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Autore: Black_Lily_13    28/09/2014    4 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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  II.        Meeting The Woman

“Applicate l’unguento tre volte al giorno, con movimenti circolari. Dovrebbe alleviare il prurito, così questo piccolo soldatino potrà recuperare un po’ di ore di sonno.”

Sorridendo calorosamente alla vista dell’espressione sollevata della donna poggiata alla parete di fronte a lui, John scompigliò i capelli del suo giovane paziente, sentendo il cuore leggero quando questi lo ripagò con una squillante risata.

“È incredibile come Anson sia calmo con voi dottore!”  tubò la donna, avvolgendo suo figlio con un pesante scialle di lana e sollevandolo dal lettino su cui John lo aveva sistemato per la visita, “Quando lo portavo dal Dottor Wood -che riposi in pace!- era sempre un gran piangere!”

“Non saprei che dire…” rispose John, sentendosi arrossire leggermente, “Sarà perché ci so fare, con i bambini…”

“Oh questo è piuttosto evidente, Dottore!”

 In effetti, le numerose zollette di zucchero che aveva tanto allegramente concesso al bambino mentre lo auscultava, o tutte le moine che gli aveva rivolto -e che gli sarebbero certamente valsi epiteti poco simpatici se Harry, Dio non volesse, lo fosse venuto a sapere- lasciavano poco spazio a dubbi.

Congedando la donna con un sorriso, John cercò con gli occhi la superficie di legno della sua scrivania, sulla quale due cornici gemelle, che erano sistemate in modo tale da mostrare le foto che gelosamente contenevano soltanto agli occhi di chi si fosse seduto nella morbida poltrona di pelle verde muschio. I suoi pensieri corsero subito a Hamish: ai suoi occhi luccicanti, al modo unico in cui lo accoglieva quando tornava dal suo studio, alla sua risata…ah! Non c’era niente, NIENTE che potesse eguagliare l’allegria sprigionata dalla risata di suo figlio.

Chissà come si stava comportando in quel momento. Il viaggio da Londra a Castlecross era incredibilmente lungo, soprattutto se vissuto da un bambino di otto anni che non era capace di stare fermo neppure quando dormiva, e Clara era certamente una zia amorevole, ma tutt’altro che paziente. Forse in quel momento stava chiedendole per la centesima volta di fermare la carrozza e scendere due minuti. O più probabilmente stava facendo impazzire il cocchiere ripetendo fino allo sfinimento ‘Siamo arrivati?’. Si ritrovò a ridacchiare come un’idiota, anche se la sua risata era più amara di quanto avrebbe voluto ammettere. Perché i suoi pensieri si stavano incanalando in un flusso doloroso, fluendo dal piccolo Watson alla donna che lo aveva messo al mondo, e in quel momento lui non voleva…

“Buon pomeriggio, Dottore.”

…e a quanto pareva, non poteva neppure. Si armò del suo migliore sorriso da niente paura, c’è un medico in sala e si voltò verso la porta del suo studio. Un secondo dopo, il sorriso era stato sostituito dall’espressione più inebetita in cui il suo viso poteva esibirsi e la sua mascella minacciava di andare a prendere posto sul pavimento. La sua nuova paziente -che lo squadrava soddisfatta, ogni piega del suo sorriso piena della consapevolezza di aver fatto un certo effetto sul timido Dottore- era a dir poco una donna appariscente: strizzata in un corsetto nero di almeno due taglie più piccolo, aveva labbra rosse come il sangue, gioielli vistosi, occhi svegli e maliziosi e soprattutto un frustino di pelle stretto tra le mani guantate.

“Vi consiglio di prendere fiato, Dottore. Ho bisogno di tutte le vostre cellule vive e attive. Se avessi voluto parlare con un decerebrato, beh, avrei parlato con uno qualsiasi dei miei clienti.” Gli disse con voce vellutata, e John dovette scuotere con vigore la testa per scuotersi dal torpore della sorpresa.

Da Castlecross si era aspettato di tutto… meno che trovare una donna come quella. Dieci sterline che fosse l’argomento preferito dei pettegolezzi che venivano scambiate di Domenica, nella piazza della Chiesa. E avrebbe giocato al ribasso.

Deglutì. “Perdonatemi, Mrs...?”

“Miss, prego. Miss Irene Adler. Ma gli amici mi chiamano semplicemente ‘La Donna’. E con amici intendo…”

Disagio. Disagio tremendo. E certo il fatto che John non riuscisse a smettere di fissare Miss Adler non era d’aiuto. Proprio per niente. Cercò di riprendere il controllo di sé (“Andiamo, Watson! Sei stato in guerra, non puoi lasciarti sbigottire da una donna! Riprenditi, per Dio!”), e portando gli occhi sul pavimento (vecchio pavimento, innocuo pavimento, pavimento che non era armato di frustino) si schiarì la voce.

“Prego accomodatevi Miss Adler…” disse, indicandole la direzione generale del lettino, “…e ditemi: cosa posso fare per voi?”

Il rumore di tacchi a spillo sul pavimento gli ferì le orecchie. Solo quando John fu sicuro che si fosse sistemata comodamente si azzardò ad alzare gli occhi, attendendo pazientemente che la donna parlasse.

“Non temete, Dottore. Non è per un motivo che concerne la mia salute che sono venuta a parlavi.” Si sentì uno schiocco nell’aria, come se la donna avesse voluto tacitare ogni possibile intervento di John con un colpo secco del suo frustino, “Vedete, io ho una piccola attività, qui in paese. Lavoro abbondante, collaboratrici piacevoli e vivaci… ma, ahimè, umane. E come tali, soggette ai malanni del mondo, pur necessitando -in virtù del loro impiego- di una dose supplementare di discrezione. ”

John non capì immediatamente di che cosa la donna stesse parlando riferendosi alla sua attività, né poté fare a meno di chiedersi per quale motivo si fosse recata in ambulatorio così presto al mattino se non aveva immediato bisogno di cure. Poi, qualcosa fece click nella sua mente, e finalmente gli abiti della donna, il suo modo di fare, il suo discorso sulla discrezione cozzarono insieme. Se stavolta la mascella di John non cadde, fu solo per mera casualità.

Miss Adler si portò una mano alla bocca per nascondere il sorriso che lo stupore di John aveva causato. Era interessante, quel piccolo Dottore. Se le voci erano vere, aveva vissuto in una grande città per gran parte della sua vita, aveva barattato la monotonia di tutti i giorni per la sabbia del deserto e l’orrore della guerra ed era tornato ferito e rotto -eppure, riusciva ancora a stupirsi genuinamente di trovarsi davanti una donna di mal affare. Se non fosse stato così ordinario, lo avrebbe definito quasi carino.

“Perché siete qui, Miss Adler?” le chiese John, un caldo sorriso sul volto nonostante il suo evidente disagio,

“Solo per sondare il terreno in vista di una futura, piacevole collaborazione.” Se la voce di Miss Adler somigliò vagamente ad un miagolio, nessuno dei due ne fece parola.

“Collaborazione?”

“Ma certo, Dottore! Le ragazze hanno bisogno, io vi faccio un fischio, e voi correte. Con discrezione, ovviamente: non vorremo far pensare alla buona gente di Castlecross che il loro buon Dottore sia soggetto ai bisogni della carne come un uomo comune!”

Per un attimo John ebbe la tentazione di puntare i piedi, e dire alla donna di prendere la sua arroganza e uscire da quella porta. Non era un genio, non lo era per niente, ma non serviva un intelletto superiore per capire che c’era qualcosa di sbagliato in Miss Adler: dietro alla facciata di bellezza e maliziosità -che certamente i suoi clienti apprezzavano largamente- John riusciva a scorgere un’oscurità ben più intrinseca del lavoro che praticava. Il suo istinto gridava a gran voce di stare alla larga da quella donna il più possibile, e lui aveva imparato anni addietro a dare ascolto al suo istinto.

Ma…

Perché c’era un ‘ma’: come poteva in sua coscienza rifiutare un aiuto a chi aveva bisogno? Se vivere a Londra gli aveva insegnato qualcosa, e gli aveva insegnato molto, era che le malattie più pericolose e infide si annidavano proprio tra i velluti e l’aria pregna di profumi a buon mercato delle case di tolleranza.

Se c’è un posto in cui ci sarà reale bisogno di un medico, sarà certamente da Miss Adler e dalle sue affiliate…”

Sospirò, poggiando tutto il suo peso sul bastone. “Il Dottor Wood come si comportava in merito?”

“Sareste sorpreso sapendo con quanto zelo, entusiasmo e sollecitudine il buon vecchio Francis era solito rispondere alle nostra chiamate. Fino all’ultimo, oserei dire, si tratteneva da noi ben più a lungo di quanto richiedessero i suoi doveri.”

L’insinuazione celata nella voce della donna fece venire a John la pelle d’oca, e fu costretto a stringere i pugni fino ad avere le nocche bianche per non sbottare. La sua tensione non sfuggì alla Adler, e la sua lingua fu pronta a sputare ulteriore veleno.

“Suvvia! Non dovete stupirvi! È una cosa perfettamente normale!” esclamò, alzando le mani in un falso segno di resa, “In fondo, il metodo di pagamento che Francis aveva scelto passava proprio attraverso le mie ragazze. Letteralmente.”

Dovette leggere il puro disgusto che trasudava da tutta la figura di John, perché subito -anche se con il gusto di chi ama sondare i limiti delle persone con cui ha a che fare- si affrettò ad aggiungere che, nel caso in cui John si trovasse a disagio, si sarebbero potuti accordare su un metodo alternativo per ricompensarlo dei suoi servigi.

“Non chiederò né più né meno di quello che chiedo di solito ai miei pazienti, Miss Adler.” Fu la pronta risposta dell’uomo, “Anche se dovrò chiedervi di andare, adesso. Sono certo che ci siano altri pazienti in attesa di farsi visitare, con bisogni che richiedono la mia attenzione immediata.”

“Ma certo, certo!”

La donna si alzò e con una strizzata d’occhio e un sorriso che aveva un certo che di serpentino lasciò languidamente lo studio. Dietro di lei si lasciò una vaga traccia di profumo soffocante e decadente, e John si rese conto di aver trattenuto il fiato soltanto quando Harriet fece irruzione poco dopo nella stanza, chiudendo la porta e appoggiandovi le spalle.

“Oh. Mio. Dio.” Sospirò, guardando suo fratello con occhi quasi spiritati e un soffuso rossore sulle guance, “L’hai vista?”

“Miss Adler intendi? Come non vederla.”

A John non piaceva lo sguardo di sua sorella, non gli piaceva per niente. Anche un cieco avrebbe visto che Harriet era rimasta piuttosto scossa dall’incontro con la bella meretrice, quindi, se le parole uscirono dalla sua gola in maniera quasi minacciosa, doveva essere scusato.

“Oh, andiamo! Non fare quella faccia! Volevo solo dire che non si incontrano tutti i giorni donne così belle.”

“Sono sicuro che Clara avrebbe qualcosa da dire al riguardo.”

Se gli sguardi avessero potuto uccidere, John sarebbe perito sotto l’ira che sprizzava dalle pupille della sorella. Ghignò nella sua direzione: sapeva di aver giocato sporco, ma non gli importava affatto.

Harriet praticamente sibilò: “Clara non è qui adesso.”

“Ma sarà qui prima di sera.”

“E tu naturalmente farai il soldatino diligente e le dirai che ho posato gli occhi su un’altra donna. Andiamo, John. Sappiamo tutti e due che guardare non equivale a tradire.”

Touché. Ma anche se Harriet aveva ragione, questo non impedì a John di lanciarle una delle sue occhiate di biasimo. Se soltanto cose del genere avessero avuto ancora effetto su di lei…

“Cambiamo discorso, che è meglio. Quanti pazienti sono in fila fuori?”

“Non molti. Solo una vecchietta con il raffreddore e un paio di uomini che portano i segni di una notte brava.”

John prese un bel respiro, riflettendo sull’evenienza di far passare avanti i due uomini confidando sulla pazienza della vecchietta, quando si rese conto che non solo Harriet si era accesa una sigaretta -tralasciando esplicitamente il fatto che John semplicemente non potesse sopportare il fumo- ma si stava rigirando tra le mani quello che aveva tutta l’aria di essere un biglietto da visita. Di nuovo, fare due più due non fu poi così arduo.

“Dimmi che non hai accettato il biglietto da visita di Miss Adler.”

“Va bene. Non ho accettato il biglietto da visita di Miss Adler.”

In un altro momento l’ironia di Harriet lo avrebbe fatto ridere. In. Un. Altro. Momento.

“Devo elencarti le dieci ragioni per cui hai sbagliato o riesci a trovarle da sola?”

Harriet ignorò il tono supplichevole della sua voce, impegnata com’era a leggere a voce alta il contenuto del bigliettino.

Calico Club. Mh. Non sono sicura che sia un nome appropriato per una casa di piacere.”

“Harry…”

“Oh, guarda! Non è neppure troppo lontano da qui.”

“Harriet…”

“Sai quasi quasi potrei farci un salto. Solo per controllare che le… ehm… ragazze siano tutte sane e felici.”

“HARRIET CATHERINE WATSON! Mi auguro che il tuo comportamento sia dovuto al tuo insano desiderio di vedermi impazzire, e non a una tua reale e sfrontata follia!”

Il grido fu talmente forte che, nella stanza accanto, le tre persone che avrebbero voluto farsi visitare si scambiarono occhiate basite. Alla vecchia Mrs. Miller sfuggì anche un rapido segno della croce, solo per buona norma. Comunque, furono soltanto loro ad essere toccate da quella rumorosa sfuriata: Harry Watson infatti danzò serena e tranquilla fuori dallo studio del fratello, facendo cenno a uno degli omaccioni -quello con un’evidente frattura al naso- di farsi avanti ed entrare.

John, dal canto suo, si sentiva a dir poco sfibrato. Sperava soltanto che le sei arrivassero in fretta, e che potesse annegare i suoi pensieri nei ricci del suo bambino prima di impazzire sul serio.

***

Il viaggio era noioso. NO-IO-SO.

Zia Clara non aveva fatto altro che dormire per tutto il tempo, e dopo la terza volta -okay, forse era più la ventesima volta- che lui aveva provato a chiedere al cocchiere quanto mancasse per arrivare a Castlecross, l’uomo lo aveva minacciato di fermare la carrozza e fare dietro-front per Londra se avesse sentito anche un solo fiato da lui.

Se non fosse stato per Gladstone, a quell’ora sarebbe morto di noia. Anche se il bulldog poteva far poco, a parte sbavare sul vestito nuovo di zia Clara e continuare a dargli la zampa (nonostante lui gli stesse ordinando di fare il morto), per intrattenerlo.

In poche parole, Hamish Watson era a dieci minuti di distanza da un capriccio di dimensioni epiche. Non avrebbe ottenuto niente -di certo non aveva l’illusione che un suo pianto, per quanto rumoroso e ben ricco di lacrimoni fasulli e lamenti strappacuore, potesse in qualche modo accorciare il tragitto fino a quel posto perso in mezzo al nulla che sarebbe stata casa sua- ma lo avrebbe aiutato a passare un po’ di tempo.

Sospirò, guardando fuori dal finestrino i fiocchi di neve che turbinavano nell’aria. Quando diceva perso in mezzo al nulla, Hamish non scherzava. Castlecross era talmente piccino che non si trovava neppure nelle cartine: quando aveva detto al suo insegnante che si sarebbe ben presto trasferito in quel posto, lui lo aveva addirittura accusato di essersi inventato tutto; se non fosse stato per il pronto intervento di zia Harry, Mr. Jones sarebbe stato ancora lì a sindacare sulla sua, testuali parole, ‘fantasia sovra-stimolata’. Per non parlare delle facce sorprese di Louis e Carl, i suoi due migliori amici…

Fu in quel momento, tra il rammarico per gli amici che si era lasciato alle spalle e l’impazienza di rivedere suo padre, che la monotonia del viaggio venne spazzata via.

Cominciò tutto proprio con Gladstone. Suo padre gli aveva regalato il cagnolone ormai tre anni prima, per il suo compleanno, e in tutto quel tempo Hamish non l’aveva mai sentito abbaiare, nemmeno una volta -tanto che si era più volte chiesto se il bulldog fosse troppo buono o troppo stupido per comportarsi da cane normale. Comunque, quel giorno il cucciolone decise non solo di abbaiare… ma anche di mettersi a ringhiare. Ferocemente, pure, con tutto il corpo scosso dall’ira e i denti scoperti. Già questo sarebbe stato più che sufficiente a spaventare Hamish a morte: il brusco arrestarsi della carrozza e il filo di panico negli occhi neri di zia Clara quando si svegliò servirono soltanto da contorno -la classica ciliegina sulla torta.

“Zia…che succede?”

“Non lo so tesoro. Mr. Hook? C’è qualcosa che non va?”

Il cocchiere non rispose: il ringhio di Gladstone si fece più cupo, e di lì a poco vi si unì il raschiare delle sue unghie contro la porta della carrozza.

Clara deglutì, cercando di sorridere a suo nipote nel modo più rassicurante possibile. In entrambe le loro menti riecheggiava a ripetizione l’avvertimento che suo padre aveva dato loro prima di partire, il giorno precedente: non scendete dalla carrozza per nessun motivo, perché la foresta è pericolosa. Molto probabilmente avrebbero avuto un piccolo assaggino di quel ‘pericolosa’.

“Mr. Hook?”

Hamish cominciò a pensare che il cuore gli sarebbe esploso nel petto, tanto forte batteva. Cacciò indietro le lacrime che minacciavano di straripare dai suoi occhi, e in un gesto quasi istintivo si voltò verso sua zia per affondare il viso nel suo scialle e isolarsi così da quel terrore.

E fu così che, mentre si voltava verso Clara disperatamente, che la vide fuori dal finestrino: una donna, magra da far spavento, con capelli ricci e selvaggi e pelle scura; si muoveva nel bosco, tra la neve, vicino alla loro carrozza, ma non in maniera naturale… sembrava sul punto di cadere ad ogni passo, come se l’aria fosse diventata improvvisamente troppo pesante per lei. Ad Hamish mancò all’improvviso il respiro. Avrebbe voluto tanto poter distogliere lo sguardo, o per lo meno avvertire zia Clara, dirle di guardare fuori, ma non poteva, semplicemente non poteva, perché quella figura stava girando il viso nella loro direzione, e lui sapeva, ancor prima di vedere sapeva che non avrebbe avuto occhi. Finalmente, dopo quella che sembrò a tutti gli effetti un’eternità, mentre il vuoto di quelle due cavità mostruose gli scavava la pelle, le palpebre di Hamish riuscirono a serrarsi. Quando le riaprì, Gladstone russava tranquillamente ai suoi piedi, mentre zia Clara scambiava facezie con il cocchiere.

La carrozza si muoveva tranquillamente, come se niente fosse successo. Della donna, neppure a dirlo, non c’era traccia.

Hamish Watson credette di aver sognato.

***

“Oh, Sherlock! Questa volta hai proprio esagerato!”

Un gesto della mano: per scacciare Mrs. Hudson dalla stanza non servì altro. Certe volte la donna rimaneva cocciutamente al suo posto, mani sui fianchi e volto tempestoso, e Sherlock era costretto a ricorrere a un pizzico dei suoi poteri illusori per terrorizzarla e farla uscire dalla sala strillando che ne aveva abbastanza e se ne sarebbe andata -non che lo facesse mai… Sherlock poteva fare letteralmente di tutto, da spargere frattaglie sulle pareti di tutto il castello a fare esplodere le cucine, e lei non se ne andava mai.

Quel giorno però, evidentemente, vederlo trastullarsi con gli occhi che aveva appena acquisito era stato già troppo per lei. Poco male. Non poteva perdere tempo con Mrs. Hudson, aveva da fare: Aggie Donovan aveva pagato il prezzo che le era stato richiesto, ora toccava a Sherlock mantenere la parola data.

Si alzò con fatica dalla poltrona, barcollando da una parte all’altra quando un ormai dolorosamente familiare senso di vertigine lo assalì. Rimase immobile, mentre il mondo intorno a lui ruotava impietosamente, un alone nero che si addensava ai lati di ciò che vedeva, un vago ma persistente senso di nausea ad attanagliargli la bocca dello stomaco.

Se Sherlock fosse stato un Demone dotato di ironia, in quel momento avrebbe riso pensando a come si era ridotto. Sfortunatamente, l’autoironia non era fra le sue doti più affermate. Lo era la cocciutaggine, però. E non avrebbe permesso a quel corpo che altro non era che un mero trasporto di limitare le sue azioni.

Incespicò fino alla scrivania, lasciandosi sfuggire un “Laat[1]!” accorato quando per poco non cadde, e le sue mani non persero la presa sul suo preziosissimo bottino. Sarebbe stato… inconveniente: chissà quanto tempo sarebbe passato prima che qualcun altro gli offrisse i suoi occhi su un piatto d’argento -e lui, di tempo, non ne aveva più.

“Sabaooaona chigar[2]?”

Alzando gli occhi al cielo, Sherlock si voltò nella direzione da cui proveniva quella voce gracchiante. Le orbite vuote di un teschio lo osservavano con interesse dalla mensola del caminetto.

“Ti ho detto un centinaio di volte di non usare la lingua antica in questo modo, Yorick.” Ringhiò, lanciando al suo interlocutore uno sguardo di disapprovazione a cui il teschio rispose facendo schioccare i denti.

“Se non qui, dove? Non credo che torneremo presto negli Inferi. E se non mi esercito chissà, potrei perderne la memoria.”

“I teschi non hanno memoria.”

“Al contrario! Non c’è memoria più forte di quella conservata nelle ossa. E comunque, non hai risposto alla mia domanda. Di chi sono quegli occhi?”

Sconfitto, Sherlock sospirò. “Aggie Donovan. La figlia di Ford Donovan.”

“L’ubriacone? Hanno deciso di liberarsi di lui? Poco male: sarà un buon pasto per te.”

Ignorando quell’ultima esclamazione, Sherlock spostò l’attenzione sulla scrivania davanti a sé.

Per fortuna, Mrs. Hudson aveva preparato il barattolo di formaldeide come lui aveva richiesto. Lo infastidiva oltre ogni dire dover rinunciare alla sperimentazione su un tessuto appena rimosso dal corpo umano, ma aveva seri dubbi che nel suo stato presente avrebbe potuto portare a termine il suo esperimento senza commettere una qualche disattenzione e mandare tutto a rotoli. Avrebbe dovuto rimandare… e il fatto che avesse un rito da portare a termine spingeva decisamente in favore di quell’opzione.

Osservò per un istante i bulbi oculari fissarlo lugubremente attraverso il liquido e il vetro del barattolo, per poi prendere un respiro e gettarsi nella generale direzione del suo studio, sordo al richiamo di Yorick che gli suggeriva di portarlo con sé.

Era nello studio che portava a termine tutti i suoi lavori. Nessuno lo disturbava mai in quel luogo.

Aveva fatto solo pochi passi nella stanza quando una nuova ondata di nausea lo aggredì, e Sherlock si ritrovò inginocchiato a terra, con una mano sulla bocca per impedirsi di gridare. Il suo corpo lo stava implorando: sentiva il richiamo degli Inferi scivolare su di lui con le sue note maledette e seducenti.

Ma Sherlock rimase sordo anche a questo richiamo. Si alzò in piedi, sibilando maledizioni su maledizioni, e con mano tremante raggiunse un piccolo pugnale e si incise la punta delle dita.

Molti Demoni non avevano bisogno di utilizzare quelli che gli sciocchi e ignoranti esseri umani definivano ‘Cerchi Alchemici’ per estendere la loro coscienza e interagire attraverso di essa con il malcapitato verso cui era stato diretto il suo intervento. Era loro sufficiente incanalare la loro energia nelle venature che scorrono nell’universo, raggiungere il loro obiettivo, e beh… fare la loro ‘magia’.

Fino a un secolo prima, Sherlock era fieramente fra di essi. Era potente, sicuro di sé, e con un semplice schiocco di dita avrebbe potuto ridurre un essere umano in cenere a un continente di distanza. Bei tempi, quelli.

Il disegno fu tracciato sul pavimento con gesto sicuro, il sangue che bruciava sul legno lasciando segni neri e arrabbiati. Sherlock optò per un cerchio semplice, che gli avrebbe permesso di portare a termine il suo compito e insieme succhiare un po’ di energia dalla rete del creato. Si piazzò al centro di esso, esattamente nel nodo del cerchio, e chiuse gli occhi: quando le fiamme bianche e nere cominciarono a vorticare intorno a lui, l’immagine della sua vittima si formò nella sua mente.

Ford stava bevendo, proprio come aveva preannunciato Aggie.

Chino sul bancone, quella patetica scusa di un essere umano continuava a farsi riempire il bicchiere, annegando nell’alcool il senso di colpa per quell’anima nera che si ritrovava.

Avrebbe potuto essere vero boccone prelibato, quell’anima, Yorick aveva ragione. Anni e anni di violenze e abusi ne avevano sfumato i contorni, le avevano strappato deliziosamente ogni oncia di innocenza e l’avevano condannata alle fiamme.

 Biah[3].” Ordinò Sherlock imperioso, tremando appena quando la sua energia fuoriuscì da lui.

Rispondendo al suo comando, l’umano si alzò. Barcollava grandemente, la mente annebbiata, la bocca spalancata e penzolante. Sherlock ghignò: gli sarebbe bastata una semplice spintarella, niente di troppo faticoso, perché l’uomo incontrasse il suo destino. Attese con la pazienza di un felino che gioca con la sua preda che i passi caracollanti dell’uomo echeggiassero sul ponticello di legno che univa i due anelli della città, poi fece la sua mossa.

“Ovcho[4].”

Si udì un tonfo, poi un rumoroso CRACK quando il corpo appesantito dell’uomo infranse la superficie ghiacciata dell’acqua e sprofondò nel suo turbinio. Pochi minuti, solo pochi minuti, e Sherlock sentì quell’anima deliziosamente inquinata fuoriuscire dalla sua sede. Sarebbe stato così facile per lui consumarla e saziarsene; da troppi secoli il suo corpo non veniva sostentato da un’anima umana, e la tentazione era forte…

No. Si sarebbe limitato a prelevarne un po’ di energia, sufficiente a sostenerlo fino al prossimo incarico, niente di più. Aprì la mente, sospirando quando l’energia fluì in lui, quasi singhiozzando quando l’anima di Ford sparì nel terreno. Dopo tanto, respirare non gli provocò alcun capogiro; la nausea rimase, però, nutrita dal disgusto che provava per sé stesso.

Le fiamme si esaurirono, e l’immagine dell’uomo svanì dalla sua mente. Era certo che la sua morte non sarebbe stata pianta da nessuno: non dalla moglie che tradiva, non dai figli che picchiava, non dai compaesani che provavano per lui solo fastidio. Mentre dodici tuonanti rintocchi echeggiavano in lontananza, Sherlock, che non si era accorto di essere scivolato via dalla sua pelle umana, recuperò il barattolo con la formaldeide ed iniziò il suo esperimento.

 

 

 

Note dell’autrice:

Eccoci con il secondo capitolo, un po’ in anticipo rispetto al previsto, ma da domani non avrò internet che nei weekend e volevo istaurare una certa cadenza negli aggiornamenti :)

Vi ringrazio per la calorosità con cui avete accolto questa storia: i commenti dei lettori non solo fanno sempre molto piacere, ma sono davvero utili per capire come proseguire nel racconto ^_^

Grazie ancora e a presto :)

 



[1] Laat!: dannazione!

[2] Sabaooaona chigar?: di chi sono quegli occhi?

[3] Biah: alzati.

[4] Ovcho: confonditi, perdi la vista.

   
 
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