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Autore: LimoneMenta    29/09/2014    3 recensioni
La vita di Rebecca sta per essere sconvolta per sempre. Un ragazzo chiuso e dai profondi occhi blu, uno con degli inquietanti occhi da gatto... ma che ci fanno nella cantina di quella tiranna di sua nonna? E se un incontro imprevisto si trasformasse in una possibile via di fuga che odia così tanto? E se nascesse una prima, meravigliosa amicizia fra i tre? E se finalmente trovasse.... dei genitori?
Genere: Avventura, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. Uno sconosciuto in cantina

«Va’ a prendermi una bottiglia d’olio» mi ordina mia nonna, mescolando l’impasto della frittata con la forchetta.                                                                                                                                                    
«Una di quelle in cantina?»                                                                                                                                           
«Sì, vicino al freezer».                                                                                                                 
Saltello giù dalle scale fino al pian terreno, dritto verso la cantina. È una stanza molto ampia, dove solitamente depositiamo tutto ciò che non ci serve, come un magazzino. È rettangolare, con le pareti bianche e il pavimento di cotto. Ringraziando il cielo alzo lo sguardo solo dopo aver sceso anche gli ultimi sei gradini, o mi sarei sicuramente messa ad urlare come una pazza per poi ruzzolare giù. Be’, non capita tutti i giorni di scendere in cantina e ritrovarsi un perfetto sconosciuto accovacciato sul pavimento, no? Da panico, appunto. Okay, Rebecca, stai calma. «Okay, hai meno di tre secondi per dirmi chi sei e andartene da qui». Oh, e questa da dove mi è uscita? Maledetta la mia stupida boccaccia, questo tizio potrebbe farmi fuori da un momento all’altro per quanto ne so! In effetti, solo a guardarlo… Non tutti se ne vanno in giro con anfibi cinghiati alti fino al ginocchio, pantaloni di pelle (o più probabilmente cuoio) e una giacca piena di fibbie. Ah, e naturalmente tutto rigorosamente nero. E ricoperto di armi da testa a piedi. In qualsiasi punto lo guardi ci sono delle armi. Una spada corta ancorata ad ogni stivale, una lunga appesa in vita, due o tre pugnali agganciati alle braccia, un arco fissato alla spalla destra coordinato ad una faretra legata alla coscia sinistra; e per finire un bastoncino trasparente di circa 15 centimetri in mano. Be’, sì, quello non fa tanto paura… però emette fumo come una sigaretta, è preoccupante? Solo il fatto che ci sia uno sconosciuto in cantina è già abbastanza, direi.                                                                                                                              
A primo impatto sembra un drogato (e già mi chiedo come abbia fatto un tizio del genere ad entrare nella cantina di una casa di campagna con cancello di ferro battuto incluso), ma sono sicura che uno così non andrebbe in giro con degli stupefacenti in corpo. Avrei preferito un drogato, a questo punto. Anche perché ha un’aria un po’ omicida, ma giusto un filino.                                                                                                          
Lentamente, molto lentamente, troppo lentamente si solleva dalla posizione accucciata che aveva assunto in precedenza e mi squadra, dal basso verso l’alto, sorpreso e con un pizzico di disprezzo.  «E tu non ne hai neppure uno per dirmi perché riesci a vedermi».                                                                
Oh mio Dio, adesso mi uccide. Questo qui è pazzo, è pazzo e sta per farmi fuori. E poi che domande fa? Fossi anche una talpa, uno totalmente vestito di nero e ricoperto di armi lo vedo anche al buio. No, magari al buio no, ma il concetto è quello.                                                                         
«Quando sono nata sono stata dotata di un’ottima vista, se questo può aiutarti». No, no, no, non fare l’impertinente come tuo solito, non adesso se non vuoi che ti ritrovino in un sacco di plastica nascosto dietro un tavolo fra chissà quanto!                                                                                            
Lui mi squadra con aria di sufficienza, deve aver capito che posso danneggiarlo tanto quanto un gattino impaurito. Che è esattamente ciò che devo sembrare adesso.                                           
«No, non mi aiuta. Ma forse sai spiegarmi cosa diavolo è quello». Usa un tono ironico, come se fosse sicuro che io sappia cosa diavolo è quell’enorme rientranza nel muro che fino a ieri non c’era. Credo. Direi di no, a meno che per diciassette anni io non abbia avuto le allucinazioni e visto sempre la parete completamente liscia, cosa che non credo affatto. Fatto sta che, proprio dove solitamente si trova un tavolo da biliardo ormai inutilizzato, ora c’è una gigantesca rientranza che si intona perfettamente al resto della stanza, come se rientrasse nel progetto della casa.                                                                                                                    
«Allora?» chiede il tizio, battendo innervosito un piede sul pavimento. Oh, e adesso cosa gli dico? Non che abbia l’obbligo di rispondergli, in realtà, ma non ho tutti i neuroni connessi, ora come ora. Ok, vada per l’indifferenza, tanto che ne sa questo di casa di mia nonna?                                                                                                              
«Allora che? Quella è una parete, non ti sembra? Hai presente, un insieme di cemento e mattoni…? Ecco, esattamente quello. Nulla di strano, no?» concludo la mia piccola recita con un’alzata di spalle, sperando che regga. Fa’ che la beva, per favore fa’ che la beva…                                                      
«Smettila. Non ho tempo per stare dietro alle tue penose scenette e lo percepisco anche da solo che quella cosa non è normale» ribatte sollevando un sopracciglio. Non se l’è bevuta. Perfetto. C’è anche da dire che nelle recite scolastiche facevo sempre l’albero, compreso a quattordici anni. E incredibile come ogni volta ci sia bisogno di un albero, vero? Ma sicuramente è ancora più incredibile che la scuola imponga le recite fino in terza media. È per questo che amo il liceo… Comunque, basta con queste distrazioni, ho un intruso in cantina da cacciare via prima che mia nonna se ne accorga. E mi chiedo perché quella vecchia acida non si sia ancora affacciata dalle scale a urlare di darmi una mossa. Mai che ci sia quando serve…                                                                      

«Ok, adesso finiscila. Non so chi tu sia né cosa tu ci faccia qui, ma se non te ne vai in fretta giuro che mi metto ad urlare più forte che posso». Wow, che minaccia da vera tosta. Per tutta risposta lo sconosciuto, che comunque è un gran pezzo di figo, ma questi sono dettagli, si avvicina con passo felpato e con un ghigno fintamente serafico stampato in faccia.                                                                                                                                  
«No, non lo farai. Primo, perché tua nonna non ti sentirebbe neanche se le urlassi in un orecchio e, secondo, perché non ti converrebbe». Allunga il bastoncino di cristallo che ha in mano (e di cui mi ero momentaneamente scordata) e me lo poggia sulla punta del naso. È caldo, ma ben presto diventa rovente.                                                                                                                                            
«Ahi, brucia! – esclamo spostandomi in fretta – Che diavolo è quell’affare?» domando tenendomi ben a distanza.                                                                                                                                              
Lui lo ripone con nonchalance in una tasca lunga e stretta sotto il braccio. «Uno stilo. Nulla di tua possibile conoscenza, per fartela breve. Alec Lightwood, comunque». Mi tende una mano con noncuranza, come se non mi dovesse alcuna spiegazione e lo scocciasse già parecchio. Mano che lascio sospesa in aria senza afferrarla.                                                                                                                                      
«Rebecca» e non aggiungo altro.                                                                                                                  
Lui sorride, credo che abbia capito di aver trovato pane per i suoi denti. «Bene, Rebecca. Per l’ennesima volta… cos’è quello?»                                                                                                                
Mi mordo il labbro inferiore, preoccupata. Non credo che vogli uccidermi, immagino che tutte quelle armi le sappia anche usare se le porta con sé con tranquillità. E va bene, sarà la più grande cretinata della mia vita, ma voglio fidarmi. Devo essere io quella impazzita ora.                                                                                                    
«Non lo so» confesso.                                                                                                                                  
Lui mi guarda confuso. «Che vuol dire che non lo sai?»                                                                                 
«Esattamente quello che ho detto, che non so cosa sia».                                                                             
La sorpresa sul suo volto aumenta sempre di più. «Stai dicendo che non sei stata tu a farlo?»   
Adesso tocca a me guardarlo sbalordita. «E perché mai avrei dovuto? E, soprattutto, come avrei fatto, scusa? Con la magia, forse?» chiedo. Be’, la sua risposta se possibile mi spiazza ancora di più.                                                                                                                                                    
«Pesavo di sì, l’odore si sente da metri di distanza».

  
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