopportabile dall’idea che in
quel modo, i propri cari erano al sicuro da qualsiasi tentativo di attacco dei
Mangiamorte e ciò dava la forza ai soldati di andare avanti e lottare per le
proprie famiglie.
Io, al contrario, non sapevo ancora cosa fare della mia
vita. Non sapevo ancora cosa volevo realmente. Per la verità, mai nessuno si
era interessato di ciò che avevo deciso per me, per il mio futuro, se non la
professoressa McGranitt nel periodo di orientamento pre esami. Suppongo che
nell’inconscio di tutti, aleggiasse la convinzione che nessuno di noi avesse
in realtà un futuro davanti. L’ho pensato anche io, qualche volta, devo
ammetterlo. Così quell’anno, quando rincasai in maniera definitiva,
lasciandomi alle spalle la mia classe e tutti i miei compagni, lì sulla
banchina del binario nove e tre quarti, immersa in una schiera di Auror così
folta da impedirmi di salutare i miei amici, mi accorsi per la prima volta che
ero entrata a tutti gli effetti nel cosiddetto mondo degli adulti.
Era scontato che, con la famiglia e gli amici che mi
ritrovavo, l’idea di accedere al servizio di leva come soldato dell’Ordine
non fosse neppure contemplata nelle mie possibili scelte. Ragion per cui, una
volta a casa, mi misi a tavolino con Hermione, cercando di vagliare qualche
ipotesi durante un suo turno di riposo. Avevo avuto dei buoni voti, a discapito
di ogni aspettativa, per cui non avrei avuto alcun problema a scegliere un
qualsiasi mestiere. L’unico ostacolo reale, era proprio la guerra.
Se in tempo di pace, in famiglia, c’erano problemi di
soldi, durante quel periodo la situazione era notevolmente peggiorata. Erano
molti i giorni in cui papà neppure rientrava da lavoro, sottoponendosi a turni
che sfioravano le quarantotto ore consecutive. Bill e Charlie, non erano da
meno. Eppure, nonostante i numerosi straordinari, il guadagno era sempre lo
stesso. Ugualmente scarso e insufficiente a sfamare la bellezza di otto persone.
Fred e George, erano indipendenti economicamente, per fortuna. Di Percy, non
avevamo più avuto notizie, se non fugaci e poco confortanti.
Volevo contribuire anche io. Non potevo permettermi il
lusso di studiare e basta o non sarei riuscita a concludere nulla. Così quando
decisi quale era la mia strada e il mio sogno, mi rimboccai le maniche e mi
cercai un impiego che mi permettesse di pagare libri e corsi. Scelsi pittura.
Una scuola babbana nel centro di Londra, molto vicina al Paiolo Magico, dal
quale entravo e uscivo ogni giorno per dividermi tra lezioni e lavoro. Mamma mi
aveva trovato un posto in un negozietto poco impegnativo, nei sobborghi di
Diagon Alley. Un vecchio dispaccio di tempere, colori e quant’altro potesse
essere necessario ad un pittore. L’ideale, per ciò che avevo scelto di fare.
Da quel posto, era incominciata la mia rinascita.
Passare dall’odore forte e pungente dei colori ad
olio della sala di pittura della mia università, allo stesso profumo, ancor più
penetrante e secco del negozio in cui lavoravo, aveva il potere di
tranquillizzarmi. Durante le pause, mi nascondevo nel retro bottega e dipingevo
sulle tele incrostate, riciclando quei pezzi di tessuto che, altrimenti,
sarebbero stati gettati via. Il padrone del locale, in effetti, si era talmente
affezionato a me, da permettermi di pitturare e spesso studiare, anche nei
momenti in cui la clientela era più scarsa. Tante volte, nascosta nello studio
sul retro, udivo i rumori delle battaglie che imperversavano nel mondo magico,
lontani, eppure così orrendamente vicini e minacciosi. Tante volte, dietro alla
mia tela acquerellata, sognavo di vivere in un mondo diverso, senza lotte e
speravo che tutto quel tumulto cessasse da un momento all’altro.
Non avevo vita sociale e francamente, neppure la
cercavo. I miei soli amici erano i compagni di università che, ovviamente,
ignoravano la mia condizione di maga e la situazione che stava sconvolgendo il
mio mondo. Hermione si era allontanata da un pezzo, pressata dagli oneri del
lavoro di Agente Speciale degli Auror e di conseguenza, incapace di tener testa
ad una amicizia. Riusciva a malapena a badare a mio fratello.
Fu durante una sera di pioggia, mentre mamma e papà
erano impegnati al quartier generale dell’Ordine della Fenice, con Bill e
Charlie, che qualcosa di inatteso scosse la mia vita. Ron ed Hermione, ormai
coppia fissa da un paio di anni, erano al primo piano della Tana, cercando di
sfruttare al meglio quei pochi istanti che venivano loro concessi tra un
addestramento e un richiamo per gli scontri più diretti. Harry, invece,
sonnecchiava tranquillo sul divano, ritemprandosi dall’ennesimo turno di ronda
troppo pesante.
Ero sola, se così si può dire. E neppure mi
dispiaceva. Avevo un buon libro e la mia tazza di tea e niente e nessuno, mi
avrebbe mai convinta a mettere il naso fuori casa, in mezzo alla pioggia
torrenziale che quel giorno sembrava non volerci dar pace. Era una domenica, una
sera buia e tempestosa, potrei dire… se stessi scrivendo un libro.
Di tutto, ciò che ricordo bene fu l’insistente
bussare alla piccola e scardinata porta della mia casa. Il mio sbuffo di
disapprovazione per quell’imprevisto e il mio placido, ma forse anche
innervosito “un secondo, sto arrivando!” per cercare di placare l’animo di
chi voleva, forse, riparo. Di tutto, quel che vorrei dimenticare, fu ciò che mi
trovai davanti quando abbassai la maniglia della porta, incrociando uno sguardo
che credevo non avrei mai più rivisto.
Rammento di averlo fissato più del dovuto e di aver
tentato di riprendere aria per i miei polmoni, aprendo e chiudendo la bocca più
volte, inutilmente. I suoi occhi, un tempo gelidi e freddi, erano stanchi e
segnati, solcati da occhiaie profonde e bluastre.
“Mi fai entrare, Weasley? O pensi di lasciarmi qui a
morire di polmonite?!” Mi disse
scocciato e solo allora, lo giuro, solo in quel momento, mi resi conto che
tremava, bagnato fino al midollo e avvolto in un pesante mantello nero ormai
fradicio.
Mi spostai un po’ titubante, per nulla certa di stare
facendo la cosa giusta. Chi era diventato? Nessuno, mai, nella mia famiglia,
durante le numerose chiacchierate su arresti e ricercati, aveva nominato Draco
Malfoy. Sembrava scomparso nel nulla. In fondo però, tutti sospettavamo che
come gran parte dei Serpeverde, fosse giustamente finito nelle schiere del male.
Lo guardai scrollare il corpo intirizzito e gettare a
terra il mantello, rivelando pantaloni e maglione scuri. La bacchetta saldamente
ancorata alla cintura. La tentazione più forte fu di bloccarlo lì, sulla
soglia del salottino, e di controllargli le braccia, ma non lo feci.
“Chiamo Harry… o mio fratello. Aspetta qua.” Fu quello che risposi, invece. E lo sguardo che mi lanciò non
appena pronunciai quelle parole, fugò ogni mio dubbio. Lo cercavano, ne ero
certa. Potei distinguere un lampo di timore nell’argento spento dei suoi occhi
e ne ebbi compassione.
Alla luce del camino, che riscaldava il misero salotto,
mi resi conto di ciò di cui non mi ero ancora accorta. Era ferito. Seriamente
ferito, in verità. Tralasciando una cicatrice strana e distorta sul collo,
entrambe le mani erano imbrattate di sangue. Sangue che non avevo idea da dove
provenisse. E tutto ciò mi spaventava. Era suo quel sangue, o apparteneva ad
una delle sue vittime?
Come a voler rispondere alle mie mute perplessità,
distolse lo sguardo dal mio e si alzò la manica sinistra, rivelando ciò che
fino ad allora avevo solo immaginato.
“…sei… sei uno di loro.” Ricordo perfettamente
quelle parole. Mi scivolarono via dalle labbra senza che potessi contenerle o
perfezionarle. La cruda freddezza della mia osservazione, risvegliò in lui quel
carattere puntiglioso e cattivo.
“Ma che brava, piccola Weasley! Un bel 10 e lode per
la tua perspicacia… puoi chiamarmi la Granger, ora, se non ti è di troppo
disturbo?!”
Non gli chiesi come mai, tra tutti, volesse proprio
lei. Hermione aveva seguito un corso come Medimago, nell’eventualità che una
volta finita la guerra, non avesse più intenzione di mettere mano alle armi. La
capivo, ognuno di noi ha bisogno di una seconda possibilità, al cessare della
tempesta.
Harry fu il primo a comparire nel piccolo ingresso. Era
ancora per metà nel mondo dei sogni, forse anche per quello non reagì
prontamente. Fu solo dopo un primo momento di smarrimento, che estrasse la
bacchetta e la puntò contro il ‘pericoloso Malfoy’.
“Buonasera anche a te, Sfregiato.”
Rabbrividii. Se pochi minuti prima, il vederlo ridotto
in quelle condizioni mi aveva mosso pietà, sentirlo pronunciare quel
soprannome, col suo solito tono pungente, mi riportò alla mente vecchi rancori.
“Che diamine ci fai qui, Malfoy!?” Domandò Harry,
mantenendo il contatto visivo con il suo bersaglio, per nulla infastidito
dall’aria di superiorità che Draco aveva sfoderato nel mentre. A me non aveva
fatto lo stesso effetto. Vedere quelle labbra piegate in un sorrisetto furbo, il
suo sguardo selvatico ridotto a fessura, del tutto compiaciuto di ciò che stava
scatenando in Harry, mi innervosì.
“…prima di fare qualsiasi cosa, Potter… ti avviso
che sono qui per essere curato…” Non gli diede il tempo di rispondere e
proseguì nel suo monologo. “E per parlare con Silente. So che solo tu, sai
come contattarlo per le emergenze.”
Harry annuì titubante. Lo capivo. Non capitava tutti i
giorni che un Mangiamorte bussasse alla porta della Tana, ormai nota per il
numero di fedeli a Silente che l’abitavano, richiedendo cure. Ancor meno di
parlare con il Generale in persona.
Ci furono pochi istanti di silenzio. La porta
d’ingresso sbatteva per il vento e una sferzata gelida mi colpì, facendomi
tremare. Strinsi le braccia contro il maglione di lana bianco, a trecce larghe e
mi voltai per chiudere l’uscio. Udii un bisbiglio sommesso e quando mi voltai,
mi accorsi che Harry stava parlando a breve distanza dal camino. Era riuscito a
contattare Silente.
Un lieve gemito, mi risvegliò dal momentaneo stato di
trance in cui ero caduta, persa ad osservare ciò che si intravedeva nelle
fiamme alte del focolare. Abbassai lo sguardo e mi accorsi delle piccole macchie
di sangue che avevano preso ad imbrattare il parquet. Qualsiasi ferita avesse
Draco Malfoy, stava ricominciando a sanguinare in maniera a dir poco
preoccupante.
Corsi lungo le scale e raggiunsi la camera da letto di
Ron. Bussai come un’ossessa, finché la figura alta e muscolosa di mio
fratello, non spuntò sulla soglia della stanza. “Che succede?!”
Spostai il peso del corpo da un piede all’altro e
agitai confusamente le mani. “…Harry è giù, con… Malfoy.” Spalancò di
botto la porta e fui certa, che sarebbe sceso di sotto e avrebbe combinato un
macello. “Aspetta! Ha bisogno di essere curato… vuole parlare con Silente.
La situazione è sotto controllo, sta’ calmo.” Hermione sbucò da dietro mio
fratello, strattonandogli la porta di mano, avvolta in un paio di jeans chiari e
una camicia felpata sicuramente non sua. Aveva in mano il necessario per i
medicamenti. “Dov’è?!”
Non ebbe bisogno di parole. Le bastò un mio cenno del
capo e mi seguì di sotto, mentre Ron spariva in camera, quasi certamente per
cambiarsi e prepararsi a scendere al piano inferiore. Quando entrammo nel
salottino, Harry aveva terminato di parlare e stava in piedi, dritto con la
bacchetta tra le mani, nella zona tra il divano e la porta d’ingresso. Malfoy,
al contrario, era seduto a terra, vicino al sofà. Mi costa dirlo, ma fino a
quando Hermione non si dedicò a prestargli le cure adeguate, temetti seriamente
per la sua vita. Era un nemico, ma pur sempre un essere umano e non ero mai
riuscita ad odiare una persona al punto di augurargli la morte, in maniera così
gratuita.
Aveva i capelli completamente fradici, per gran parte
attaccati al volto e strano, ma vero, l’incarnato del viso era molto più
pallido di quanto già non lo fosse. Vidi Hermione che si sbarazzava velocemente
del maglione nero, zuppo d’acqua e ciò che mi si parò dinanzi agli occhi, mi
provocò l’urto del vomito. Il torace bianco e robusto era ricoperto di lividi
ed escoriazioni piuttosto profonde e come se non bastasse, sulla spalla destra
si apriva un taglio netto e slabbrato. La pelle, così candida da sembrare
marmorea, era sporca di sangue. “Weasley, Weasley… i tuoi occhi innocenti
non sopportano un tale scempio… vai fuori di qui.” Mi disse serio e
irritato, alzando lo sguardo plumbeo su di me, ferma a pochi passi da lui,
rannicchiata nel mio stesso abbraccio e scossa da brividi di disgusto e
sconcerto. I jeans di Hermione si tinsero di un rosso cupo, così come le sue
mani e le bende che stava utilizzando. Tutto, in quegli istanti, mi parve
assumere quella tonalità sanguigna.
“Ce la faccio… ce la faccio.” Risposi più a me
stessa, che a lui, ma un altro attacco di nausea mi atterrò del tutto,
costringendomi a correre veloce verso il bagno. Svenni lì, accanto alla tazza
del water, dopo aver vomitato non so quante volte.
Quando mi risvegliai, da sola, nel mio letto, non
rammentai subito tutto l’accaduto. Mi ci volle un po’, dopo essermi ripresa
da un lieve capogiro, dovuto probabilmente alla debolezza e all’eccessiva foga
con cui avevo sollevato la schiena dal cuscino. E quando scesi, veloce,
infagottata nella vestaglia di pile che mi era stata regalata a Natale
dell’anno precedente, la prima persona che incontrai fu mia madre. Sembrava
stanca, spossata e molto inquieta. Non le domandai dove fossero Harry, Hermione
e Ron… e neppure le chiesi dove fosse finito Malfoy. Lanciai uno sguardo
veloce all’orologio di tipo babbano, appeso alle pareti della cucina e mi
accorsi che la mezzanotte era passata da un pezzo.
“Ti ho preparato un tea caldo. Ti rimetterà in
sesto.”
Sedetti al tavolo di legno tarmato che occupava metà
dello spazio della stanza, in silenzio. E sempre in silenzio sorseggiai il tea,
con calma. Ero nervosa e agitata. Volevo domandare che fine avessero fatto gli
altri, eppure temevo di dar fastidio a mia madre.
“Mamma…” Provai, ma lei neppure si voltò.
Sospirai e tacqui di nuovo.
“Papà, Harry e Ron sono andati al quartier generale.
Devono discutere col Consiglio. Hermione è di sopra che riposa… ha vegliato
su Malfoy fino ad un’ora fa.” Mi disse improvvisamente, continuando a
spostare pentole e padelle e a mettere ordine in quel perenne caos che era la
cucina. Mi dava ancora le spalle.
Mi alzai, abbandonando la tazza in ceramica nel
lavandino. “E lui?!”
“…lo abbiamo sistemato nella camera di Percy. Papà
e Ron hanno provato a convincere Hermione, per trasportarlo a Grimmauld Place,
ma pare abbia bisogno di assoluto riposo. Sai… la ferita.” Non era convinta,
per niente. Anzi forse era addirittura spaventata. Supponevo che fosse stato
disarmato, magari in un attimo di distrazione, ma restava pur sempre un
Mangiamorte, quindi la capivo. La capivo perfettamente.
“Cerco di dormire un altro po’, mamma. Vai a
riposare anche tu.”
Salii le scale scricchiolanti, decisa a tornarmene al
caldo sotto le coperte e ad ignorare tutta la faccenda. Papà e i miei fratelli
non erano tanto stolti da lasciare due donne, secondo loro indifese, alla mercé
di un simile individuo. Uno spiffero gelido, penetrato attraverso la finestra
rotta del primo piano, mi sferzò il viso accaldato e come mossa da una forza a
me sconosciuta, mi voltai verso quella che un tempo, era la camera di Percy
Prefetto Perfetto. Oltre quella porta, c’era il nemico. C’era una di quelle
persone che stavano portando il mondo magico alla rovina.
E sempre mossa dalla stessa forza involontaria, la mia
mano si chiuse sulla maniglia ed entrai nella stanza, immersa nella penombra e
rischiarata da una misera candela quasi consunta.
Sotto le lenzuola di cotone logoro, con una grossa
fasciatura sulla spalla, era disteso Malfoy. Era stato ripulito di tutto il
sangue, eppure i lividi e i tagli erano ancora ben visibili. Sembrava sereno, mi
accorsi, osservandolo come rapita. Aveva i tratti del viso rilassati, nel sonno.
E quell’espressione, così angelica, così maledettamente discordante con
l’anima nera che si portava dentro, mi colpì.
Uscii velocemente dalla camera, intenzionata a non
rimetterci piede. Perlomeno fino a quando non se ne fosse andato da casa mia.
…ma il tempo passava e la guerra imperversava.
Continuavo a lavorare e studiare, con maggior impegno, con crescente volontà.
Così come continuavo a vivere sotto lo stesso tetto di Draco Malfoy.
Silente aveva ritenuto la Tana un posto
sufficientemente sicuro, per quello che era ormai diventato un collaboratore
dell’Ordine. Non un Auror, no… quello mai. Malfoy era ancora un Mangiamorte
a tutti gli effetti, con tanto di Marchio Nero stampato sul braccio, in bella
mostra. Semplicemente uno dei tanti fedeli del Signore Oscuro, andati dispersi
durante le numerose battaglie.
Furono tempi duri in casa.
Ron non sopportava l’idea di dover dividere la stessa
aria con quello che lui amava chiamare “essere immondo”. Harry, come era
prevedibile data la sua natura un po’ più paciera, rispetto a quella
impulsiva di mio fratello, se ne era fatto una ragione. Dormiva con un occhio
aperto, questo sì, ma dormiva. Hermione si preoccupava che le condizioni di
salute del ‘collaboratore’ non peggiorassero. Charlie e Bill, così come papà,
erano stati spediti su fronti di guerra ben peggiori di Londra. Mamma,
ovviamente, ne soffriva in assoluto silenzio, impedendo a noi figli rimasti nel
focolare domestico di accorgerci del suo stato d’animo.
Io… osservavo. Osservavo ciò che accadeva e aiutavo,
cercando di sgravare mia madre o chi ne aveva bisogno, dai compiti superflui o
eccessivi. Una specie di supporto per il resto della famiglia. Ciò che mancava
realmente in quel momento, insieme ad una buona dose di serenità.
Non passava notte che non mi chiedessi quando sarebbe
finito quell’incubo. Quando avrei potuto, finalmente, poggiare la testa sul
cuscino e lasciarmi cullare dal sonno, senza i rumori delle lotte di sottofondo.
Quando avrei potuto ascoltare il notiziario alla radio babbana di mio padre,
senza temere che ci fossero stati nuovi attacchi troppo vicini. Quando avrei
potuto leggere la Gazzetta del Profeta, senza incrociare le dita perché non
comparissero nomi di amici o familiari, sulle liste dei caduti in battaglia.
Pregavo.
Ogni sera, rintanata sotto le coperte, pregavo che
tutto quell’inutile spreco di vite umane cessasse. Che papà e i miei fratelli
tornassero sani e salvi a casa. Che i miei amici non rischiassero più la vita
in un combattimento con qualche Mangiamorte.
Tre mesi dopo l’arrivo di Draco Malfoy nella nostra
vita, qualcosa cambiò.
La presenza costante di quell’ormai non più nemico,
era diventata quasi normale.
Mamma, come mi aspettavo che fosse prima o poi, non
appena avesse capito che poteva fidarsi di lui, aveva preso a trattarlo come uno
di famiglia.
Un po’ di incertezza all’inizio e una certa
ostinazione e riluttanza ad accettare la cosa, da parte di mio fratello Ronald,
ma alla lunga tutti si abituarono.
A differenza della sera in cui Malfoy mise piede per la
prima volta alla Tana, quella sera il
tempo era assolutamente sereno. La luna era ben nitida in cielo e un vasto manto
di stelle luminose rischiarava il giardino antistante la mia casa. Ero uscita
con i miei amici, quelli del corso, per festeggiare il primo esame. Ventotto.
Non che fossi stupita, in fondo. Avevo studiato sodo per trovarmi pronta a
quella prima prova, ma la gioia incontenibile che provai, quando il professore
mi comunicò il risultato al termine del colloquio, fu tale da convincermi che
mi meritavo un po’ di sano svago.
Ero ubriaca.
Sì, lo ammetto, è poco dignitoso terminare una serata
post esame, con una sbornia, ma non l’avevo mai fatto e quindi, mentre
camminavo barcollando sull’erba del prato, ridendo e incespicando di tanto in
tanto, mi ripetei che non c’era nulla di male. Il gruppetto che mi aveva
accompagnata, lo avevo abbandonato in un vicolo poco distante dal Paiolo Magico
e da lì, non so neppure come, ero riuscita a smaterializzarmi alla Tana,
finendo però carponi sul terreno del viottolo che conduceva al garage.
Mi aspettavo di trovare Ron, in piedi sulla porta, con
l’aria austera di chi è pronto a sculacciare la sorella ribelle. Ma di Ron,
non c’era neppure l’ombra, e neanche di Harry, che in quanto a sgridate non
era secondo a mio fratello.
Al loro posto, con le braccia incrociate, appoggiato ad
una colonnina che sorreggeva la piccola tettoia di legno tarlato, c’era Draco
Malfoy.
Lì per lì non mi domandai cosa diamine ci facesse
fuori, con quella temperatura fin troppo fredda. Pensai che avesse bisogno di
prendere aria, che non riuscisse a dormire o che fosse assorto in uno di quei
momenti che gli prendevano ogni tanto, quando si rintanava in giardino a fumare
una sigaretta, preso da chissà quali pensieri.
…e mi stupii di questa riflessione. Da quando mi ero
soffermata ad osservare i movimenti di Draco Malfoy?
Un giramento di testa più forte del previsto, mi fece
inciampare per l’ennesima volta e finire in ginocchio, per terra, sull’erba
appena bagnata dall’umidità. Risi come una sciocca, spostandomi i capelli dal
volto con movimenti a dir poco infantili ed impacciati. Mi sembrava di aver
perduto la sensibilità delle mani e non credo che fosse dovuto esclusivamente
al freddo.
“Sei patetica.”
Con questa frase, buttata lì per scherno, senza
neppure sapere che non mi aveva ferita, né offesa, mi si avvicinò e mi sollevò
in braccio, mollandomi poi in malo modo sul dondolo di legno che c’era sulla
verandina.
Risi di nuovo. “Grazie.”
Mi guardò di sottecchi, aspirando il fumo dalla
sigaretta e buttandolo fuori in una nuvoletta bianchiccia. “A cosa è dovuta
questa sbronza?!”
E ancora un attacco di riso mi colse, mentre mi
aggiustavo con le gambe contro il petto e tiravo a me il plaid che ero solita
lasciar fuori all’aria. “Ho preso ventotto all’esame di pittura ad
olio.”
“E non dovrebbe essere un evento felice?!” Mi
domandò, passandosi una mano nei capelli biondi ormai lunghi fino alle spalle e
lanciando lontano la cicca ormai consumata.
Sorrisi, cercando di darmi un contegno. Scoppiai di
nuovo a ridere. “…oh, ma lo è.”
“Di solito si beve per dimenticare.”
Ci pensai su qualche istante. Non aveva tutti i torti,
riflettendoci bene. “…non si può bere per festeggiare qualcosa?!”
Il suo sguardo di ghiaccio si incrociò col mio. Mi
sorrise in una maniera strana, quasi beffarda. “Non se dopo si deve star male.
Non ha senso festeggiare in questo modo.”
Non ebbi neppure il tempo di replicare che non stavo
affatto male, a parte qualche capogiro, poiché un potente conato di vomito mi
interruppe. Mi sporsi dal balconcino che affacciava sul lato destro della Tana e
rigettai nell’aiuola preferita di mamma. Sentii solo una mano ruvida e grande,
raccogliermi i capelli alla base della nuca e un’altra, calda e rassicurante,
massaggiarmi e picchiettarmi delicatamente la schiena, alleviandomi gli spasmi
provocati dai conati.
“Non devi bere così tanto. Ti fa male.”
Annuii.
Conoscendo il mio carattere, se fossi stata lucida e in
grado di mettere insieme due parole di senso compiuto, lo avrei aggredito
ricordandogli che lui non era niente e nessuno per dirmi cosa potevo e cosa non
potevo fare. Ma gli fui grata di quel consiglio spassionato e di quel tocco così
gentile e quindi tacqui.
Lo seguii all’interno della casa, fino in cucina e lo
guardai tagliare a metà un limone.
“Sei in grado di preparare un caffè?!”
Scossi la testa e cercai a tentoni la mia bacchetta
magica, nascosta tra le pieghe del giubbino di pelle marrone, infilzata nella
cintura dei pantaloni. Moka e polvere fecero tutto da sole, per mia fortuna. E
quando il caffè fu pronto e versato nella tazzina, Malfoy pensò bene di fare
ciò che temevo facesse. Spremette il succo di limone nel liquido nero e mi
allungò il tutto, intimandomi già solo con un’occhiata di bere ciò che
aveva osato preparare.
“…stai scherzando, vero?!” Biascicavo. E sì che
forse quell’intruglio mi avrebbe anche aiutata, visto le condizioni in cui
versavo, ma l’idea di dover buttare giù quel caffè amaro, di per sé
inconcepibile per me che lo prendevo con non meno di tre cucchiaini di zucchero,
e per di più diluito con del limone… mi nauseava.
“Non scherzo affatto, Weasley.” Ribatté risoluto,
squadrandomi con aria più che seria. “Bevilo, o domani tua madre ti farà una
bella ramanzina.”
Forse fu proprio quella frase a convincermi. O forse la
sensazione prossima al vomito che mi colse di nuovo. Fatto sta che avvicinai la
tazzina alle labbra e buttai giù quella cosa
senza fiatare, stringendo gli occhi e reprimendo un singhiozzo disgustato,
quando ingoiai. Dire che faceva schifo, sarebbe troppo poco.
Con cipiglio fiero e soddisfatto e le braccia conserte,
Malfoy mi osservò per qualche minuto in silenzio. “Bene. Ora ti consiglierei
una doccia, puzzi tremendamente di alcool.”
L’avrei anche fatto, se nell’alzarmi dalla sedia
non avessi pericolosamente barcollato in avanti, col rischio di finire lunga per
terra.
“Gira tutto…” Mi aggrappai al tavolo, respirando
a pieni polmoni per non permettere alla nausea di assalirmi ancora.
Con forza un po’ eccessiva e senza troppa
delicatezza, Malfoy mi afferrò per le spalle e mi spinse verso il bagno. Mi
diede appena una mano a togliere il giubbotto e con ancora i jeans e il
maglioncino azzurro addosso, mi infilò nella cabina della doccia, aprendo
l’acqua fredda.
“…ma sei impazzito!?!”
Cercai di uscire da lì. Era inverno e la temperatura
era molto bassa, con quella doccia ero certa che mi sarei beccata un malanno.
Alzai lo sguardo su di lui, provando a spingerlo lontano per guadagnare spazio e
sfuggirgli, ma il peso del suo corpo mi schiacciò contro le mattonelle,
impedendomi di muovere un solo passo.
“Mollami.”
Le sue mani mi afferrarono le spalle, bloccandomi ogni
tentativo di fuga. “Ferma sciocca.”
Mi arresi. Lasciai che l’acqua gelida mi
infradiciasse e solo quando Malfoy si decise a chiudere la manopola della
doccia, mi accasciai tra le sue braccia, esausta. Trovai sollievo non appena mi
avvolse in un grande asciugamano che doveva aver riscaldato con un incantesimo.
E mi duole ammetterlo, ma la sbornia era ormai andata.
Ragion per cui, nulla di tutto ciò che è accaduto dopo, posso attribuirlo ai
fumi dell’alcool.
Non so come, l’attimo preciso e il perché mi
ritrovai a pensare che Draco Malfoy, l’acerrimo nemico dei miei fratelli, di
Harry e anche mio, sin dai tempi della scuola, era affascinante. Bello, era il
termine adatto.
Penso che in realtà, una parte di me lo considerasse
interessante da sempre, ma il fatto che fosse il
male, la persona sbagliata, mi
avesse sempre frenata dall’esporre questa idea a qualcuno o persino a me
stessa.
Non attese molto. Non restammo che pochi istanti a
fissarci. Lui, bagnato fradicio, con alcune ciocche di capelli biondissimi
appiccicati al viso e quello sguardo accigliato, era dannatamente sensuale. Mi
baciò. Un bacio umido, frettoloso, al quale risposi con agitazione e
coinvolgimento crescenti.
Ci trascinammo a tentoni al primo piano, urtando
maldestramente i gradini della scaletta e infilando la porta della stanza con
velocità e poca attenzione. Draco, come avevo preso a chiamarlo in quei
momenti, col fiato corto, si chiuse la porta alle spalle e la sigillò con la
mia bacchetta. Lo vidi sfilarsi il maglione bianco che indossava, ormai
inzuppato d’acqua e gettarlo a terra di malagrazia. Solo allora, lasciai
scivolare via l’asciugamano e gli permisi di avvicinarsi di nuovo.
Ricordo ancora le sue mani fredde sulla pelle umida
della mia schiena. Il modo poco gentile con cui mi tolse di dosso il maglioncino
e raggiunse i bottoni dei miei jeans strappati. Le sue labbra calde e morbide
nell’incavo tra il collo e la spalla e la sensazione di intenso calore che mi
colse, non appena mi ritrovai seminuda, di fronte a lui.
Ricordo davvero tutto di quegli attimi, della nostra
prima volta insieme.
A partire dai sospiri che sfuggivano alla bocca di
entrambi, fino al modo delizioso con cui gli sentii pronunciare il mio nome. Non
mi aveva mai chiamata ‘Ginevra’, eppure quella volta, mi sembrò che lo
avesse sempre fatto.
Il giorno dopo, quando mi risvegliai avvolta dalle
lenzuola del mio letto, i flashback della sera precedente mi colsero tutti in
una volta. Draco non era più al mio fianco, ma al suo posto, sul cuscino che
profumava ancora della sua essenza fresca e pungente, vi era una rosa bianca.
Penso che me l’avesse lasciata per tranquillizzarmi.
Sapeva che testarda e impulsiva come ero, avrei frainteso, credendo che mi
avesse solamente usata. Fu un gesto di delicatezza anche nei confronti di mia
madre. Quando venne a svegliarmi, infatti, mi trovò sola… e neanche mi sfiorò
l’idea che potesse capire qualche cosa, da come ero vestita. O non vestita,
che dir si voglia.
Questa è l’unica cosa che rimpiango.
Non essermi confidata coi miei genitori.
Né mio padre, né mia madre hanno mai saputo dalla mia
voce, ciò che mi legava a Draco Malfoy. Non hanno mai udito i miei racconti di
come, quella persona che avevano accolto in casa loro, che avevano odiato,
disprezzato e poi imparato a tollerare, fosse diventato il mio amante e in
seguito il mio compagno. I nostri incontri avvenivano di nascosto, così come
nascoste erano le frasi, i sorrisi e gli sguardi che ogni coppia di innamorati,
è solita scambiarsi. Entrambi odiavamo la clandestinità, ma sapevamo che era
l’unico modo per far maturare la nostra relazione, prima di affrontare a viso
aperto i miei familiari.
L’unica volta in cui ci decidemmo a parlare, fummo
interrotti dal ritorno di mio padre e né io, né mia madre, riuscimmo a
contenere la gioia per quella sorpresa così agognata e allo stesso tempo
inattesa. Draco fu così premuroso da lasciarci vivere quello spiraglio di
felicità, che da tempo cercavamo.
Più i mesi passavano, però, e più prendevo
consapevolezza di quanto amavo quell’uomo.
Imparai a conoscerlo bene, a scoprire lati del suo
carattere che nessuno poteva neanche lontanamente immaginare. Scoprii un modo di
fare nuovo, gentile, nei miei confronti. Non abbandonò mai il suo senso di
sfida e competizione nei confronti di mio fratello e di Harry e continuò a
stuzzicare Hermione, come al solito, ma sapevo che in fin dei conti, doveva loro
molto. E che ne era cosciente.
E più i mesi passavano, più la nostra storia
acquisiva forza. Da entrambi.
Iniziammo a renderci conto che il tempo a nostra
disposizione non era mai abbastanza, tra convocazioni al quartier generale per
nuove deposizioni e turni di studio e lavoro massacranti. Il vederci di
nascosto, non faceva che peggiorare la situazione.
Fu dopo una delle nostre rare, eppur utili, discussioni
che Draco mi condusse in giro per Hogsmeade.
Un pomeriggio di fine primavera. Non amavo passeggiare,
non più da quando temevo per la mia incolumità, conscia di rischiare la vita
anche solo camminando per le strade affollate della cittadina magica. Ma la
guerra aveva raggiunto risvolti inaspettati. Molti dei Mangiamorte più fedeli
al Signore Oscuro, Lucius Malfoy in testa, furono catturati e rinchiusi nella
nuova Azkaban, al sicuro da qualsiasi tentativo di evasione o di aiuto da parte
dei Dissennatori.
“Dove mi porti?!” Gli domandai, a metà tragitto,
alzando la testa e scrutando la sua espressione concentrata e sicura. Camminammo
per minuti e minuti, lungo la via principale del paese, tenendoci stretti per
mano, forse per paura di perderci nella calca di gente che visitava il posto.
Sorrise compiaciuto, seguitando a guardare dritto
dinanzi a sé. “Lo vedrai…”
Si fermò di fronte ad un negozietto, che individuai
essere una sala da tea. Tante volte, durante le nostre chiacchierate, avevo
espresso il desiderio di uscire con lui, anche solo per bere un caffè o andare
in uno di quei posti che i babbani chiamano ‘cinema’, ma credevo che ciò
non sarebbe mai avvenuto. “Qui?!”
Mosse il capo in un cenno d’assenso e mi spinse
garbatamente verso l’entrata del localino.
Bel posto, pensai, appena vi misi piede. Un posto senza
troppe pretese, appartato, piccolo… profumato di fiori e frutta, delicato
anche nell’arredamento. Prendemmo posto ad uno dei tavolini addobbati con
tovaglie color pastello e stemmo in silenzio, per un bel po’. Le tazze di tea
che avevamo ordinato, fumavano di fronte a noi, immobili.
“…è ora di mettere le carte in tavola con i tuoi,
Ginevra.” Mi disse grave, cercando di afferrare una mia mano con la sua. Mi
irrigidii. E non perché non fossi d’accordo con ciò che mi stava proponendo.
Tutt’altro.
Annuii. “Lo so. Ci sto pensando da tempo. E’ che
non so come-”
“Reagiranno?!” Mi interruppe lievemente divertito.
Feci segno di sì, con la testa, ma rimasi zitta. “Preoccupa anche me. Credo
che tuo fratello vorrà la mia testa su un piatto d’argento.”
Allargai gli occhi e feci finta di pensarci un po’
su. “Effettivamente… sì.”
Quello scambio di battute, apparentemente stupido e
forse inutile, aiutò a sciogliere la tensione che si era creata. Gli fui grata
di questo. Sapevo quanto gli costasse essere spiritoso. Non era mai stato un
tipo dallo spiccato senso dell’umorismo.
“Però io non posso aspettare… Ginevra.”
Boccheggiai. Il cambiamento di tono da quasi gioviale,
a serio, mi spaventò. “Co-come?!”
Lo vidi scuotere la chioma bionda e chiudere gli occhi.
“Non posso continuare a nascondere ciò che sento per te. Non ci riesco ed è
anche la prima volta che mi accade. Voglio poter dimostrare apertamente ciò che
provo, davanti a tutti. Voglio andare a dormire e svegliarmi con te. Voglio
poterti stringere una mano, baciarti quando ne sento il bisogno. Voglio stare
con te… alla luce del sole.”
Quelle parole così sincere, così inusuali sulla sua
bocca, mi commossero. Avevo gli occhi lucidi, ma non m’importava. “Anch’io
Draco. Mi dispiace di averti costretto a-” Mi zittì, posandomi una mano sulle
labbra e portando le dita di quella stessa mano ai miei capelli, per spostarmi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Ginevra… non mi hai costretto a far nulla. Tutto
ciò che ho detto o fatto, è stato perché lo volevo anche io. Chiaro? E ora so
che ci vorrà del tempo, che avrai bisogno di pensarci e un sacco di altre cose
che mi faranno impazzire, ma… devo chiedertelo. Vuoi diventare mia moglie?!”
Mi chiese all’improvviso. Il mio cuore perse un battito. Per un po’ non fui
assolutamente sicura di respirare nel modo più corretto. Di respirare, a dirla
tutta. E ne fui ancor meno convinta, quando lo vidi estrarre una scatola dalla
giacchetta che indossava e tirarne fuori un cerchietto d’oro bianco. Un anello
semplice sì, ma splendido proprio per la sua semplicità.
“Merlino sì… sì, certo che lo voglio.”
E nell’abbraccio che ci scambiammo, seguito da un
bacio quasi casto per i nostri standard, riversai tutto l’amore e
l’incontenibile contentezza che provavo in quel momento.
Ero felice. Di una felicità pura, genuina… quasi
infantile.
La guerra, gli scontri, la disperazione di quei mesi,
si dissolsero completamente. Mi bastò sapere che sarei diventata sua. A tutti
gli effetti, senza più remore o sotterfugi. Marito e moglie.
Continuai a studiare e a dare esami, sorprendendo me
stessa per la vitalità con cui affrontavo ogni nuovo giorno.
Feci un dipinto. Quello che ritengo tutt’ora il mio
miglior lavoro. Decisi che sarebbe stato il mio regalo di nozze per Draco.
Era un suo ritratto. Un bel dipinto ad olio che lo
raffigurava in tutta la sua splendida fierezza. Lo dipinsi durante una notte di
tempesta, mentre tutti erano fuori, al quartier generale e la Tana ci offriva un
caldo rifugio tutto per noi. Chiusi, nella mia camera da letto, dopo aver fatto
l’amore non so quante volte. Aveva un’aria davvero meravigliosa, subito
dopo. Non c’era giorno che non glielo ricordassi, scoprendo persino il suo
lato più impensato. Un’inaspettata timidezza. Un apprezzato imbarazzo.
Una settimana dopo quella sera, a Draco venne
comunicato il suo immediato impiego nelle forze degli Auror. Doveva scendere in
campo e combattere nella sezione degli Agenti Speciali, sotto copertura.
Sopraggiunse la paura.
“Non andare…” Lo pregai, Merlino sa solo quante
volte lo pregai di rifiutare. Di chiedere aiuto a Silente in persona, se
necessario. Mi offrii io stessa di farlo. Avrei messo sotto sopra l’intero
quartier generale dell’Ordine della Fenice, se questo poteva impedirgli di
finire nelle schiere dell’esercito. Non ci fu verso di convincerlo.
Mi salutò di sera, baciandomi nella penombra della mia
camera e sgusciando via. “Tornerò… aspettami. Abbiamo un matrimonio da
preparare e dobbiamo parlarne coi tuoi.”
Sorrisi per il tono che aveva usato. Sempre così
sicuro di sé, così spavaldo con la vita, guerriero di fronte alla morte.
Maledissi il mio essere donna. Odiai e detestai il mio
sesto senso, quell’infingardo che chiamano intuito femminile. Sentivo che
sarebbe successo qualcosa eppure volevo negarlo. A me stessa e davanti agli
altri. Mi mostrai sicura più di quanto non lo fossi realmente. Salutai lui,
Ron, Harry ed Hermione sulla porta di casa, con alle spalle mia madre e mio
padre, esonerato dal servizio. Con ancora la mano alzata, ed un sorriso tirato
dipinto sul volto, li guardai scomparire nel buio della notte e mi chiusi la
porta alle spalle.
Non cenai quella sera, non avevo fame.
Per tre, lunghi, giorni aspettai. Ascoltavo la radio
modello babbano e leggevo la Gazzetta del Profeta in attesa di comunicati.
Attendevo mio padre di ritorno dal quartier generale, fino a quando rientrava,
spossato e sconsolato e mi comunicava che no, non c’erano notizie. Bastava
guardarci ormai, per capire cosa volessi sapere.
In cuor mio, penso sapesse bene di chi mi interessasse
avere informazioni, eppure né lui, né mamma mi dissero mai nulla.
Il terzo giorno, mentre dipingevo nella piccola
soffitta della Tana, sentii suonare il campanello. Veloce, come non credevo
neppure di essere e con il cuore in gola, mi precipitai giù dalle scale,
sorpassando mia madre e aprendo di scatto la porta. Non capii immediatamente ciò
che avevo di fronte, chi fossero quelle due persone dall’aria cupa e
inflessibile che mi si pararono di fronte. Sentii mamma reprimere un singhiozzo
e mi voltai a guardarla.
“E’ successo qualcosa a Ron?”
Uno dei due uomini, con addosso la divisa da Auror, mi
porse una borsa blu e una bandiera inglese, decorosamente ripiegata tra le sue
mani.
“E’ successo qualcosa a mio fratello?!” Domandai
di nuovo. Il cuore aveva preso a battermi furiosamente nel petto e la
consapevolezza che sì, qualcosa di tragico era realmente accaduto, prese a
martellarmi in testa. “E’ Harry?... Hermione?... No… non lui…”
“Il soldato Draco Malfoy, Agente Speciale della
Sezione Collaboratori è caduto questa mattina in combattimento.”
Sentii che qualcosa in me si era rotto. Quello che
avevo udito, così diretto, senza alcun giro di parole, mi sconvolse. Strinsi
forte a me la bandiera e la borsa e neppure mi resi conto che avevo iniziato a
piangere, che mi ero accasciata per terra, senza forze.
Non udii le preghiere di mia madre, i tentativi di
spronarmi a rialzarmi da terra. A malapena carpì qualche stralcio del discorso
su quanto l’esercito fosse grato a Draco, per aver combattuto da eroe, fino
all’ultimo.
Baggianate! Mi ripetevo. Draco era e sarebbe sempre
stato una marionetta nelle mani dell’esercito e dell’Ordine. Era stato
costretto a lottare, come collaboratore ed era… no, non riuscivo neppure a
pensarci. Non riuscivo a dirlo, a formulare quel pensiero.
Voldemort era stato sconfitto. La guerra era
conclusa… ma Draco, Draco non c’era più. Non aveva adempiuto alla
promessa… non era tornato da me.
Fa male. A distanza di anni da quel giorno, il ricordo
degli eventi che mi hanno condotta a vivere da sola, lontana da tutti, fa ancora
male.
Non passa giorno che non mi chieda cosa ne sarebbe
della nostra vita, se Draco avesse rifiutato di combattere con gli Auror.
Non passa giorno che io non mi rechi al cimitero, dove
c’è la sua lapide e vi deponga una rosa bianca, in memoria di quando il
nostro amore è sbocciato.
Ho amato Draco Malfoy. Ho amato la persona che io
conoscevo, non il borioso ed arrogante Serpeverde di Hogwarts.
Ma il destino c’è stato avverso e c’ha separato
prima che il nostro sogno si coronasse.
Di lui, del nostro amore, l’unico segno che ho sono
l’anello di cui mi fece dono quel pomeriggio ad Hogsmeade e che simboleggiava
una futura promessa di amore eterno e il ritratto ad olio, che custodisco
gelosamente nel salotto del mio appartamento. Ma più di tutto, ciò che mi
resta di Draco, sono i miei ricordi. Ricordi che nessuno mi porterà mai via.
Che nessuno, mai, riuscirà a sporcare o ledere.
Ricordi di quel sentimento che la vita, ingiusta e
crudele, c’ha strappato. Ricordi che affido a queste pagine e che resteranno
per sempre con me.
A
Draco Malfoy. All’uomo che ho amato e amerò più di me stessa.
Perché
il cuore di una donna, è un oceano di segreti.
Perché
la guerra vince la vita, ma l’amore vince la morte.
Ginevra
Weasley.
FINE
Ok, posate le armi e prendete i fazzoletti. C’è chi
già sapeva di questa mia idea kamikaze (nel senso che fare storie che finisco
male, qua mi puzza di suicidio, specie con le lettrici amorevoli che mi ritrovo
^^) e che quindi è preparato. Per chi non lo sapeva… beh, ehm, eccola qui ^^
Che ne pensate?
Ora, non posso trattenermi tanto perché è tardi, ma
ci tengo a chiedervi un piccolo parere. Per sapere come me la sono cavata.
Troppo triste? Troppo dolce? Troppo romantica? Decidete voi ^^
Io attendo.
Bacioni e alla prossima.
Luna Malfoy