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Autore: Smaugslayer    28/09/2014    4 recensioni
Sono passati due anni da quando Sherlock ha lasciato la scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts tra urla di dolore.
Di lui, John Watson conserva solo tre libri e un ricordo che si sbiadisce ogni giorno che passa. Non ha più notizie del suo migliore amico da quando è stato rinchiuso all'Ospedale di San Mungo.
Finché non se lo ritrova davanti alla prima partita di Quidditch della stagione.
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Il biglietto fu recapitato due giorni dopo via gufo.
 
Vieni a giocare un’ultima volta, Sherlock Holmes. Non te ne pentirai.
 
Sotto la scritta c’era il disegno stilizzato di una torre e una stellina, seguiti da uno smile sbilenco.
 
E una data: quella notte a mezzanotte.
 
“Dov’è?” ringhiò Sherlock, scandagliando la tavolata di Serpeverde alla ricerca di Jim Moriarty.
 
Assente.
 
Per la prima volta dall’inizio di quell’assurda storia, aveva paura. Non poteva affrontare Moriarty alla luce del sole, perché nessun altro era al corrente delle nefandezze che aveva compiuto, e quindi lui aveva le mani legate dalle stupidissime norme della buona convivenza. Se Moriarty appariva innocente, lui non poteva fargli esplodere la testa con un incantesimo Reducto.
 
Rabbrividiva al pensiero che, se non avesse saltato un anno, avrebbe dovuto vederlo in classe ogni giorno, e fingere che non fosse successo nulla.
 
Non aveva paura per se stesso. Mai per se stesso.
 
Aveva paura per Molly Hooper, che era sempre stata così gentile e non lo aveva mai trattato come uno psicopatico, e la notte di Capodanno era corsa da lui, sconvolta dal fatto che il ragazzo con cui usciva sembrasse avere un’ossessione per lui.
 
Aveva paura per Greg Lestrade, una delle poche persone che avessero ancora un minimo di cervello in quella scuola, che non aveva esitato a sciogliere un intero scaffale solo per il gusto di burlarsi di lui e aiutare il povero John.
 
Era stata Irene Adler a fargli questo.
 
Doveva essersi proprio divertita a giocare con lui. Quanto doveva aver riso poi, nel raccontare a Jim Moriarty la frottola che si era inventata!
 
E lui le aveva creduto, e aveva provato compassione per lei, e l’aveva ammirata, e l’aveva aiutata.
 
Per lei aveva creato una pozione in grado di contrastare gli effetti terribili e distruttivi della licantropia… e lei si era pentita di averlo raggirato. Aveva scoperto di Magnussen e non ci aveva impiegato molto a fare due più due; lo aveva avvertito del fatto che lui non poteva essere colpevole, senza sospettare che la faccenda si sarebbe ritorta contro il suo amico Jim.
 
O forse lo sapeva, ma aveva deciso di vendicarsi di lui: dopotutto era colpa sua se lei era un lupo mannaro. Pensandoci bene, era probabile che avesse anche avvertito Jim che Sherlock era sulle sue tracce… benché questo fosse falso: a quel tempo Sherlock non aveva la minima idea di chi fosse il suo nemico. Chi sapeva cosa passava per la mente di quella ragazza?
 
Gli studenti rapiti da Moriarty non ne avevano fatto parola. Forse nemmeno avevano capito di essere stati rapiti: magari avevano dormito tutto il tempo, o si erano svegliati in qualche sgabuzzino e avevano creduto che si trattasse di uno scherzo.
 
Eccetto John, ovviamente.
 
Moriarty era disposto a tutto purché Sherlock non si impicciasse nei suoi affari, o almeno così aveva voluto dare a credere. Che poi bluffasse o no, Sherlock non ne era sicuro, ma il ragazzo che aveva introdotto un lupo mannaro nella scuola poteva benissimo arrivare a commettere un omicidio.
 
“Sai cosa succede se non mi lasci in pace, Sherlock?”
Sherlock poté finalmente muoversi e parlare. “Io vengo ucciso.”
Jim scoppiò a ridere di gusto. “Oh, no no no. Voglio dire, potrei sempre farlo un giorno, ma per adesso no. Ti ripeto la domanda: sai cosa succederà?”
Sherlock digrignò i denti. “No.”
“Ti strapperò il cuore.”
 
Aveva paura per Mary Morstan, quella creatura astuta e misteriosa, la diciassettenne più sveglia che avesse mai incontrato.
 
Se solo Sherlock avesse scoperto che cosa tramava Moriarty… gli indizi che aveva raccolto fino a quel punto non erano collegati in nessun modo: c’era Fenrir Greyback che penetrava nel territorio iper-protetto della scuola; c’era Richard Knight che ingeriva del veleno e ne restava quasi ucciso, quasi; e infine c’era il Marchio Nero. Aveva delle ipotesi, naturalmente… una più folle dell’altra.
Giocare un’ultima volta. Non prometteva nulla di buono. Solo perché Moriarty aveva diciassette anni, non significava che non potesse essere crudele.
 
Aveva paura per John.
 
Il suo istinto gli suggeriva di afferrarlo per un polso e correre via, al riparo dai pericoli.
 
Sapeva, in linea generale, cosa stava accadendo tra loro. Un tempo era stato convinto di poter semplicemente saltare quella fase, e invece c’era cascato anche lui. Si sentiva tradito da se stesso.
Non voleva neanche immaginare quali porcate fantasticassero di fare i suoi compagni di stanza alle ragazze a cui correvano dietro; le desideravano praticamente solo in modo fisico, le consideravano nient’altro che bei faccini e corpi sensuali. Era disgustato da quell’oltrepassare i limiti della decenza, da quel trionfo degli istinti più primitivi e animaleschi sulla ragione e sulla razionalità.
 
Con John era diverso.
 
Rivederlo per la prima volta dopo quasi due anni gli aveva tolto il fiato; non era stato in grado nemmeno di salutarlo, cosa per cui provava ancora vergogna. Da quel giorno si era sorpreso ad osservarlo di sottecchi, a cercare sempre più spesso il contatto con lui, ad attendere con ansia i momenti in cui restavano soli.
 
Provava una sincera simpatia per Mary, ma nel vederli insieme un tarlo gli rodeva il fegato e gli impediva di pensare lucidamente.
 
“Sherlock? Sherlock, lo stai facendo di nuovo.”
 
Sussultò. Qualcuno gli stava sventolando una mano davanti agli occhi.
 
Eh?”
 
“Quella specie di trance in cui ti isoli dal mondo.”
 
“Scusa, John.”
 
John Watson rise. “Ti senti bene? Da dove esce tutta questa remissività?”
 
Sherlock scosse la testa. “Che c’è?”
 
“Dopo scuola vieni ad allenarti a Quidditch con me? C’è il campo libero dalle cinque alle sette.”
 
“Sì… sì, certo. Scusa, devo andare a lezione. E anche tu, hai Pozioni con i Tassorosso.”
 
“Ci vediamo dopo, allora.”
 
 
 
Verso le cinque meno un quarto John si recò agli spogliatoi per indossare la tuta e le protezioni –guanti, ginocchiere, gomitiere e casco da Battitore.
 
Lo spogliatoio era dotato di un piccolo bagno con un lavandino e uno specchio scheggiato, che nessuno si era mai dato pena di riparare. Sui muri e dietro la porta generazioni e generazioni di giocatori di Grifondoro avevano lasciato i loro messaggi: per la maggior parte erano inneggi a squadre di Quidditch, ma spesso si incontravano anche lettere inscritte in cuoricini e commenti di apprezzamento alle ragazze; c’era ancora parecchio spazio disponibile, carta bianca per i futuri studenti.
 
John si appoggiò al lavabo e scrutò il proprio riflesso allo specchio.
Il casco gli appiattiva i capelli. Aveva un brufolo molto poco elegante sulla fronte.
 
Storse la bocca e arricciò il naso, cercando di convincersi di stare solo perdendo tempo. I suoi occhi non erano del blu che avrebbe desiderato: erano opachi, troppo scuri, e a volte assumevano una tonalità anonima e indefinita di grigio che era totalmente priva di personalità.
 
Prima di prendere la decisione di suicidarsi per la vergogna, distolse lo sguardo e si focalizzò sulle pareti graffitate, provando l’impulso di marchiarle anche lui. Doveva pur lasciare un segno del suo passaggio a Hogwarts, no?
 
Adocchiò un quadratino libero proprio accanto allo specchio e impugnò la bacchetta come una penna, appoggiando il braccio alla parete fredda. L’idea di lasciare un “viva i Tornados” come memoria del suo soggiorno era parecchio banale.
 
Sogghignando, scrisse:
 
Il giorno in cui lo colpirai in testa con uno di quei maledetti Bolidi sarà il giorno in cui gli
dirai che sei innamorato di lui
 
“Promesso” mormorò uscendo dallo stanzino. Tanto non sarebbe mai successo, no?
 
 
 
“Pronto?”
 
“Non hai paura di farmi male?”
 
John rise. “Sei troppo veloce, non ti colpirò mai.”
 
“Non dovresti sottovalutarti così.”
 
John aprì la valigetta che conteneva le palle e lasciò uscire uno dei due Bolidi, sparandolo immediatamente in aria con la mazza per avere il tempo di decollare.
 
Salirono a cavalcioni sulle scope e partirono in direzioni opposte, John quella del Bolide, Sherlock verso l’altra metà campo. Il Corvonero girò attorno agli anelli della porta e alle torrette, poi virò bruscamente e scese in picchiata.
 
Schivò il primo lancio con facilità, risalendo all’ultimo secondo con uno strattone alla scopa.
 
“Devi tirare più piano” consigliò a John scambiandosi di posto con lui. “Hai lanciato il Bolide troppo distante, e così lui non è riuscito a tornare verso di me. Se avessi tirato con minor forza, invece, non avrei avuto il tempo di andarmene perché una volta esaurita la spinta si sarebbe attaccato a me.” John ignorò completamente le sue pretese di fare il saputello.
 
A metà gennaio la Scozia non è esattamente il paese più caldo del mondo. Il sole era disceso rapidamente, facendo calare la temperatura di diversi gradi. Ben presto John perdette la sensibilità della bocca, del naso e delle orecchie; ogni tanto spalancava e strizzava gli occhi perché le ciglia non si ghiacciassero. Fortunatamente chi aveva progettato le divise era stato abbastanza lungimirante da dotarle di caldi guanti, o avrebbe perso anche la presa sulla mazza.
 
Quel giorno il cielo era terso ed era ancora rischiarato dalle ultime luci del crepuscolo. L’interno del castello, illuminato dalle candele, sembrava in fiamme.
 
John si era sempre rammaricato che quella struttura tanto imponente fosse semideserta, con moltissime sezioni e stanze inutilizzate. Per di più era un labirinto, e le scale letteralmente mobili non aiutavano ad orientarsi: non era semplice evitare di perdersi nei meandri dell’edificio.
 
Quando si giocava una partita i professori provvedevano all’illuminazione serale del campo, ma presto lui e Sherlock sarebbero stati costretti a rientrare, perché stava diventando difficile individuare il Bolide.
 
John lo vide arrivare a gran velocità e preparò la mazza, cercando Sherlock con la coda dell’occhio: lo scorse a pochi metri da terra, in prossimità della tribuna d’onore. In più di un’ora di allenamento l’aveva sempre mancato, ma questo non lo scoraggiava.
 
Il Bolide era a poco più di mezzo metro quando lo scagliò via. L’impatto si ripercosse sul suo braccio facendolo tremare.
 
Sherlock fu colpito alla testa e per poco non cadde dalla scopa, ma subito mostrò i pollici alzati e volò distante.
 
John gli fece segno di seguirlo e puntò verso il basso per atterrare. Tenendo d’occhio la palla, che stava rapidamente convergendo verso di lui, e preparandosi a riceverla di petto, incespicò nel scendere dalla scopa e franò a terra.
 
Per un terrificante momento non vide che neve, poi le ginocchia urtarono terra e le mani affondarono nella massa di cristalli.
 
Prima che potesse rialzarsi e affrontare il Bolide qualcosa cadde accanto a lui e si trascinò per diversi metri contorcendosi.
 
La scopa di Sherlock era a terra, e il suo proprietario si stava dibattendo per contrastare il Bolide che teneva fra le braccia. John si precipitò verso la valigetta e insieme all’amico lo intrappolò tra le cinghie di contenimento.
 
“Grazie” mormorò lentamente, perché aveva le labbra congelate e non riusciva ad esprimersi in altro modo.
 
“Ho lo sterno ammaccato” replicò Sherlock sedendosi a terra a gambe incrociate.
 
“Non posso credere di averti colpito!” John era costernato. “Perché diavolo non ti sei mosso?”
Sherlock unì le lunghe dita sotto il mento. “Volevo concederti l’onore di colpirmi almeno una volta.”
 
“Grazie, eh.”
 
“John… Moriarty mi ha inviato un biglietto.”
 
Cosa? Quando? Perché non me l’hai detto?”
 
“Volevo… stare con te senza che le nostre azioni fossero condizionate da lui” spiegò Sherlock con schiettezza. “Vuole incontrarmi stanotte a mezzanotte sulla Torre di Astronomia. Credo che voglia uccidermi…
 
“Sai cosa succede se non mi lasci in pace, Sherlock? Ti strapperò il cuore.”
 
…Non so cosa gli abbia fatto cambiare idea, ma dice di voler giocare con me un’ultima volta.”
 
“Non puoi andare lì a farti ammazzare!”
 
“Certo che no. So proteggermi da un Avada Kedavra. Ne approfitterò per scoprire i suoi piani.”
 
“Vengo con te.”
 
No!”
 
“Ti strapperò il cuore.”
 
“Perché no?”
 
“Non ci pensare neanche. È una cosa che devo fare da solo. Se tu venissi, si ripeterebbe la situazione dell’ultima volta: non posso fornirgli un modo per ricattarmi. Tu te ne starai in Sala Comune insieme ai tuoi amici. E ora ti prego, torniamo dentro, o morirò di freddo prima che Moriarty mi uccida.”
 
John però rimase seduto. I suoi occhi, fissi sul castello, ne riflettevano il bagliore giallastro. “Credi che voglia ucciderti” ripeté.
 
“Sì, John, è quello che sto dicendo da venti minuti.”
 
“Stanotte a mezzanotte sulla Torre.”
 
Sì-i. Be’, tu resta pure qui, io vado.”
 
“Aspetta! Ti prometto che poi tornerò in Sala Comune e starò con i Weasley tutto il tempo, ma dobbiamo vederci prima che tu vada da Moriarty.”
 
“Perché?”
 
“Non ha importanza.” John non era mai stato tanto risoluto. “Ti ricordi quell’aula del secondo piano in cui abbiamo parlato dopo il delitto di Richard Knight? Ci vediamo lì alle undici e trenta.”
 
Sherlock lo guardò raccattare la scopa e avviarsi verso lo spogliatoio, cercando di capire cosa avesse in mente.
 
John posò la scopa sulla rastrelliera accanto all’ingresso dello stanzino e procedette nel togliersi casco, guanti, protezioni e divisa; rimasto in pantaloni della tuta e canottiera bianca, si coprì con un maglione e andò in bagno a sciacquarsi il viso con l’acqua calda.
 
Un graffito accanto allo specchio attirò la sua attenzione:
 
Il giorno in cui lo colpirai in testa con uno di quei maledetti Bolidi sarà il giorno in cui gli dirai che sei innamorato di lui
 
Oh, lui avrebbe fatto molto di più.
 
 
Quando John raggiunse il luogo dell’incontro, Sherlock era già lì. Indossava il suo solito mantello nero sopra la divisa scolastica e la sciarpa blu che Molly Hooper gli aveva regalato per Natale. Benché cercasse di non darlo a vedere, era chiaro che era spaventato.
 
 “Allora, cosa volevi dirmi?” domandò impaziente.
 
John inspirò, richiamando alla mente il discorso che si era preparato. “Innanzitutto… voglio che tu faccia una promessa.”
 
L’altro si accigliò: “Una promessa?”
 
“Promettimi che, qualunque cosa accada, Mary sarà sempre al sicuro.”
 
“Mary? Lei non c’entra con questa storia.”
 
“Ho vissuto accanto a lei per sette anni, e non si può conoscere qualcuno per tanto tempo senza volergli bene; e nelle ultime settimane abbiamo scoperto qual è il peso che grava sulla sua testa, e io non voglio che lei ne risenta, mai. Quindi se per qualche ragione io non potessi proteggerla, voglio che lo faccia tu.”
 
“Sono io quello che stanotte potrebbe morire.”
 
“Per favore…”
 
Forse Sherlock fu colpito dal suo trasporto, forse desiderava semplicemente accontentarlo, forse credeva davvero nelle sue parole: in ogni caso, giurò.
 
Ignorando le cataste di sedie, John si sedette per terra con la schiena al muro, e dopo un attimo di esitazione Sherlock lo seguì.
 
“Perché improvvisamente sei così premuroso verso di lei?” chiese.
 
Non capiva. O forse capiva, ma non voleva accettarlo.
 
John non diede segno di averlo sentito. “Sei stato il migliore amico che potessi desiderare” disse.
 
Sherlock rizzò la schiena e si girò a guardarlo con circospezione. “Standard molto bassi” borbottò. “Certo in quanto a sagacia non mi batte nessuno…”
 
“Non mi importa se sei stato un amico poco convenzionale” ribatté John. “E…”
 
Lo stomaco gli doleva dal nervosismo. Sentiva la gola contratta. Il suo respiro non riusciva a stare dietro al battito accelerato del suo cuore. Si voltò verso di lui e fissò intensamente i suoi occhi di quel colore impossibile.
 
E cosa?”
 
“Comunque vada…”
 
Sherlock fece per obiettare, ma lui non gliene lasciò lo spazio, perché gli tappò la bocca con le labbra.
 
Per un momento fu solo quello: due parti del corpo in adesione. Sherlock si irrigidì e sollevò le braccia per allontanarlo, ma non poté fare a meno di dischiudere le labbra e assaporare quel contatto così banale e così sconvolgente; all’ultimo istante la sua mano si posò sulla guancia di John, che sorrise. Il bacio si fece più intenso e pressante, finché John non si staccò leggermente. Con la bocca ancora su quella di Sherlock, mormorò:
 
“Mi dispiace, ma non avresti mai collaborato. Stupeficium!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Ora vi racconterò una barzelletta.
“John riesce finalmente a convincere Sherlock a prendersi una vacanza, e così i due vanno in campeggio. La sera piantano la tenda in uno spiazzo erboso e vanno a dormire.
Nel bel mezzo della notte Sherlock scuote John per un braccio.
-John! John!
-Che c’è, Sherlock?
-Guarda il cielo, e dimmi cosa ne deduci.
-Dalla complessità e dalla vastità della volta celeste- esordisce John con voce profonda –ne deduco che noi non siamo che esseri microscopici di fronte all’immensità dell’universo. È dunque improbabile che noi esseri umani siamo gli unici abitatori del…
-John- lo interrompe Sherlock. -John, sei un idiota. Ci hanno rubato la tenda!”
 
 
  
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