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Autore: Hermione Weasley    28/09/2014    5 recensioni
Lei è in fuga da se stessa. A lui sono stati offerti due milioni di dollari per ucciderla. Ma le mire di qualcun altro, deciso a riunire sei persone che non hanno più niente da perdere, manderanno all'aria i loro piani.
-
“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.
“Un forestiere!” Decise un altro.
“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.
Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

[Clint x Natasha + Avengers] [Dark!AU] [Completa]
Genere: Azione, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Capitolo 5 -

 

 

 

“Cheeseburger con patatine, bacon, salsa piccante e jalapeño?” La cameriera fece scorrere lo sguardo sui tre, non molto convinta da quello che doveva sembrarle, a tutti gli effetti, un bizzarro assortimento.

Clint le indicò Donald con un cenno del capo prima di tornare a rivolgere la sua totale, indefessa attenzione al proprio boccale di birra ormai agli sgoccioli. La seguì discretamente con lo sguardo mentre si allontanava per andare a prendere altri ordini ad un tavolo vicino: indossava una striminzita t-shirt nera su cui era cucito il logo del piccolo pub in cui si trovavano, sopra un paio di shorts che a malapena potevano essere definiti dei pantaloni. Clint non aveva la benché minima intenzione di lamentarsi: la serata faceva già abbastanza schifo, tanto valeva rifarsi gli occhi con qualcosa di bello, no? (E che, preferibilmente, non avesse la fastidiosa abitudine di prenderlo a pugni.)

La cameriera sparì sul retro, privandolo dello spettacolo. Fece vagare gli occhi tutt'intorno, sui vari gruppetti di gente assiepata a ciascun tavolo, sul trio di ragazze che avevano occupato il lato libero del locale per mettersi a ballare e attirare così l'attenzione di altrettanti coetanei poco distanti, sul barman che pareva muoversi come al rallentatore... sembrava che l'intera popolazione di Puente Antiguo si fosse data appuntamento in quel posto. Donne, uomini, vecchi, persino qualche bambino a correre tra i tavoli nel disperato tentativo di sfuggire alle grinfie di genitori stressati.

Trattenne a stento un'imprecazione quando si accorse di essere arrivato alla fine della sua birra. Riappoggiò il boccale sul tavolo, scoccando un'occhiata a Donald. A Clint non c'era voluto molto per rendersi conto che il commesso del negozio di elettronica li aveva fottuti: aveva accettato l'invito a cena e aveva mantenuto la parola data. D'altro canto, neppure aveva specificato che avrebbe ripagato cibo e birra degnandoli di una qualche risposta. Era da circa mezz'ora e un paio di hamburger che Donald si ostinava ad un assoluto, totale silenzio, fatta accezione per i saluti di rito a concittadini e conoscenti.

Natasha aveva inutilmente tentato di intavolare una qualche discussione, ma l'uomo si era limitato a ficcarsi una manciata di patatine in bocca, lasciando cadere le inquisizioni della donna nel vuoto. Nonostante l'esasperazione fosse ben visibile sul suo volto, la ragazza non sembrava avere alcuna intenzione di arrendersi.

“Ho abbastanza soldi per altri venticinque cheeseburger,” l'avvertì. “Spero abbiano un po' di bicarbonato da prestarle.” Don le rivolse un placido sorriso a guance piene che però non gli raggiunse gli occhi. A Clint venne da ridere, guadagnandosi così un'occhiataccia della donna.

“Che c'è?” Domandò scocciato. “Sto cominciando a tifare per lui.”

“Dato che gli paghi la cena, mi pare il minimo,” ribatté lei astiosamente.

“Non ho avuto molta scelta.”

Natasha si limitò a far schioccare la lingua, tornando a fissare Donald, forse nella speranza di intimorirlo a tal punto da convincerlo a scucirsi almeno un po'. In ogni caso, sarebbe stata una serata lunghissima e Clint non era un particolare fan dei trucchetti psicologici.

“Ho bisogno di un'altra birra per sostenere questa brillante conversazione,” annunciò, approfittando della ricomparsa della cameriera per rimettersi in piedi e affiancarla al bancone. Non aveva un piano e neppure era sicuro di quali fossero le sue intenzioni: sapeva solo che la lontananza da casa si faceva sentire e che le sue serata al pub a bere birra e fare il coglione con i colleghi e le ragazze di Waverly (per quanto l'assortimento non fosse esattamente dei migliori), nonostante tutto, gli mancavano.

La donna, vassoio vuoto alla mano in attesa che il barman finisse di preparare certi cocktail dall'aria nauseabonda, parve accorgersi delle sue attenzioni, ricambiando il suo sguardo con un sorriso.

“Quindi... siete amici di Don?” Gli chiese, evitando di mantenere troppo a lungo il contatto visivo. Non era molto alta, né esageratamente attraente, ma aveva un bel fisico e lunghi capelli biondi raccolti in una treccia. Senza contare che praticamente qualsiasi cosa avrebbe potuto migliorare la situazione del cazzo in cui Clint era più che consapevole di trovarsi.

“Non proprio.”

“Amici di Jane?”

“Jane...” Scosse il capo, sperando che il barman si desse una mossa con quei dannati Long Island per occuparsi della sua birra.

“L'ex moglie.” Se c'era una cosa che Clint adorava delle cameriere e che aveva imparato sia sul lavoro (non quello ufficiale) sia nelle sue serate al pub, era che a loro piaceva parlare, a maggior ragione se ci si trovava in una località tanto piccola come quella di Puente Antiguo dove tutti sapevano tutto di tutti.

“Problemi in paradiso?” L'apostrofò, sforzandosi di apparire più brillante e sciolto di quanto non fosse in realtà (i primi approcci, che erano quelli che più detestava, gli venivano meglio dopo un paio di birre).

“Piuttosto all'inferno,” lo corresse in tono confidenziale, continuando ad osservarlo come in attesa di un qualche barlume di consapevolezza. Parve contrariata quando le fu chiaro che Clint non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando. “Davvero non conosci la storia di Don?”

“Sono appena arrivato,” si giustificò, celando a malapena il fastidio. Magari si trattava solo di stupide chiacchiere, ma c'era una qualche possibilità che potesse raccontargli qualcosa di utile, una qualche informazione che avrebbe potuto usare per sbloccare l'afasia dell'uomo... ammesso che gliene importasse qualcosa. Ci tenne a ricordarsi che quella era stata una crociata intrapresa da Natasha e alla quale lui si era accodato per forza di cose: le aveva promesso di accompagnarla, non di aiutarla in nessun modo.

“Era un astro nascente del pugilato,” la cameriera si era appoggiata al bancone con un braccio, sporgendo leggermente il busto in avanti e un fianco all'infuori. L'aveva osservato a lungo, come per decidere se ci si potesse fidare prima di vuotare il sacco. In ogni caso, il gossip aveva avuto la meglio.

“Chi? Don?”

La cameriera annuì, gli occhi scintillanti per la smania di andare avanti. “E' il figlio di un magnate norvegese, non ne hai mai sentito parlare? Suo padre era il capo della A.S.G.A.R.D. Incorporated.”

“Sul serio?” Niente di ciò che stava dicendo gli risultava in qualche modo familiare, ma finse comunque un certo interesse, giusto per vedere dove sarebbe andata a parare. Quel che avrebbe fatto, poi, con quelle informazioni, non aveva grande importanza.

“Sul serio. Avrebbe dovuto prendere il suo posto, essendo il figlio primogenito, ma Don voleva continuare col pugilato. Ha rotto con la famiglia e si è trasferito negli Stati Uniti.”

“Quanto tempo fa?”

“Non lo so, circa cinque anni fa mi pare,” scrollò le spalle: non era di certo il tipo di dettaglio che le interessava. “Si è sposato con Jane e ha continuato a combattere... aveva raggiunto una certa fama.”

“Ora che me lo dici, qualcosa mi è venuto in mente,” mentì spudoratamente, ottenendo però un ampio sorriso soddisfatto da parte della ragazza. Un atleta fallito non doveva faticar molto per essere considerato una celebrità in un paese tanto piccolo.

“Lo sapevo, è impossibile non averne sentito parlare!” Ignorò lo scontroso richiamo da parte del barman che la esortava a tornarsene a lavoro (“Sono con un cliente, Bill, non vedi?”), riportando subito dopo l'attenzione su di lui. “Comunque... è andato tutto bene finché suo padre non è morto. Siccome non comunicava più con la famiglia, Don è venuto a saperlo troppo tardi. Il fratellastro ha ereditato tutto.”

“Cazzo.”

“Già. Ha smantellato la società del padre non appena ne ha avuto la possibilità.”

“Come mai?”

“Rancori mai risolti, immagino. Quando Don l'ha scoperto ha passato davvero un brutto periodo. Ha cominciato a perdere tutti gli incontri e alla fine pure il contratto che aveva col suo preparatore e gli sponsor...”

Clint si accigliò, voltandosi appena verso il tavolo dove Donald stava ancora mangiando sotto lo sguardo impietrito di Natasha.

“... la moglie era una scienziata. Si sono trasferiti qui per qualcosa che aveva a che fare col lavoro di lei. Io non ci capisco niente di fisica, ma era una roba complessa.” Con un brusco gesto mise a tacere l'ennesimo richiamano del barman. “Il matrimonio è andato a rotoli, comunque. Non hanno retto al tracollo di lui. Alla fine Jane se n'è andata e lui è rimasto.” Rilasciò un impercettibile sospiro, fissando i suoi grandi occhi scuri su Clint, come aspettandosi di vederlo condividere la tristezza per le vicende del povero Blake.

“Che situazione del cazzo,” fu tutto quello che riuscì a formulare.

“Già. Adesso le cose sembrano un po' migliorate... ha ripreso a fare qualche lavoretto in città e persino ad uscire un po' la sera. E' un bravo ragazzo, in fondo, quando è di buon umore è persino divertente.”

“Me ne sono... accorto,” l'ennesima bugia, giusto per dire qualcosa.

“E sai qual è la parte migliore?” Senza neanche aspettare una risposta, la ragazza si sporse verso di lui con fare confidenziale. Profumava di bagnoschiuma e... lacca per capelli. “Il suo vero nome è Thor.”

“Thor?”

“Brandy!” La voce del barman, stavolta, non permetteva deroghe.

“Vado, Bill, vado! Tu la pazienza non sai nemmeno dove stia di casa, ah?” Lo rimbrottò lei, inspiegabilmente esasperata dall'insistenza del principale. Clint l'aiutò a sistemare i Long Island e un'acqua tonica sul vassoio, mentre il famigerato Bill gli ripassava il suo boccale di birra, finalmente pieno, sicuramente per esortarlo ad allontanarsi e smetterla di distrarre la cameriera.

“Comunque mi chiamo Brandy,” aggiunse, prima che Clint non avvertisse le dita di lei scivolargli nella tasca anteriore dei jeans. “Stacco a mezzanotte.” Gli fece l'occhiolino e si allontanò con le sue ordinazioni prima che potesse aggiungere altro. Scoprì che gli aveva lasciato un fazzoletto su cui aveva scarabocchiato il suo numero di telefono (se lo stesse tenendo d'occhio da prima o se ne avesse uno sempre pronto all'occorrenza, non riuscì a deciderlo e neanche gli parve rilevante farlo).

Sorrise tra sé, incredulo di tanta fortuna.

 

*

 

Natasha stava cominciando a perdere la pazienza: la consapevolezza di non essere neanche capace di convincere un tizio qualunque a parlare con lei, la faceva sentire fuori luogo, inadeguata. Una parte di lei si era convinta che gli insegnamenti di Ivan, senza la costante e rincuorante presenza del suo mentore, non sarebbero serviti a niente. Dopotutto che cosa aveva combinato da quando aveva lasciato San Paolo? Era riuscita a fuggire, certo, ma si era pure lasciata trovare non una, ma ben due volte. Aveva fatto sfoggio delle sue tecniche di combattimento solo per sedare una rissa prima e per stordire un singolo uomo poi. Infine aveva proposto al suo assassino di aiutarla in un'assurda caccia al tesoro che non prevedeva proprio niente di buono, promettendogli che si sarebbe fatta ammazzare di lì ad una settimana. Non era ancora del tutto certa che gliel'avrebbe lasciato fare, ma più andava avanti, più comprendeva di non essere tagliata per quel genere di vita, più la convinzione di non essere altro che un'incompetente senza legami né sicurezze scendeva su di lei, opprimendole il petto.

Se non fosse riuscita a sbloccare quella situazione al più presto, non solo non avrebbe mai scoperto chi diavolo fosse sulle sue tracce, ma neanche avrebbe convinto Clint a continuare quel viaggio improbabile. Sollevò lo sguardo verso il fondo del pub dove l'uomo sembrava impegnato in una fitta conversazione con la cameriera che li aveva serviti. La distanza tra i due era irrisoria: entrambi appoggiati con un gomito al bancone, lei in una posa che valeva più di mille parole, lui leggermente sbilanciato in avanti, come ad avvolgerla con la sua presenza e ribadire il proprio interesse.

Tornò bruscamente su Donald che, d'altro canto, pareva avere occhi solo per il suo secondo cheeseburger.

“Non voglio infilarti nei casini,” riprese a parlare neanche lei sapeva bene perché, tentando di suonare meno formale. “Voglio solo sapere chi ci sta cercando.”

L'uomo non si degnò neppure di guardarla, infilandosi il pollice sporco di ketchup in bocca prima di addentare quel che restava del suo panino. Fu costretta a trattenersi per non tirargli un calcio sotto al tavolo.

Clint riprese il suo posto sulla panca accanto a lei un attimo dopo, un sorriso insopportabile sul volto (il primo che gli avesse mai visto addosso da quando l'aveva conosciuto). Suppose che l'approccio con la cameriera fosse andato alla grande, ma non riuscì ad essere felice per lui. Ostentò un ragionevole disinteresse, senza avere alcuna voglia di mettersi a pensare a come e perché le avesse dato fastidio. Anzi, lo sapeva già perché: avevano intrapreso quel viaggio con un intento ben preciso, che di sicuro non prevedeva sbattersi cameriere in paesini sperduti nel deserto.

“Thor, ah?” Dopo un lunghissimo attimo di assoluto silenzio, Clint si era finalmente deciso a parlare. Natasha fece per voltarsi verso di lui, chiedergli di che diavolo stesse parlando, ma la brusca reazione di Donald catalizzò tutta la sua attenzione: aveva smesso di masticare, lasciando cadere nel piatto la patatina che stava per azzannare. Lo vide afferrare il tovagliolo sporco, svuotare il suo boccale di birra e pulirsi la bocca in rapida sequenza. Si sarebbe sicuramente alzato e allontanato se Natasha non avesse assecondato l'istinto: gli piantò un piede tra le gambe, facendo pressione sul cavallo dei suoi pantaloni.

“Vattene e giuro che ti dimenticherai anche di averne avuto uno,” lo minacciò.

Donald si immobilizzò sul posto, ma più che preoccupato sembrava... divertito. Scoppiò in una fragorosa risata in cui Natasha non stentò a riconoscere una non trascurabile rabbia repressa.

“Avete intenzione di tenermi inchiodato qui fino... a quando?”

“Finché sarà necessario,” decretò in tono pratico prima di voltarsi verso Clint. “Chi diavolo è Thor?”

L'uomo le rivolse un'occhiata sfuggente prima di spostarsi su Donald, il quale lo stava osservando intensamente, i tratti del volto irrigiditi, le mani chiuse a pugno sul tavolo, le nocche bianchissime. Sembrava volesse avvertirlo di scegliere per bene le parole, a meno che non avesse voluto pagarne le conseguenze.

“E' il suo vero nome,” stabilì infine, “giusto Don?” Chiese conferma, ricevendo in risposta solo un basso ringhio di disapprovazione.

“Si chiama Thor. E questo come ci aiuta, di grazia?” Ribatté, senza riuscire a capire dove diavolo Clint volesse andare a parare: Thor era sicuramente un nome più particolare di Donald. Magari aveva voluto confondersi tra la folla, evitare che qualcuno lo trovasse.

“Il nome? A niente,” ribatté Clint, improvvisamente sulla difensiva. “Ma era un pugile.”

Natasha fece mente locale: doveva esserci un criterio dietro la distribuzione di quei pacchi, un filo rosso che li legava gli uni agli altri sebbene il collegamento non fosse poi così immediato.

“Credo che qualcuno voglia offrirci un lavoro,” l'uomo ribadì, arrivando alla medesima conclusione che Natasha non aveva fatto in tempo a formulare.

“Che genere di lavoro?” Intervenne Thor, improvvisamente più interessato che incazzato.

“Un lavoro illegale,” precisò.

“Chi cazzo siete voi due, si può sapere?” Fece scorrere lo sguardo da lei a Clint e ritorno.

“Tu che ne dici?” Domandò Natasha.

“Non voglio avere niente a che fare con voi. Rigo dritto, adesso, non è come pri-”

“Se siamo qui è perché abbiamo fatto tutti qualcosa di illegale,” stabilì l'uomo al suo fianco. “Scommetto che non sei venuto a Puente Antiguo solo per seguire tua moglie.” Natasha capì che la conversazione con la cameriera non era stata poi una gran perdita di tempo.

“Tu non sai un cazzo di me,” puntualizzò rabbiosamente Thor, sporgendosi verso di lui con aria minacciosa.

“So quanto basta. Qualcuno conosce il tuo passato... chi ti dice che non torneranno a romperti le palle?”

“Ci siete voi due a rompermi le palle.”

“Siamo nella tua stessa situazione. Abbiamo ricevuto quel cazzo di pacco e vogliamo sapere di che diavolo si tratta. Non ti preoccupa il pensiero che qualcuno sia in grado di trovarci in qualsiasi momento?” La placida furia con cui Clint gli stava illustrando la situazione, il tono pratico con cui esponeva i fatti, la sorprese: era più che convinta che non l'avrebbe aiutata neanche sotto tortura.

Thor si zittì, passandosi una mano sulle guance ispide di barba, evidentemente indeciso.

“Sapevamo dove trovarti perché qualcuno mi ha mandato il tuo indirizzo,” sottolineò ancora una volta. “Se ci rifiutassimo, non sappiamo quali sarebbero le conseguenze.”

“Potrebbero tornare a ricattarti,” intervenne Natasha, capendo che sia il momento che la tattica erano propizi. “Se sanno dove vivevi, sanno anche che eri sposato.”

“Questo che cazzo c'entra?” La menzione della moglie non gli aveva fatto particolarmente piacere.

“Niente,” replicò elusivamente. “Solo che potremmo avere a che fare con gente potente che potrebbe non prendere bene un rifiuto... e usare altri mezzi di persuasione.”

“Mi state minacciando?” Natasha intuì che stava facendo un'immensa fatica a moderare il tono di voce.

“No. Ascolta...,” ritrasse il piede, rimettendosi seduta più compostamente. “Non ti stiamo chiedendo di venire con noi. Dacci quello che ti hanno mandato e ce ne andiamo.”

Thor le scoccò un'occhiata tutt'altro che convinta prima di voltarsi verso Clint, il quale si limitò a fargli cenno di procedere.

“E sia.” La concessione gli uscì più come un basso grugnito rabbioso che come una resa. Natasha lo osservò attentamente, pronta ad entrare in azione se l'uomo avesse tentato di fuggire prima di aver consegnato loro ciò che volevano. Lo vide cercare nelle tasche dei pantaloni neri della divisa che aveva ancora indosso, prima di rovesciare sul tavolo una manciata di cianfrusaglie: scontrini, l'involucro variopinto di una Pop-Tart, foglietti vari, un portachiavi a forma di martello...

“Una cartina inutile, un nome senza indirizzo, una chiave inutile,” elencò in tono ostile. “Contenti?”

Natasha dispiegò la pallina di carta che Thor aveva fatto del frammento di mappa, ispezionandone il retro finché non ebbe trovato quello che si aspettava, un numero due a malapena visibile. Lo mostrò a Clint, che aveva ripreso ad ostentare il più totale disinteresse per l'intera faccenda.

“Sei il secondo,” ragionò Natasha. “Sei tu quello che doveva trovarmi.” Il biglietto su cui era riportato il suo nome – il suo vero nome – non lasciava adito a dubbi.

“Credevo ti chiamassi Natalie Rushman,” ribatté Thor, ormai più che deciso ad andarsene il più rapidamente possibile.

“Natasha Romanoff,” lo corresse.

“Chiunque ci stia cercando, non voglio averci niente a che fare,” decretò in tono incontrovertibile.

“Fa' come ti pare,” lo liquidò lei, tirando fuori dallo zaino che aveva con sé la busta di carta dove aveva raccolto il contenuto degli altri due pacchi. “Ce ne andiamo prima dell'alba,” aggiunse in direzione di Clint.

“Prima ve ne andate e meglio è,” convenne Thor, rimettendosi finalmente in piedi sovrastandoli con tutta la sua altezza. Natasha doveva ammettere che, in circostanze avverse, non avrebbe mai voluto trovarselo davanti.

“Buona serata anche a te,” la voce di Clint, carica di sarcasmo, seguì l'uscita di scena dell'uomo, che non li degnò neppure di un saluto (non che Natasha se ne aspettasse uno).

“Ci conviene andare a dormire,” riprese lei, contando i soldi per pagare il conto.

“Io resto: ho voglia di un'altra birra.”

O di una cameriera. “Come preferisci.”

 

*

 

La luce dell'alba penetrò attraverso le tapparelle abbassate, dando a Natasha un'immediata sensazione di sollievo. L'ennesima stanza di motel, ma almeno più pulita del solito. Rimase immobile sul letto, aspettando che i raggi luminosi lo raggiungessero prima di scendere dal materasso, sgranchirsi le braccia e concedersi una doccia rapida.

La notte le era parsa lunghissima e tormentata: prima c'erano stati i gemiti e i sospiri dalla camera adiacente, quella occupata da Clint e – Natasha sospettava – dalla cameriera che doveva aver rimorchiato al pub. Si era sforzata di ignorarli, ma più andavano avanti, più le risultava impossibile non immaginarsi la scena: si era sempre chiesta com'è che quel genere di cose accadessero, nel mondo reale. Quello in cui non c'è nessuno ad indicarti chi devi sedurre, in quanto tempo e in che luogo, quello dove le cose si susseguono spontaneamente e il piacere è fine a se stesso.

Si era domandata che cosa piacesse ad uno come Clint, passando mentalmente in rassegna il repertorio delle tecniche che aveva imparato, sul campo e grazie ad Ivan, scegliendo quelle che le sembrava gli si addicessero di più. Il filo dei suoi pensieri l'aveva infine condotta in territori pericolosi: dopo essersi ritrovata con una mano affondata tra le cosce, il respiro irregolare, la fronte imperlata di sudore e il desiderio insoddisfatto ad arroventarle il basso ventre, aveva deciso di pensare ad altro, svuotare la mente.

Con il sonno, però, erano arrivati anche gli incubi. Si era svegliata almeno un paio di volte, il cuore a mille e la netta, sconcertante sensazione di poter percepire la presenza di Ivan a pochissimi passi di distanza. Aveva alternato quel torpore popolato di mostri, ad un'insonnia carica d'ansia. L'alba era finalmente giunta a liberarla dall'obbligo di dover almeno tentare un riposo e di questo gliene era grata.

Finì di lavarsi e di rivestirsi con gli abiti puliti che aveva acquistato in città il pomeriggio precedente, un paio di jeans scuri e una canottiera nera a spalline larghe. Gli stivali continuavano ad essere ridotti in pessime condizioni, ma si sarebbe dovuta accontentare almeno fino alla prossima tappa. Infilò tutte le cose che aveva nello zaino e uscì finalmente a godersi l'aria pungente del primo mattino: nel giro di un'ora al massimo, l'afa sarebbe sicuramente tornata ad opprimerla. La pelle delle spalle ancora le bruciava per la prolungata esposizione al sole.

Richiuse la porta, soffermandosi davanti a quella della stanza accanto. Bussò un paio di volte, senza ottenere alcuna risposta. Dopo una rapida sbirciatina attraverso le finestre chiuse, tirò fuori un paio di pinzette, cominciando ad armeggiare con la serratura finché non la sentì scattare e aprirsi.

Spalancò la porta, immediatamente investita dall'odore di birra, fumo e sesso. Mosse un passo all'interno della camera, calciando per sbaglio una lattina vuota che rotolò un paio di metri più avanti. Il rumore parve sufficiente a svegliare Clint, riverso a pancia in giù sul letto, il volto affondato nel cuscino, il lenzuolo a coprigli solo parte delle gambe. Rannicchiata sul lato opposto del letto, dormiva la cameriera: Natasha riconobbe i succinti pezzi della sua divisa abbandonati sul pavimento.

Restò per un istante ad osservare la scena, sentendo il fastidio subentrare alla sensazione incomprensibile che l'aveva invasa la notte precedente. La rabbia prese il sopravvento, convincendola infine a fare irruzione nella stanza, recuperare i vestiti di Clint e lanciarglieli addosso.

“Datti una mossa, partiamo tra cinque minuti.”

“E-Eh?” L'uomo le lanciò uno sguardo ancora carico di sonno ed incoscienza.

“Ho detto di darti una mossa. Partiamo tra cinque minuti,” ribadì. “O sei diventato sordo anche dall'altra parte?” L'insinuazione ebbe l'effetto di farlo scattare seduto sul letto, completamente nudo, un'espressione perplessa sul volto e quello che aveva l'aria di essere un gran mal di testa a deformargli il volto. A lungo andare, anche lui aveva finito per abbronzarsi (non che lei fosse riuscita a prendere altro colore che non fosse un malsano rosso aragosta).

“Come c-cazzo fai aaaa...,” uno sbadiglio lo interruppe, “... a sapere che sono mezzo sordo?”

“Vestiti,” insisté lei, aiutandolo a riunire tutti i suoi effetti personali prima di uscire dalla stanza e dirigersi a passo spedito verso la reception. Pagò per entrambe le camere coi soldi che non gli aveva ancora restituito (cosa che per altro non aveva alcuna intenzione di fare), affrettandosi in direzione del furgone parcheggiato all'esterno del comprensorio. L'uomo la raggiunse una decina di minuti dopo, quando aveva già acceso il motore e aperto la portiera del passeggero per velocizzare le manovre.

“Che cazzo, 'Tasha, sono solo le cinque del mattino,” protestò svogliatamente, prendendo posto accanto a lei. Aveva gli occhi ancora chiusi dal sonno, la sacca che conteneva il suo arco poggiata sulle gambe.

“Ti avevo detto che saremmo partiti all'alba e il nome è Natasha.”

“Possiamo almeno fermarci a prendere un caffè?”

“No,” ingranò la prima, seguendo le indicazioni per uscire da Puente Antiguo una volta per tutte (dubitava vivamente che ci sarebbe mai ritornata in vita sua).

“Oh, andiamo! Non farà di certo una gran differenza!”

“Alla prossima sosta, va bene?” Concesse con aria esasperata.

“Devo anche pisciare.”

“Non potevi farlo prima di uscire?”

“Ho avuto un problema tecnico, va bene?”

“Che razza di problema...,” si bloccò a metà frase, intuendo in qualche modo la sua risposta. “No, non lo voglio sapere,” si corresse.

“Capita a tutti...”

“Ti ho detto che non mi interessa.”

“... lo sapresti se ogni tanto ti concedessi qualche svago.”

“Che ne sai tu di quello che mi concedo o non mi concedo?”

“Ti si legge su tutta la faccia.”

“Potrei farti gridare come un dannato maiale sgozzato senza neppure toccarti, lo sai questo?” Se di dolore o di piacere, questo evitò volutamente di specificarlo. Si voltò verso di lui, rivolgendogli l'occhiata più penetrante di cui fu capace: le parve sul punto di replicare, ma lo sguardo doveva averlo convinto abbastanza da farlo infine desistere.

Il silenzio invase l'abitacolo, infranto solamente dal rumore degli oggetti che si spostavano sul retro ad ogni curva e dagli sbadigli continui dell'uomo.

“Quello non è Thor?” Clint le stava indicando una figura immobile in fondo alla strada – più che altro un puntino indistinto in prossimità del cartello che augurava a chi usciva da Puente Antiguo un ottimo viaggio e un pronto ritorno – fin troppo lontana perché potesse distinguerne i tratti.

“Come fai a vederlo?”

“Vedo meglio da lontano.”

“Sei presbite?”

“No, ateo,” replicò seriosamente.

“Stronzo.”

“Anche quello.”

Solo quando furono sufficientemente vicini, Natasha poté constatare che sì, si trattava proprio di Thor: un borsone caricato su una spalla, i capelli sciolti e ancora umidi ad incorniciargli il viso. Rallentò progressivamente l'andatura fino a fermarsi del tutto, senza però spegnere il motore.

“Cambiato idea?” Clint si sporse dal finestrino, rivolgendogli un rapido cenno di saluto.

“Potrei farlo di nuovo,” li avvertì Thor, un'espressione tutt'altro che allegra sul volto, gli occhi pesantemente cerchiati di nero: non ci voleva molto a capire che doveva essere rimasto sveglio tutta la notte a pensare. Alla fine le chiacchiere sulle possibili rappresaglie di chiunque li stesse cercando, dovevano aver avuto la meglio. Il fatto, poi, che né lei né Clint si fossero lasciati impressionare da quella prospettiva, stava solo a significarle che nessuno dei due aveva niente da perdere o parenti da compromettere.

“Sali sul retro,” lo invitò Natasha, aspettando che la portiera scorrevole si fosse richiusa prima di ripartire.

Mentre Thor prendeva posto sul materasso sul retro, si lasciarono Puente Antiguo alle spalle.


__________________________________________

Note:
E quindi abbiamo incontrato Donald... o meglio: la cameriera ci ha permesso di incontrare Donald. Come preannunciato ho ridotto il soprannaturale al minimo: quindi Thor non è più un asgardiano, ma "solo" il figlio di un ricco industriale norvegese che ha deciso di deviare dal percorso voluto per lui dalla famiglia, per tentare la fortuna negli States. Le cose non sono andate molto bene e per il nostro Thor non è stato tutto rose e fiori.
Nonostante Natasha stia navigando nella confusione più totale, non proprio preparata a gestire il mondo da sola, è straordinariamente riuscita a convincere non il primo, ma il secondo Vendicatore a seguirla! Clint, come sempre, dà di matto e gli ormoni non aiutano nessuno dei due a rimanere concentrati. (Sennò che gusto c'è?)
Nel prossimo capitolo daremo i primi indizi e ci avvicineremo al quarto Vendicatore... scommesse?
Ancora tanti ringraziamenti alla sclerosocia e a chiunque legga e commenti la storia :')
Alla prossima!
  
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