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Autore: Sam Lackheart    29/09/2014    1 recensioni
Il pubblico dona tutto, ed è l’ unico a ricevere: parla di parole riflesse, quando esprime il proprio parere.
Presunzione metaletteraria.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come se questa cosa potesse aiutare la mia proverbiale pigrizia e mancanza d’ispirazione (cielo, non mi veniva neanche la parola). Ed io dovrei considerarmi in qualche modo una scrittrice? Ma sì, in fondo lo fanno quasi tutti al mondo d’oggi, c’è fin troppa libertà e possibilità per non cadere in tentazione. Questo è un assioma applicabile a qualunque espressione della creatività umana e dei suoi desideri.

Cielo, come posso essere pedante, quando voglio. Intransigente con il prossimo, visto che non riesco a rendere la vita facile a me, perché dovrei aiutare gli altri? Piuttosto supponente, da parte mia, ma posso permettermi il lusso di essere me stessa, agli occhi di qualcuno che non sono io, che magari non rifiuterà le mie parole a priori?

Eppure quando non ne ho l’occasione, ucciderei per scrivere qualcosa, anche sul retro di un tovagliolo usato, tanto per non dimenticare quella sublime concordanza di termini che casualmente si è affacciata, dispettosa, nella mia mente. Maledetta, torna indietro! Mi verrebbe da gridare, ma a che fine? Anche se dovesse tornare identica a prima, non la riconoscerei, sarei diffidente e la caccerei via, come un mercante esperto che crede di aver riconosciuto la brutta copia di una pietra preziosa.

Perché tanta disperazione sembra sgorgare dalle mie parole? Che cosa ho da perdere, cosa da guadagnare, con queste brevi espressioni, questi periodi più o meno apprezzabili? Di chi cerco il riconoscimento? Ma da coloro che più sinceramente offrono stima: sconosciuti anonimi che, finalmente liberati dalle zavorre di nomi e volti possono essere quello che sono, o quello che vorrebbero, in assoluta e noncurante libertà, quasi crudele a volte, ma assolutamente veritiera. La cosa fondamentale è poi accettare il verdetto. Questa è la parte peggiore, quando ci è sgradito: non prendiamoci in giro, una critica ferisce sempre. Poi ci si ragiona su, ci si vendica mentalmente pensando a quanto si possa essere pedanti e con una vita sociale scarsa per riuscire a scrivere quelle stesse cose per cui preghiamo e supplichiamo noncuranti della nostra dignità, e passa via, scivola, con una risposta fintamente gentile e educata, con miliardi di insignificanti e falsi, falsi ringraziamenti.

Per scrivere, poi, c’è bisogno di un oggetto. E cosa scegliere? C’è una lista? Troppo facile, se ci fosse: trasgredire sarebbe un gioco da ragazzi, e sparirebbe la vera essenza del rompere la legge. Certo è che alcuni limiti ci vogliono: ma da chi sono dettati? Dal soggetto, meno di quanto si possa credere; dalla storia, anche, ma un colpo di scena, una virata definibile artistica è sempre gradita, e affina il mistero, la seduzione delle parole. Dal pubblico? Abbiamo un vincitore, signore e signori. E cosa c’è di vergognoso in ciò? È vero, scrivere è una confessione, la più alta manifestazione della parte nuda e denudabile di se stessi: ma senza immaginare un interlocutore, come solo poter pensare di iniziare un discorso? Il pubblico dona tutto, ed è l’ unico a ricevere: parla di parole riflesse, quando esprime il proprio parere. Per molti, è più facile essere sinceri con gli altri che con se stessi, molto si nasconde ai propri occhi, per comodità, vergogna, abitudine. Ma quello che ci appare ovvio o sorprendente può assumere una luce talmente diversa se vista da altri che si corre a rileggere le proprie parole, per essere sicuro di aver scritto proprio quello che si pensava.

E l’ ispirazione? Sì, ne ho già parlato. Ma penso di non averlo fatto abbastanza. Non è semplice capire come intervenga nella capacità creativa. Certo è che scrivere senza ispirazione è una tortura tediante ai limiti del sopportabile. Spesso, è il miglior capro espiatorio che si possa avere: è qualcosa di talmente vago che può provenire da qualunque cosa, quindi da niente. Musica, nuvole, altri scritti, discorsi, persone, incontri casuali, oggetti, colori, profumi, caldo, freddo: il nulla, il vuoto, il nero.

Vero è che nella scrittura siamo più diretti che nella parola. Non ci sono sguardi da sostenere, o voci da temere, o gesti, o fisicità: si rintraccia lo scrittore tra gli spazi delle parole, dopo le virgole, nello spazio vuoto della pagina quando finisce un capitolo. E si costruisce nella propria mente l’immagine di questo essere, senza specifico sesso, piegato in due su un foglio, mentre più o meno disordinatamente traccia i confini di una realtà parallela, nuova e imprevedibile anche per il suo creatore, che come un moderno dottor Frankenstein inorridisce davanti alla sua creatura, o se ne sente fiero (i due sentimenti, per quanto opposti, possono spesso coesistere).


Il punto di tutto ciò? Come siamo concreti, a volte. Ho paura che non ci sia. Forse avete perso il vostro tempo. Io spero di no.
 
  
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