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Autore: JonS    28/09/2014    1 recensioni
"Nei suoi diari cominciò presto a chiamarla “La maledizione dell'Inglese” perché sapeva che tutto era riconducibile al saluto che aveva appena accennato anni prima a quell'uomo. "
Partecipa al contest: "Peppa in Reverse" di Giuns
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si era ormai alla soglia degli anni sessanta e Belinda, dritta e austera sulla cima di un precipizio, osservava lo scenario che aveva davanti: immense radure immerse nella calma del frinire delle cicale, che col loro battito d’ali riempivano l'ambiente rendendolo più caldo di quanto facesse il sole stesso; l’apparente placidità di un grande fiume ad est e il sussurro del vento che le scompigliava i capelli, neri come le ombre, che le si proiettavano alle spalle. 
Forse è questo quello che devo fare ripeteva incessantemente nella testa Belinda. Buttarmi sarebbe la cosa migliore per porre fine a tutto questo. Prima sbatterei la testa su quelle pietre e perderei i sensi… e il resto sarebbe facile. 
Restò immobile, i muscoli delle gambe intorpiditi e contratti, le braccia tese lungo i fianchi; impietrita, continuava ad osservare l'infinito paesaggio incontaminato che si spandeva a vista d'occhio, morendo in un oceano luccicante. 
In fondo non ho certo nulla da perdere, dentro di me so benissimo che questa è l'unica soluzione alle mie disgrazie… Come terminare una serie di sventure se non con la più grande tra esse? Mi prenderò beffa e rivincita su quelli che mi auguravano il peggio, sarò io a decidere cosa sarà a ferirmi! Mi ferirò io per l'ultima delle volte. 
Belinda tirò su con il naso chiudendo gli occhi. Se tutto questo fosse stato un film, ora la telecamera si sarebbe allontanata, lasciando che ella divenisse solo un piccolo punto in lontananza, un soffione con le spore in balia del vento, che deciderà se farle cadere o farle rimanere attaccate allo stelo. 
Ma questo non era un film; era la vita di Belinda Yodinkee.

 
 

Belinda venne al mondo in Settembre, durante una giornata particolarmente fredda per quel mese. 
Due occhi grandi e azzurri accompagnarono il suo ingresso nel mondo, seguiti dai pianti isterici. Alcuni dissero che aveva già intuito cosa era capitato a sua madre, che così caritatevole aveva deciso, suo malgrado, di cedere la propria vita a favore di quella della figlia. Mani premurose e dure asciugarono la piccola e la misero in un fagotto che non raggiunse mai il letto della partoriente. 
Le levatrici si ostinavano a dire che era una cosa che accadeva spesso, che di questi incidenti se ne vedevano ad ogni parto, che tra gli Amish capita spesso che Dio reclami le anime dei Suoi figli più pii.
Il padre di Belinda, un pastore della chiesa Amish della contea di Lancaster, si pulì le mani prima di prendere in braccio per la prima volta la figlia, guardandola con il viso austero di chi prova ad amare ma non si è mai lasciato andare abbastanza da trasmetterlo. Rimase serio, recitò qualche passo della bibbia e affidò la piccola alle cure amorevoli delle levatrici, ritirandosi poi per andare ad organizzare il successivo lutto.
Belinda crebbe con la convinzione di esser il frutto di un omicidio di cui ella era stata carnefice di un mandante senza nome. Era incredibilmente introversa e spesso si ritrovava a parlare da sola, ascoltando le storie che amava raccontarsi, racconti in cui tutte le principesse venivano salvate da una donna di cui non riusciva a vedere il volto.
Agli Amish non era permesso fare fotografie, in accordo col vecchio adagio che diceva che esse avrebbero rubato l'anima di chi vi fosse stato ritratto; eppure Belinda avrebbe voluto vedere il volto della madre almeno una volta. Le avrebbe voluto scattare una foto, e anche se ella avrebbe perso la sua vita comunque, Belinda avrebbe tenuto la sua anima al sicuro.

Un giorno, mentre raccoglieva le uova all'interno del recinto in ferro intrecciato, sentì un borbottio sordo provenire dalla strada; corse via lasciando le irritate galline a becco asciutto e vide sopraggiungere  un uomo vestito di nero che cavalcava un carretto in ferro con due ruote alle estremità. Mentre Belinda si chiedeva come facesse a stare in equilibrio, l'uomo fermò la motocicletta e la salutò da lontano. Sollevano una manina paffuta, la bimba ricambiò ma, quando l’uomo fece per scendere dalla moto, si spaventò e corse all'interno della casa, domandando a gran voce al padre chi fosse lo strano individuo che l'aveva salutata. Questi era nel suo studio, intento a leggere un testo sacro, quando lei fece irruzione. Senza staccare gli occhi dal tomo, le chiese di raccontarle ogni cosa e poi chiuse di scatto il libro, guardando  finalmente Belinda con uno sguardo gelido. 
«Hai parlato con gli inglesi, ragazzina?» Chiese suo padre accarezzandosi la lunga barba biancastra.
«Chi sono gli inglesi, padre?» Disse la piccola Belinda di rimando
«È la gente non Amish. Sono peccatori, non devi parlare con loro e nemmeno salutarli o sarai maledetta per il resto della vita! Dio non ama che si fraternizzi con chi ha accettato il male e la perdizione nella sua vita.»
Belinda sgranò gli occhi, il cuore prese a batterle forte nel petto talmente forte da farle credere che anche il padre potesse sentirlo.
«Non ho salutato nessuno, ve lo giuro!» Disse la bimba, difendendosi e mentendo per evitare le esemplari punizioni del Pastore che, per tutta risposta, la congedò.

Belinda crebbe in fretta e alla vigilia dei sedici anni suo padre decise di portarla ad uno degli eventi organizzati dalla comunità. Fu allora che le venne presentato Jebediah, un ragazzo sulla ventina biondo e dal sorriso amabile; era sfrontato ma nei limiti della decenza che la chiesa gli imponeva. 
Non si dissero nulla. Jebediah parlò con il padre di Belinda, e la ragazza si limitò ad annuire alle parole dell'uno e dell'altro alternando espressioni di sorpresa ad assenzi appena accennati con il capo. 
Fu l'unico giorno felice prima che le disgrazie cominciassero a inseguirla. 
Nei suoi diari cominciò presto a chiamarla “La maledizione dell'Inglese” perché sapeva che tutto era riconducibile al saluto che aveva appena accennato anni prima a quell'uomo. Era fermamente convinta che le sue preghiere avessero tenuto la sfortuna a bada fino al giorno in cui, nella sua mente, il ricordo dello sconosciuto era diventato meno ossessivo di quello del viso di Jebediah. 
Ne ebbe conferma quando, nel febbraio di quell'anno, ci fu la più forte nevicata che si fosse mai vista, e il peso della neve gravava di giorno in giorno sui tetti legnosi della piccola cittadina. Una mattina Belinda scese di buon ora per iniziare le faccende domestiche e far trovare al padre il necessario per una colazione rinvigorente, che l'avrebbe aiutato a compiere i suoi doveri di Pastore, che consistevano essenzialmente nello scrivere sermoni sul peccato e la redenzione. 
Belinda accese la luce, una piccola lampada ad olio che a malapena illuminava l'area antistante i fornelli a metano, che fece ardere e su cui poggiò una pentola. Lasciò che l’acqua si scaldasse prima di buttarci le uova; ne prese una dal canestro che aveva poggiato li la sera prima, scegliendone una tra le tante, con il guscio di rosa spento e qualche puma rimasta attaccata. La pulì sul vestito e fece per spaccarla ma, quando questa toccò il piano di lavoro, Belinda si sorprese del boato che produsse l’infrangersi del guscio. Spaventata com’era, le ci vollero molti istanti per realizzare che la luce che era entrata nella stanza era stata provocata da un cedimento del tetto, posto a dura prova dalla pesantezza della neve. 
Con un peso al cuore, Belinda corse a vedere se il padre era in camera sua e non lo trovò - fortunatamente si era alzato di buon’ora per raggiungere il gabinetto situato all'esterno della casa. La ragazza constatò comunque che la camera del capo famiglia era rimasta intatta, sfuggita per miracolo alla catastrofe che però non aveva risparmiato la sua stanza. 
Alcuni vicini corsero all'abitazione preoccupati per la salute del pastore e della sua giovane figlia. 
«State bene? » Gridò la signora Scott entrando in casa.
«B… bene.» Balbettò una spaventata Belinda, che era fissa a guardare la scala che portava a quella che una volta era la sua stanza.
«Ringraziando il cielo state bene!» proseguì il signor Scott, imbarazzato. Cominciò ad esaminare i danni col suo occhi esperto da muratore, lasciando alle donne il peso del dispiacere. Fu allora che sua moglie andò verso Belinda e le toccò con delicatezza la spalla, aprendo la bocca e richiudendola come un pesce, indecisa su cosa dire. La ragazza sussultò e si girò di scatto, bianca in volto. 
 «Perché mi è successo questo?» Chiese alla signora Scott. La donna sorrise, stirando le numerose rughe che aveva agli angoli della bocca. 
«Ragazza mia, sii felice. La casa possiamo ricostruirla, ma le ossa son più difficili da riparare.» Disse con il tono di chi la sa lunga. 
Stupida donna, cosa crede che mi importi delle ossa? Pensò Belinda scuotendo il capo e prendendosi un minuto per ingoiare la rabbia e la frustrazione, per poi rivolgersi a quella.
«Avete ragione, ma non posso fare a meno di chiedermi perché proprio la mia stanza...» Si interruppe, alzando lo sguardo al cielo.
«Mia cara» proseguì la donna, «ringraziate il cielo che non ci fosse nessuno nella stanza! Dobbiamo essere grati a Dio, questo è un giorno di festa!» 
Quella sera, prima di cena, il padre spedì Belinda a dormire in una rimessa antistante la casa, nella quale aveva ricavato un letto di fortuna. Entrando, la ragazza vide che c’era una stufetta abbastanza grande da riscaldare l'ambiente e una finestra che l'avrebbe svegliata con la luce del sole, che le avrebbe dato il buon giorno attraverso i vetri privi di tende. 
Quella notte Belinda scrisse nel suo diario che la maledizione dell'inglese aveva reclamato la sua prima vittoria.
Ci vollero giorni prima che Belinda riuscisse ad abituarsi all'ambiente: il letto era scomodo, la mancanza di un materasso decente le faceva iniziare la giornata con la schiena spaccata e l'aria che entrava dalle fessure della porta la faceva svegliare dolorante all'altezza dei reni. Belinda sopportava tutto con calma apparente, non perdendo occasione per lamentarsene con amiche, vicine e anche con il padre, quando questi era in casa. Lui la ascoltava e cercava di zittirla, ma senza successo: dopotutto era stato suo padre a dire che sarebbe stato sconveniente dormire entrambi nella stessa stanza, quindi Belinda si sentiva in dovere di fargli pesare la sua decisione, anche a costo di sembrare dura o pedante.  

Una mattina come tante, a primavera inoltrata, Belinda si svegliò e andò a raccogliere le uova nel pollaio, come era solita fare. Doveva attraversare la strada asfaltata che correva a pochi metri dalla porta della sua casa e, dall'altro lato, avrebbe trovato ad aspettarla due cavalli, otto pecore, venti galline e qualche pulcino appena nato. Era semplice, l’aveva fatto ogni giorno da quando aveva imparato a camminare, o così comunque le sembrava. Con noia passò in rassegna il pollaio, diede da mangiare alle pecore e si diresse al recinto dei cavalli; erano tranquilli dunque entrò e, anche se le era vietato, accarezzò Oreste, il cavallo di suo padre. L’animale era un esemplare da tiro, nero e dalla lunga criniera, con un carattere insolitamente focoso che più di ogni altra cosa l’aveva affascinata fin da piccina.  
Spazzolò il cavallo per lunghi minuti, godendo di quella pace che sapeva non sarebbe durata a lungo. Perché si sa, le sfortune capitano sempre a chi è maledetto. Quindi non ti distrarre e sta pronta, ripeteva ogni tanto tra sé quando era troppo di buon umore. Fu nel bel mezzo di questa amara riflessione che un'auto si fermò e il conducente, un uomo sulla sessantina, si sporse dal finestrino e chiese alla ragazza delle indicazioni. Aveva un aspetto ben curato ma un profumo troppo forte che, unito al sorriso da lupo, contribuiva ad accentuare la paura naturale che Belinda provava per gli “inglesi”. Ricordando le conseguenze della maledizione, la ragazza fece finta di nulla e rientrò nel recinto dei cavalli, nascondendosi accanto a Oreste e pregando che quella voce sempre più arrabbiata si spegnesse presto. Dal canto suo, l'uomo la chiamò per quattro o cinque volte, quindi all’ennesimo «Hey ma sei sorda, stupida donna?» suonò il clacson per un lungo minuto prima di sfrecciare via senza curarsi né di Belinda né dei cavalli che, agitati dal rumore sconosciuto, avevano già calpestato ripetutamente gli arti inferiori della ragazza, che ora giaceva dolorante a terra. 
Ci vollero tre ore prima che qualcuno, passando, si accorgesse di Belinda che, silenziosamente, cercava di trascinarsi verso casa, troppo spaventata dalla possibilità che, gridando “aiuto”, venisse un altro inglese portatore di iella in suo soccorso. Le ci vollero otto mesi per riprendersi e il dottore le disse che sarebbe rimasta claudicante per i resto dei suoi giorni. 
Non diede mai la colpa alle uova, anche se i tre incidenti gravi che l’avevano segnata erano avvenuti mentre aveva a che fare coi frutti del suo pollaio; ma, nelle notti gelide che trascorse nella piccola stanza in cortile, maledisse gli inglesi e la loro mania di ficcare il naso nella sua vita. 

Ci vollero mesi perché Belinda cominciasse a camminare di nuovo, un piccolo passo dopo l’altro. Mentre era a letto giunsero voci su un uomo anziano che aveva sedotto e poi ucciso tre donne nella contea di Lancaster, ma Belinda non gli diede peso: stava troppo male per badare a quelle sciocche che avevano dato retta allo sconosciuto sbagliato. Eppure, nonostante le sue gambe si rinforzassero di giorno in giorno, rendendola sempre più sicura e autonoma, Belinda non si sentiva più la stessa. Era sempre vigile e attenta, pronta a reagire ad ogni minimo rumore, pronta a scattare in caso di un pericolo che era certa fosse in agguato, aspettando solo il momento buono per finirla. 
Nel maggio di quell'anno suo padre, ormai sessantenne, decise che era il momento per sua figlia di tornare alla vita di casa e ai suoi doveri nei confronti della comunità.
«Dopotutto» disse «cos'è un pastore senza la sua perpetua?!»
Dunque Belinda tornò a zoppicare per la casa. Preparava i pasti e rassettava le stanze, poi la sera arrancava verso la sua camera, lontana pochi metri ma troppo vicina alla strada e agli occhi delle ragazze più giovani che si fermavano per deriderla. Una sera, uscendo di casa, sentì un lamento provenire dai cespugli di ortensie che crescevano vicino alla cassetta della posta, unica nota di colore a rallegrare la casa. Fermò il passo indeciso e si guardò intorno finché non vide un gatto nero che camminava malamente sul bordo della strada trascinandosi una zampa, probabilmente rotta. Colta da un senso di tenerezza per la sventura che condividevano gli si avvicinò e lo raccolse. Non le era permesso tenere animali ma Belinda lo infagottò comunque a fatica nel grembiule e lo portò nella sua stanza, chiuse la porta e tentò di medicarlo e di pulirlo, visto che oltre al sangue il gatto era ricoperto di fanghiglia. Le ci volle quasi tutta la notte e molti degli stracci che la giovane teneva nella piccola cassettiera in legno chiaro. 
Era già passato mezzodì quando il padre, con uno stuolo di devote donne al seguito, andò a bussare alla porta della piccola dimora della figlia. Un colpo, poi un altro più deciso e infine una voce femminile. 
«Reverendo, sarà il caso di entrare?» disse la parrocchiana con tono spaventato e stridulo. 
«Belinda, apri la porta.» Ordinò il reverendo. Nessuna risposta accompagnò l'intimidazione, tanto che l'uomo osò far pressione sulla maniglia della porta fino a spalancare il modesto uscio. Entrando trovarono Belinda distesa a letto e il micio nero accovacciato immobile sopra una pila di stracci insanguinati, innegabilmente morto.
«Oh, Misericordia!» Urlò una donna. 
«Stregoneria!» Fece un'altra portandosi la mano alla bocca e rabbrividendo.
Belinda, destata da tutto questo vociare, si strofinò gli occhi in un gesto istintivo e rinvenne solamente dopo che l'altra aveva mosso la sua accusa.
«No, vedete, non è come sembra, io posso spiegare…» Provò a difendersi, ma non le diedero tempo di parlare. 
Quello che l’avrebbe ossessionata per anni era lo sguardo che suo padre le riservò: delusione mista a terrore erano dipinti sul suo volto del vecchio pastore. 
"Ci risiamo", pensò Belinda alzandosi di corsa, decisa a dare voce alle le proprie ragioni, ma le bastò aprire la bocca perché il padre alzasse la mano destra a bloccarla.
«Mi hai molto deluso, Belinda Yodinkee. Sai cosa dicono le nostre regole.» Fece in tono severo. «Devi andartene di qui, devi essere bandita.» 
Belinda rimase interdetta per qualche minuto, prima di trovare la forza di rispondere. 
«Ma, padre, non ho fatto nulla, ve lo giuro!» cominciò, raccontando poi l’evento con foga prima al suo piccolo pubblico, poi alla comunità raccolta in chiesa per la funzione domenicale. 
Non vi furono ragioni. Dopotutto erano gli anni cinquanta e gli Amish non erano famosi per il loro senso del dialogo e del perdono. La prima impressione è tutto, in ogni ambito, sotto ogni aspetto ripeteva sempre suo padre in chiesa durante i suoi sermoni; ma Belinda non era mai stata molto attenta. 
«Maledetto inglese!» fu l'ultima parola che le sentirono dire prima che fosse invitata a lasciare la funzione.

Ci vollero giorni per potersi abituare alla nuova situazione. Essere banditi significava chiudere i ponti con tutti: con i parenti, con gli amici, con le certezze e con la vita che si era conosciuta fino a quel momento.
Belinda passava le sue giornate in una casetta grande poco più di quella camera in cui aveva abitato dopo la rottura del tetto. Mangiava, beveva, guardava il tramonto, ma non parlava con nessuno. 
Fu allora che cominciò a chiedersi perché l'inglese avesse scelto lei, perché volesse far patire le sofferenze più atroci ad una persona così ligia e retta.
Essere allontanati dalla comunità era un disonore, ma era anche fonte di una solitudine che non si sarebbe chiesta; e così Belinda trovò il tempo per dedicarsi a quelle attività che per il sesso con cui era nata non le erano state permesse negli anni precedenti. Cominciò a mettere dei pantaloni da uomo in casa e ad appendere specchi alle pareti così da poter rimirare la sua immagine. La prima volta che si guardò poté notare le piccole rughe vicino agli occhi azzurri, così simili a quelle a zampa di gallina che aveva visto sulla signora Jenkins anni addietro. Le sue labbra erano di un roseo colorito che le sembrava in pieno contrasto con il bianco delle gote. Di tanto in tanto, ma molto più spesso di quello che si potrebbe immaginare, girava per casa senza la cuffia, lasciando che i boccoli castani le scendessero lungo le spalle indomabili. 
Le era comunque permesso partecipare alla funzione domenicale, anche se il posto a lei riservato era nell'angolo più buio della piccola chiesetta in legno, vicino a dove le ragazze più piccole si sedevano per scambiarsi commenti sui ragazzi che avevano offerto loro fiori o sui dolori che erano capitati loro. Belinda storceva sempre il naso quando gli echi delle loro parole la raggiungevano. Oh, certo, tua sorella è malata per un’infezione ai denti e un inglese vuole portarti con lui a vivere in città… che problemi che avete! E io? Io sono sola, brutta e bandita, ma nessuno se ne interessa. Ho più sfortuna di voi tre messe assieme e devo pure starvi ad ascoltare, invece di poter seguire la funzione in pace! Stupide oche… pensava mentre suo padre teneva un sermone, col rimpianto e l’odio che facevano a gara. Eppure non è che le dispiacesse restare in disparte: ormai c'era abituata. Lì non era osservata da nessuno e il confessionale con la statua dell'angelo intagliata da Jebediah la celava alla vista dei più quasi per intero. 
La seconda domenica del mese di gennaio, durante il sermone della sera Belinda si sentì strattonare leggermente il vestito nero. Sobbalzò voltandosi di scatto alla sua sinistra, ove intravide con la luce soffusa della candela il profilo di quello che pareva essere un uomo. Che fosse l'angelo sceso per portarla con se? Si chiese, e si irrigidì finché Jebediah non si fece avanti per sussurrarle nell'orecchio «Ti piace?» 
«Cosa?» Belinda sgranò gli occhi, sussurrando all'altro.
«La statua dell'angelo, l'ho intagliata seguendo i lineamenti del tuo viso, non te ne sei accorta?» 
Belinda sorrise e fece segno di no con la testa. L'altro sorrise e le consegnò un biglietto. 
Tornata a casa lo aprì e  vi lesse un messaggio scritto in maniera sgrammaticata e in una grafia infantile. Lesse abbastanza lentamente il contenuto per poi portarselo dritto al cuore premendo il foglietto contro di esso.
«Mi ama» pensò «e vuole sposarmi.» aggiunse. Era noto che alle donne Amish  non era dato di innamorarsi, i matrimoni venivano scelti dall'uomo di turno, dalla comunità o il più delle volte dal vescovo. Il suo entusiasmo si spense in un lampo. «Probabilmente si sta prendendo solo gioco di me." Si disse, e il pensiero continuò a balenarle nella testa anche mentre, ritta e in bianco sull'altare, diceva «Si.» alla domanda del prete di prendere in sposo Jebediah.

Il matrimonio, celebrato rigorosamente fuori dalla comunità, non fu visto di buon occhio da parte dei cittadini di Lancaster. Ormai le pie donne della cittadina non si limitavano più a ignorare Belinda, bensì le lanciavano insulti e la beffeggiavano con odio, perché tanto avevano rispettato Jebediah e il suo operato da non poter sopportare l'idea che fosse stato abbindolato dai sortilegi di una strega. Tutte le notti, quando si ritrovava a letto e una volta espletati i suoi doveri di moglie, Belinda si rattristava all'idea di aver accettato la proposta di Jebediah, nonostante l’uomo non si fosse mai lagnato con lei dei molti lavori che, dopo il matrimonio, aveva perso. 
Una sera, circa nove mesi più tardi, mentre Jebediah stava indossando gli indumenti da notte, Belinda cominciò a lagnarsi in maniera isterica.
«Cosa c'è mio amore?» disse in tono devoto l'altro, guardandola preoccupato. All'effettiva assenza di risposta si diresse verso la moglie accostandosi a lei e accarezzandole il pancione già gonfio. «Qualcosa non va con il bambino?» 
Belinda interruppe il farfugliare stizzito con uno scatto. «No, è che stavo pensando che forse sarebbe stato più facile se non ti avessi sposato. Sai cosa dicono in paese? Che ti ho maledetto!» disse con voce funerea.
«Ma Belinda sai benissimo che non è così.» 
Lei sospirò e, col tono di chi stesse spiegando una dura e ovvia verità, aggiunse "Sai, adoravo la mia vita prima, quando la gente mi ignorava.» 
Jebediah si umettò le labbra, accigliandosi «Ma se quando son venuto ad abitare qui mi hai riempito di ringraziamenti per averti tolto da quella solitudine che provavi!» 
Belinda lo guardò «Si, ma ora tutti mi odiano!» 
Jebediah si scostò dalla moglie, portandosi una mano ai capelli per tirarli indietro. «Le cose non vanno mai bene per Belinda, vero?» fece lui alzando la voce, ma ottenne in risposta sono uno sguardo spaventato della sposa, che portò subito le mani al grembo. «No, aspetta, scusami amore!» riprese, cercando di abbracciarla. Lei lo allontanò con una spinta. 
«Si, hai ragione! Tutti mi odiano, le cose vanno sempre male per me.» fece tirando su con il naso 
«Ma io non ti odio Belinda.» 
La donna non sembrò far caso alle parole del marito e continuò «Sono sicura che persino questa gravidanza finirà male e che il mio bambino nascerà morto.» disse, con tale convinzione e rassegnazione che Jebediah, colpito da una paura mortale, per nascondere le lacrime che gli bruciavano gli occhi andò a sciacquarsi la faccia in una bacinella posta sopra l'unico elemento d'arredo della stanza, una cassettiera che lui aveva intagliato per Belinda. Che non aveva versato una sola goccia d’acqua dagli occhi. 
«E dunque, quali sarebbero le tue disavventure? Cosa c'è di tanto sbagliato nella tua vita?» chiese Jebediah affondando il viso nell’asciugamano ruvido. Ella gli raccontò tutto quello che le era successo e tutte le sue sventure. «E quindi di cosa hai paura?» le chiese infine il marito in modo calmo e pacato
«Ho paura della mia maledizione. Che possa accadermi qualcosa di ancora peggiore.» 
Jebediah sospirò. «Potrebbe accadere se non ti deciderai a prendere in mano le redini della tua vita e a smettere di sfidare la cattiva sorte.»
«E come potrei vivere se ogni volta che lo faccio mi accadono disgrazie su disgrazie e tutto va storto?»
«Potresti iniziare a pensare positivamente. A renderti conto che l’universo non ce l’ha con te. O almeno, non solo con te.»
«Non servirebbe a nulla e lo sai.»
«No, non so nulla. Però credo che chi non vuole risollevare la propria situazione, chi non ci prova, chi resta in balia degli eventi è uno che vuole che le cose vadano così. Se non ti stanno bene non puoi lamentarti Belinda, devi agire!» Il tono era stanco, stremato. «Devi cercare il positivo, sarebbe già un buon punto di partenza, non credi?» Belinda fece spallucce ma non rispose, atteggiandosi a superiorità e incredulità. «Guarda il lato positivo delle cose. Ti mostro come, se vuoi. Dunque, vediamo… tuo padre, ecco si, proprio lui. Non ti viene in mente che potrebbe anche essere in errore dopotutto?» domandò, eccitato dalla prospettiva di sbugiardare l’odiato suocero.  «Hai mai pensato che forse l'inglese non fosse un portatore di sventura ma un semplice viaggiatore in cerca di una sosta?»
«No, mio padre è il pastore di questa parrocchia, lui non avrebbe mai mentito. Lui sa come gira il mondo, è il messo di Dio!» 
Jebedia scosse il capo per poi riprendere «E il tetto? Hai detto che il tetto è crollato pochi secondi dopo che sei uscita dalla stanza.»
«E con ciò?» Fece lei di rimando, mentre le mani si muovevano a snodare i lembi della cuffia per poi legarli più stretti. 
«Se fossi rimasta in quella stanza un minuto di più saresti morta.»
«Si ma non ci sono rimasta e guarda che è successo! Sono stata cacciata!» 
«Sai cosa è successo a mio cugino lo scorso inverno?» Domandò Jebediah in tono retorico, prima di riprendere. «Il suo cavallo è scivolato su uno strato di ghiaccio, si è imbizzarrito, l'ha disarcionato e lui è caduto ed è morto. Morto Belinda, riesci a capirlo questo? Mentre tu sei viva, sei in salute e, certo, barcolli e la tua gamba non regge il peso del pancione a volte, ma sei viva!» 
Belinda sospirò «E il gatto?» Fece lei in tono accusatorio «Il gatto mi ha fatta bandire.» 
«Già, e nessuno ti avrebbe parlato, nessuno ti avrebbe dovuta sposare, e invece? Ti ricordi quando ci siamo conosciuti? Abbiamo ballato sotto la luce della luna, ti ho baciata e mi sono innamorato di te e ora ti sto parlando, Belinda, e aspettiamo un figlio.»
«Si ma ho perso tutta la mia famiglia e gli amici! Sono sola.» Si lagnò Belinda, crogiolandosi quasi con soddisfazione nella sua autocommiserazione. 
«Si  ma io ci sono, io non ti ho abbandonata, sono qui e ti sto dicendo che ti amo!» Disse Jebediah, e nella sua voce c’era una dolcezza e un amore quale non si era mai visto in un uomo della comunità.
Belinda si immobilizzò, le guance rosse per lo sforzo. «Si ma forse non è abbastanza.»

Quella notte Jebediah rimase in silenzio e si addormentò dandole le spalle. Belinda invece rimase sveglia, ripensando a quello che le era successo. "Sapevo io che saremo finiti a litigare, era logico che non potesse funzionare" pensava, rigirandosi, mentre il bambino continuava a darle calci che la facevano star male. 
Una settimana dopo partorì tra immensi dolori e in preda al panico, convinta che il figlio sarebbe morto durante il parto. Spinse più e più volte finché il pianto del bambino annunciò la sua venuta al mondo. La levatrice lo pulì, lo infagottò e lo diede al padre, annunciando allegra «È un maschio.» 
Jebediah era in preda alla gioia più immensa mentre guardava il sangue del suo sangue; soddisfatto e orgoglioso, lo portò alla moglie, dicendole per rassicurarla «Vedi amore mio, ti eri sbagliata. Non è morto, è vivo!» 
Belinda guardò il marito e quindi il figlio sgranando gli occhi, poi scosse il capo. «Sapevo che sarebbe stato brutto.»
Jebediah rimase a bocca aperta. Era troppo.
Lasciò l'infante alla levatrice e uscì dalla stanza.

Jebediah rimase sposato a Belinda per i successivi quindici, anni fino alla sua morte avvenuta in un freddo giovedì mattina.  


Ed eccoci finalmente al momento clou della nostra storia, pronti a ritrovare la non più giovane Belinda in cima ad un dirupo, indecisa su cosa fare della propria misera esistenza.
Il figlio, Aisaac, se ne era andato dalla comunità e ora era un medico di successo. Era stata l’ultima beffa del suo fato avverso e Belinda non l'aveva sopportato: aveva perso il suo unico figlio, che ora viveva felice insieme alla sua moglie inglese, che tanto l'aveva cercata nel corso degli anni, pregandola di venire a stare con loro nella loro confortevole villetta inglese a due piani. Belinda non aveva mai nemmeno voluto vedere la sposa di suo figlio o quella casa, perché significava andare via da Lancaster. 
Dunque era rimasta sola e ora si trovava in cima a quel dirupo, a guardarsi intorno con aria persa. 
Ripensava al giorno che l’avevano cacciata, a Jebediah steso nella bara, a cosa diceva il Libro Sacro di coloro che rinunciano al dono della vita che Dio ha fatto loro; fu allora che fece il primo passo verso il vuoto sorrise, lasciandosi andare a quella sensazione di libertà. Allargò le braccia e cadde chiudendo gli occhi, ma la sua discesa durò un attimo dato che, a pochi metri sotto di lei, vi era una fitta coltre erbosa che le aveva nascosto alla vista un terrazzino ricavato nella roccia. Ormai l'industrializzazione era giunta ovunque e con lei gli hotel e i resort erano sorti nei posti più disparati, anche incassati nella roccia della collina. Nella caduta l’anziana signora si ruppe un braccio e una gamba, ma il dottore dell'hotel disse, col suo accento di Portsmouth, che era stata fortunata che lui, uno dei migliori dottori del vecchio continente, fosse in vacanza nella contea di Lancaster e che l’avesse potuta soccorrere così in fretta. 
Inutile dire che Belinda non era d'accordo.


 
  
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