Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Gageta    29/09/2014    5 recensioni
Qualcosa nel loro matrimonio era andato storto, qualcosa di sottile e indefinito. E tra tutti, quello che ne soffriva di più, che ci rimetteva senza alcuna colpa, era sicuramente Hamish.
[Johnlock, parent!lock, angst]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Spero che possa piacervi, perché è forse il capitolo più importante della storia e uno dei più difficili che abbia mai scritto.
Buona lettura!
Capitolo 3
La Terza Parte di Noi
 
Parcheggia giusto dietro l'angolo della strada e fa l'ultimo pezzo a piedi. Cammina lentamente, senza fretta, pensando a come potrebbe iniziare un discorso, a come potrebbe trattenere rabbia, sconforto, amarezza e… amore. L'amore, quel sentimento inconfutabile che lo ha fatto penare per anni, prima, e altri anni ancora, dopo, proprio quando sembrava andare tutto bene. Gli prudono le mani e il cuore aumenta il suo ritmo al pensiero che lo rivedrà. Non sa nemmeno quando è stata l'ultima volta che lo ha guardato in faccia, che lo ha baciato. Si ricorda perfettamente quelle labbra, così morbide, così aggressive sulla sua pelle quando volevano, e la dolcezza, la curva che assumevano quando sorrideva enigmaticamente o quando pronunciava il suo nome, dando una nota dolce alla "o" che si univa alla "n" attraverso l'"h".
Mary non aveva mai potuto competere con lui.
Si ferma davanti alla porta del 221b e la guarda. Osserva la porta nera e il batacchio, il numero in grandi cifre dorate e la fessura per le lettere. L'ha sempre visto in quei due anni, ogni dannato venerdì pomeriggio, quando accompagna Hamish. Ma non è mai entrato, l'ultima volta è stata al compleanno dei cinquant'anni.
Prende un respiro profondo e suona il campanello.
Niente.
Ci riprova e nessuno risponde. Rimpiange la signora Hudson per qualche secondo, poi tira fuori le chiavi ed entra, storcendo il naso al forte odore di chiuso e di polvere che aleggia nell'ingresso. Passa un dito sul mobile lì vicino e ce ne trova ben tre centimetri. Un'altra cosa da aggiungere alla lista delle cose da dirgli: chiamare un'impresa di pulizie.
Sale le scale, facendo attenzione al gradino scricchiolante, e si ferma davanti alla porta spalancata dell'appartamento.
Deglutisce. «Sherlock?» Muove un passo avanti e bussa sul legno, guardandosi intorno con aria affranta.
Il salotto è in completo disordine. Il tavolino è rovesciato sul pavimento, carte strappate abbandonate ovunque, il computer di Sherlock a terra, lo schermo fracassato.
Sente il sangue ghiacciargli nelle vene e muove altri passi avanti, entrando completamente nella stanza. Si guarda intorno, guardingo, l'adrenalina che comincia a scorrergli in corpo.
«Sherlock?» riprova, «Sono io, John…»
Ancora silenzio.
Per un attimo pensa che sia uscito, poi nota il suo cappotto nero a terra, strappato a metà, e l'ansia lo attanaglia. Non può essere uscito, non lo fa mai senza il cappotto, e per quale motivo quello stesso cappotto a cui teneva tanto è lì per terra come spazzatura?
Comincia dalla cucina, si affaccia appena ma la stanza è silenziosa, altra polvere che si accumula sui mobili. Percorre a grandi passi il corridoio e controlla in bagno, poi abbassa la maniglia (è solo di sfuggita che nota i chiodi saltati intorno alla serratura), ed entra in camera.
Sherlock gli dà le spalle, rannicchiato su se stesso nella vestaglia in posizione fetale. Per un attimo viene pervaso dal sollievo, poi gli viene il dubbio.
E gli occhi cadono su una scatoletta lilla a terra, rovesciata, alcune bustine di plastica con dentro polvere bianca aperte e completamente svuotate sul parquet.
Il cuore perde un colpo e improvvisamente la rabbia sale, mischiata al terrore.
Con un calcio del piede spedisce la scatoletta lontano, non sa nemmeno lui dove, e si avvicina al letto, prendendo l'ex marito per una spalla con vigore e rovesciandolo supino.
Quello che vede gli mozza completamente il respiro.
Sherlock è pallido, il volto incavato sembra urlare dolore da ogni centimetro quadrato di pelle, le occhiaie sono profonde e i capelli completamente spettinati. Ma ciò che lo lascia paralizzato, che gli rompe qualcosa dentro, è quello che Sherlock stringe tra le braccia magre (troppo) punteggiate di segni rossi. Anche quello è strappato ma John riconoscerebbe la trama di quel maglione anche solo da un filo di lana. È rosso, scarlatto prevalentemente, e su di esso sono ricamate due lettere, due semplici lettere circondate da un cuore.
John amava quel maglione, lo amava perché era stato proprio Sherlock a regalarglielo, a dire cosa scrivere alla signora Hudson, che si era presa l’impegno di sferruzzarlo ai ferri. Lo aveva lasciato a Baker Street durante il trasloco, non sopportando più la sua vista.
Perso completamente da quella visione non si accorge di Sherlock che apre gli occhi, intontito, che lo guarda attraverso le palpebre pesanti, socchiudendo e aprendo gli occhi a intervalli, come se credesse di essere ancora in un sogno.
John lo fissa, immobile, e quando due occhi cristallini si spalancano increduli su di lui non capisce più niente.
In un attimo il palmo della sua mano ha toccato la sua guancia, sferzando l'aria in un potente schiaffo che manda l’uomo con la testa girata dall'altra parte. Il corpo è scosso da un sussulto mentre John ansima in piedi al suo fianco, la mano ancora alzata.
Sherlock si gira e nei suoi occhi non c'è più alcuna traccia di sorpresa, solo lampi e scintille di rabbia ferina.
John è pronto a colpirlo un'altra volta, colto da un'improvvisa onda di adrenalina in corpo, ma una mano di Sherlock lo ferma prima che possa anche solo sfiorarlo e gli torce il braccio verso il basso.
John mugola di dolore e cade sul letto, rotolando sul materasso, e in un attimo il moro è sopra di lui, il volto trasfigurato.
Improvvisamente spaventato da quello sguardo, John non si accorge nemmeno della mano che sferza l'aria e lo colpisce alla guancia destra, poi alla sinistra. Prende fiato per un attimo, il volto in fiamme, e si ritrova i suoi occhi a pochi centimetri dal viso. «Come osi…» ringhia, un suono che mai aveva sentito uscire dalle sue labbra.
John non si muove, è completamente paralizzato, un po' dal corpo del moro che lo schiaccia sul materasso, un po' dall'attanagliante dolore (non fisico) che lo stringe all'altezza del petto.
Non trova la forza di reagire e incassa i colpi successivi, pugni mirati allo sterno, alla pancia, allo stomaco. Farfuglia qualcosa e si agita, cerca di afferrare quelle mani che non fanno altro che infliggergli dolore ed è solo allora che nota la vestaglia aperta davanti ai suoi occhi, la completa mancanza di abiti sotto di essa.
Si ribella ma Sherlock riesce a bloccarlo con un ginocchio sul torso e dopo pochi secondi di lotta rimangono a fissarsi negli occhi, ansanti.
«Ti prego…» sussurra John, il fiato che accarezza una sua guancia. Non riesce a far altro che implorarlo, a fare leva su quella parte di Sherlock ancora lì, da qualche parte in quei due profondi pozzi azzurri.
Sherlock ringhia, di nuovo, e con un colpo al volto lo manda per un attimo in panne. Forse perde i sensi, forse semplicemente il dolore è talmente lancinante da fargli perdere la percezione della realtà per qualche istante.
Quando riapre gli occhi intercetta i suoi, pieni di lacrime. Lo vede esitare, tendersi sopra di lui nel tentativo di finire quello che ha iniziato, poi viene scosso da un tremito e gli crolla addosso.
Ansimante, John lo guarda cominciare a singhiozzare sul suo petto, bagnandogli la camicia, e mentre calma il respiro lo osserva gemere di disperazione e dolore.
Sente gli occhi pizzicare ma non se ne cura. Tutto ciò che gli interessa è davanti a lui, ed è distrutto.
Lo tira su con le braccia, passa una mano tra i capelli sporchi e sudati e lo stringe, con forza, lo abbraccia possessivamente.
Chiude gli occhi e rimane lì, a prendere respiro dopo respiro e intanto stringe, stringe perché è l'unica cosa che può fare in quel momento mentre Sherlock non fa altro che tremare.
Poi i respiri si calmano, i singhiozzi e i gemiti si fanno più radi, e alla fine Sherlock si addormenta, silenzioso tra le sue braccia.
John trova il coraggio di muoversi e li rovescia entrambi su un lato, continuando a tenere saldo quel corpo provato tra le braccia, e lo osserva da vicino nel sonno, passando una mano tra i riccioli scuri della fronte e sul suo viso, le guance sporche rigate di lacrime salate. È stato male, ha sofferto, troppo. Ora capisce per quale motivo Hamish era tanto spaventato.
Lui, l'uomo impenetrabile, l'uomo che disdegnava tanto i sentimenti e prendeva sempre in giro John per il suo estremo romanticismo, era stato piegato e distrutto proprio da essi.
Senza accorgersene si ritrova con gli occhi lucidi e un nodo alla gola, mentre osserva quel volto tanto amato riposare profondamente poco sotto di lui. Si chiede da quanto tempo è che non dorme così, se un po' del merito sia suo, se il maglione che lo ha visto stringere sia una prova di quanto abbia odiato il divorzio.
Sospira, prende aria a pieni polmoni ed è quasi tentato di baciarlo nel sonno, ma qualcosa lo trattiene. Copre entrambi con la vestaglia blu e, chinato il capo del moro contro il proprio petto, appoggia il mento sulla sua fronte, e chiude gli occhi.
Solo un minuto, si dice.
 
Quando spalanca le palpebre nota subito la sua assenza. Il letto riporta ancora la sua forma, in qualche modo, la vestaglia lo copre ancora per metà ed è tutta spiegazzata. Non c'è alcuna traccia del suo calore. Chiude per un attimo gli occhi e richiama a sé il ricordo della sera prima, rabbrividendo alla stretta dolorosa che avverte all'altezza del petto. Rilascia il fiato in brevi sospiri, cerca di calmare il cuore che batte a mille.
Se non fosse per il forte dolore là dove è stato colpito con violenza, John potrebbe quasi pensare che sia stato tutto un sogno. Si siede con fatica, stringendo i denti al bruciore che quasi lo dilania, il dolore fisico (nell'anima). Scosta l’mprovvisata coperta con stanchezza e si alza, cercando l'equilibrio.
Si sistema gli abiti addosso, dandosi un aspetto vagamente presentabile, ed è pronto.
Con un respiro profondo cerca di calmare la morsa che gli stringe lo stomaco ed esce dalla stanza, il volto una smorfia innaturale.
Non sa cosa aspettarsi, e, quando infine lo vede, in cucina, avvolto nella vestaglia rossa e seduto a gambe accavallate al suo solito posto, con il viso nascosto dietro al giornale, non riesce a sorprendersi.
«Ti ho preparato il tè.» esordisce lui. Potrebbe essere il gesto di tutti i giorni, quell'accostamento di parole che lo lasciava col sorriso sulle labbra e quell'orgoglio misto ad affetto reciproco, ma il tono è freddo, fermo, non c'è un solo accenno di bontà in esso.
John scaccia il groppo in gola e raddrizza la schiena, si schiarisce la gola.
«Ho lasciato Hamish da solo, si chiederà dove sono finito.»
«Perfetto, buona giornata.» Di nuovo quel tono gelido, distaccato, niente in confronto ai singhiozzi disperati della sera prima. John vorrebbe veramente credere che si sia trattato tutto di un sogno.
Sherlock si alza con uno scatto repentino, afferra la tazza e con un gesto secco la rovescia senza tanti complimenti nel lavandino.
La morsa si stringe, e tutto quello che John riesce a fare è proseguire la sua strada verso la porta e sparire da quella casa il più velocemente possibile.
 
Hamish apre la porta con uno sbadiglio. È a piedi nudi, i pantaloni del pigiama troppo lunghi per lui (Sherlock, quel pigiama è di Sherlock) e la maglietta che potrebbe benissimo fasciare un corpo largo il doppio del suo.
Lo squadra dall'alto in basso con aria assonnata, così, sulla porta, e John si aspetta che lo ricopra di domande sulla salute di Sherlock. Invece lo sorprende, mugugna un "’Giorno" spazientito, strofinandosi gli occhi impastati di sonno, e non dice più una parola fino a quando non esce per andare a scuola, una ventina di minuti più tardi.
~*~
Mette a letto Hamish (o meglio caccia), poi cammina avanti e indietro per la cucina, i pensieri che non lo abbandonano neanche per un secondo dalla mattinata in ambulatorio.
È preoccupato: Sherlock non sta per niente bene e lui non ha fatto niente per chiedergli come stava, per dirgli di farsi una dormita e… la droga.
Si mette le mani nei capelli e prende due respiri profondi per calmarsi; l'agitazione non serve a nulla, lo ha imparato in Afghanistan. Si chiede dove sia Mycroft, quando serve.
Poi si chiede cosa ci faccia ancora in casa quando Sherlock potrebbe lasciarsi morire da un momento all'altro, e, scritto un veloce biglietto di avviso per Hamish, esce veloce, afferrando al volo il cellulare.
Baker Street è silenziosa, come il giorno prima. Non ha neanche provato a suonare, qualcosa gli dice che Sherlock non gli aprirebbe comunque.
Sale a due a due gli scalini ed entra nell'appartamento col fiatone, guardando in salotto e in cucina, sapendo comunque che non è lì.
Si affaccia alla camera, a disagio, e lo vede, seduto sul ciglio del letto che guarda l'armadio di fronte. Gira la testa e lo guarda, lo scruta con occhi cristallini, rossi e cerchiati.
Poi si tira indietro, strisciando sul letto, e spegne la luce.
John si ritrova ad avanzare senza aver dato il comando alle proprie gambe, e un attimo dopo agita le braccia in aria nel buio, finché due mani forti non lo afferrano e lo tirano giù. John cerca la sua bocca, con affanno. Vuole baciare le sue labbra, il suo ossigeno, ma tutto quello che sente è un corpo caldo che si agita sotto di lui e poco dopo li ribalta. John si ritrova per la seconda volta supino, ma non gli interessa. Vuole contatto, vuole lui, e tanto basta.
Rilascia un gemito, come un soffio, quando due labbra gli baciano il collo, avide, e John non riesce a fare altro che inarcarlo, buttare la testa all'indietro e lasciare che Sherlock gli sbottoni la camicia, un bottone alla volta, baciando con devozione ogni punto di pelle che viene scoperta.
Le mani si muovono con maestria, accarezzano, sfiorano, con una dolcezza e attenzione infinita.
Si chiede se quello non sia una sorta di scusa per la sera prima, se quelle mani lo stiamo curando per amore o per rimorso.
Ma non ha bisogno di chiedere, John, semplicemente affonda le dita in quel groviglio di riccioli e Sherlock si abbassa subito su di lui, baciando, toccando e leccando, e davvero John non resiste per più di due minuti. Viene con un gemito più roco degli altri e si rilassa sul materasso, ricercando il fiato.
Allunga le braccia verso il basso quando lo sente muoversi lì sotto e, afferratogli un braccio, lo tira verso di sé, pronto a ricambiare, ma Sherlock si abbandona al suo fianco, arpionandolo al materasso con i lunghi arti inferiori e affondando con la fronte nell'incavo tra il collo e la spalla.
John lo abbraccia stretto e vorrebbe dire le parole che si è scelto con cura per la strada, ma non ci riesce.
Si nutre di quel silenzio rotto dai loro respiri, del buio che li avvolge, e nasconde, che cancella per poco ogni problema, ogni incertezza, che li riconduce a quegli anni passati e tanto agognati, sofferti, sperati.
John nemmeno le ricorda quelle parole quando, spossato, si addormenta al suo fianco.
Così com'è stato, così come dovrebbe essere, così com'è.
 
 
La mattina dopo lui non è lì, di nuovo, e il risveglio è peggio del giorno prima.
Si chiede, ancora una volta, se per caso non stia vivendo in un sogno, se quello che Sherlock sembra diventare con lui in quella stanza la notte non sia solo una proiezione della sua mente sola.
Si veste, usa pure il bagno e pensa che quella mattina accetterà la tazza di the e parlerà con lui, di loro, di quello che sta passando e…
Lui non c'è. Non è in cucina, né in salotto o nella stanza di Hamish. Il cappotto che era a terra due giorni prima non è più lì e John non può fare altro che tornare a casa.
 
 
Hamish non viene nell'ingresso, quella mattina: lo accoglie al tavolo della cucina.
Sta bevendo il latte, una seconda tazza piena di fronte a lui, al posto di John, con tanto di cereali, così come gli piace.
John guarda quel piccolo sforzo, quel gesto che non gli vedeva fare da anni, e vorrebbe dirgli qualcosa, ma le parole non arrivano.
Hamish non fa domande sul padre, non dice niente.
Semplicemente, aspetta.
~*~
La terza sera è automatico.
Hamish si ritira in camera mezzora prima dicendo che deve andare a dormire presto perché il giorno dopo ha un sacco di cose da fare. John ascolta solo per metà.
Aspetta il tempo sufficiente seduto sul divano a fare zapping, senza veramente vedere quello che gli passa davanti agli occhi, poi, quando è sicuro che Hamish non abbia più bisogno di lui, afferra il cappotto ed esce. Si fida di lui: ha solo dieci anni ma è molto più saggio e intelligente di uno qualunque dei suoi compagni di classe. Forse anche più di tutti loro messi assieme.
Quel giorno non ha fretta, quasi si trascina per la strada. Ha la mente completamente annebbiata, non riesce a mettere insieme due parole. Vorrebbe pensare alla salute di Sherlock, ma tutto quello che gli viene in mente sono le due notti passate insieme, il suo pianto della prima sera e le carezze e i baci della seconda.
Sente qualcosa ribollire nel suo cuore, un sentimento sopito ormai da tempo farsi strada dentro di lui e riversarsi con forza e prepotenza in ogni gesto, ogni pensiero, ogni sguardo.
Si blocca davanti alla porta del 221b e rimane a fissarla per due minuti buoni. Non sa che cosa lo aspetta su, non sa neanche se Sherlock è in casa, ma alla fine qualcosa lo spinge ad entrare.
Non pensa a niente mentre sale le scale, non pensa a niente quando varca l'ingresso ed entra nell'appartamento. Sta quasi per svoltare a sinistra verso camera sua (loro) quando con la coda dell'occhio vede una chiazza blu nel salotto. Si gira di scatto, vagamente sorpreso, e osserva la figura allungata sul divano, il volto rivolto all'insù e gli occhi chiusi, le mani giunte sotto al mento come in preghiera.
Qualcosa di dolorosamente familiare si fa strada dentro di lui mentre lo fissa da lontano, rimane immobile e un improvviso imbarazzo lo assale.
Quella non è più casa sua, dopotutto, non ha il diritto di entrare e reclamare alcunché (neanche suo marito, che marito non lo è più).
«Speravo non venissi.»
Le labbra si muovono davanti ai suoi occhi come in un sogno, e si ritrova improvvisamente a serrare i pugni a quelle parole. Non capisce più niente, la sua testa è un ronzio inutile di domande senza risposta, di dubbi e frasi sconnesse. Che cosa vuol dire? Non è lui quello che è caduto tra le sue braccia sconvolto dai singhiozzi, non è lui quello che lo ha trascinato sul letto e lo ha baciato dappertutto.
Sherlock apre gli occhi e abbassa la testa, lo scruta da lontano, il volto impassibile.
Rimangono lì a squadrarsi a vicenda per diversi secondi, come due iene pronte a balzare l'una addosso all'altra nel tentativo di vincere la preda desiderata.
Poi il volto di Sherlock si addolcisce, i lineamenti si rilassano in un'espressione stanca e provata. «Che cosa stiamo facendo, John?»
Il suo nome tra quelle labbra, il suono della sua voce su quel nome. L'ira lo invade di colpo.
Si sente preso in giro, si sente come i primi mesi di silenzio prima del divorzio, un cane abbandonato sulla strada da un padrone indifferente. Almeno fino a quando Sherlock non spalanca le braccia, tendendole verso di lui, e sente il proprio stomaco ribaltarsi.
Esita sul posto, sentimenti contrastanti, poi semplicemente si lascia andare, cancella tutto e cade in avanti.
Si lascia accogliere dalle sue braccia, si lascia stringere mentre affonda nella sua maglietta, lo artiglia con le dita e lo respira, a fondo. Un singhiozzo gli sfugge dalle labbra ma non ci fa caso, tutto quello che gli interessa è il suo corpo magro sotto di lui, il suo odore che non è mai cambiato, il suo Sherlock.
Lo stringe talmente forte che potrebbe fargli male, ma in quel momento è l'ultima cosa che gli interessa mentre si preme contro di lui, cerca di affondare completamente nel suo abbraccio, di diventare una cosa sola, un tutt'uno, e fermare quel dolore che lo dilania.
Mentre il suo corpo è scosso dai tremiti Sherlock gli passa una mano tra i capelli, li pettina tra le sue dita, gli posa un bacio in testa e lo stringe come può. E John potrebbe morire lì, potrebbe rinascere. Potrebbe fare un sacco di cose ma non ha voglia di stare lì a pensarci. L'importante è Sherlock, la cosa più importante della sua vita, che ora è lì e non se lo lascerà scappare un'altra volta.
«Ti amo…» Sherlock lo mormora proprio nel suo orecchio e John spalanca gli occhi. Il mondo cade intorno a lui, rombi e tuoni lo assordano mentre, improvvisamente, realizza.
Si tira su a forza, spinge con i gomiti, annaspa, fino a quando non lo vede in faccia, non lo afferra per il colletto.
«No…»
I suoi occhi color del ghiaccio lo osservano velati di lacrime, lo trapassano da parte a parte.
«No…» ripete, invoca, prega. «Non è vero.»
È un respiro mozzato, un farfugliamento.
Sherlock scuote la testa e tenta di riprenderlo tra le proprie braccia ma John lo scuote via con uno scatto e si porta sempre più vicino a lui, tremante.
Rabbia, dolore, collera. Tristezza, pentimento, realizzazione.
«No, no… tu non… tu non l'hai più detto. Tu non… no…» trema, cerca aria. «Tu non c'eri più!» mezzo urla, mezzo singhiozza. «Non c'eri mai, non dicevi più niente, non sapevo mai dov'eri e se stavi bene, male, ucciso. NIENTE!» Ha la voce roca, un urlo disperato. «Come puoi, come hai potuto!»
«John…»
«No. Hamish. Hamish, come hai potuto? Soffriva, mi chiedeva dov'eri, mi chiedeva perché non c'eri. E io non potevo dirgli niente perché NON lo sapevo.»
«Mi dispiace.» Una lacrima gli riga il volto, respira a fatica.
«Ti ho- ti ho chiesto il perché. Ti ho chiesto spiegazioni…»
Sherlock scuote la testa, non vuole sentire nient'altro.
«Mi hai detto, mi hai urlato, che la nostra vita faceva schifo…» Ora piange apertamente anche lui, sente le lacrime bagnargli il volto.
«Lo so. Mi dispiace…» singhiozza, e John si stringe di nuovo a lui, strofina una guancia contro la sua spalla. «Fottuto bastardo.»
Lo sente deglutire e stringere un po' di più, poi parla, tra le lacrime. «Io non… non ce la facevo più.» Immerge il volto tra i suoi capelli biondo cenere. «C'era Hamish, e tu dovevi prendertene cura.»
«Eri geloso di Hamish?» John lo guarda, incredulo, una stretta al petto.
Sherlock scuote la testa. Quando parla, il labbro gli trema. «Io- io amo Hamish. Non potrei… non potrei mai. Lui è… è perfetto.» lo dice con affetto, gli occhi che luccicano di una luce sincera. «Ma non mi seguivi più come una volta. E Hamish era così felice quando lo accompagnavi a scuola, alle partite di calcio. Io non- non l'ho mai fatto. Non… avevo voglia.»
«Sherlock…» lo sussurra tra le labbra, improvvisamente comincia a comprendere.
Il moro scuote di nuovo la testa, le lacrime che gli bagnano il volto, senza controllo. «Non sono mai stato un buon padre.»
È il turno di John di scuotere la testa, con forza. «Hamish ti vuole bene. Ti vuole un mondo di bene.» dice, ripetendo ciò che gli è stato riferito due giorni prima. «Tu non hai idea… non me lo ha mai detto. Mai più.» Un singhiozzo. «Lui era felice con te, sempre. Tornava a casa sorridendo e quando mi vedeva… non c'era più. Era… È, sempre arrabbiato.»
«Non è solo questo!» Sherlock lo guarda con gli occhi spalancati, disperato. Vuole che John capisca, vuole buttare fuori quelle parole che lo opprimono ormai da fin troppo tempo. «Io… io non volevo tutto quello. C'erano giorni in cui volevo sparire, volevo scappare e andarmene. Era tutto… era tutto così, troppo.» L'ultima parola è solo un filo di voce mentre John gli prende il volto tra le mani e preme la fronte contro la sua.
«Perché.» esala in un respiro, gli occhi stretti con forza. «Perché…»
Sente Sherlock fremere sotto le sue dita. «Non… non ce la facevo più. Era come se fossi chiuso in una bolla a cui qualcuno toglieva mano a mano l'aria, come se… soffocassi.»
John riapre gli occhi e li stropiccia per togliere le lacrime e poterlo guardare bene. «Perché non me ne hai mai parlato.»
Sherlock lo osserva come da molto lontano, gli occhi velati di rabbia verso se stesso e dolore, nient'altro che dolore. «Non ce l'ho fatta.»
E John legge in quelle parole tutta la vergogna e la paura per i suoi pensieri, così diversi, così pieni di egoismo. Legge tutte le sue preoccupazioni, il terrore di non essere compreso e il tentativo di andare avanti anche se non resisteva più.
John lo capisce, lo comprende come ha sempre fatto e lo abbraccia, affonda col viso nell'incavo del collo. «Avrei dovuto accorgermene. Avrei dovuto insistere.» mormora, e sente Sherlock abbandonarsi nel suo abbraccio.
«È colpa mia. È solo colpa mia.» ammette il moro con voce roca, e poi non dice più niente per un bel po', lasciandosi andare senza remore, piangendo tutto quello che si è tenuto dentro per anni, soffrendo.
John lo bacia sul collo, preme le sue labbra contro la pelle nel tentativo di rassicurarlo.
«Mary era… era sempre premurosa. E io ero, ero solo.» inizia John, e Sherlock vorrebbe che si zittisse subito, che la smettesse di attribuirsi colpe che non sono sue.
«Lei mi ha visto distrutto e mi ha invitato a prendere qualcosa. E mi ha ascoltato, e io avevo bisogno- avevo…» si nasconde contro di lui e si blocca, incapace di pronunciare quelle parole.
«John…»
«No… lasciami… voglio- voglio spiegare.» Prende un respiro profondo e lo guarda negli occhi. «Mary era così dolce… e io ero distrutto. Avevo bisogno di te. Ma c'era lei e… Non ho fatto altro che pensare a te. Anche mentre facevamo sesso pensavo a te. Immaginavo che fossi tu.» Una nuova ondata di lacrime lo assale e John si ritrova ad abbracciarlo con tutta la forza che può, stringendolo per sentire il suo corpo sotto il suo, come accertandosi che sia veramente lì. «Non volevo tradirti. Non volevo…»
Ed è lì che Sherlock lo stacca a forza, gli prende il volto tra le mani e lo bacia, con foga, ricerca quelle labbra a cui non ha mai smesso di pensare.
È il loro primo bacio dopo anni e John ricambia subito con altrettanto ardore, ricerca la sua lingua e si riempie del suo sapore, in una danza precisa, coordinata, in un ballo di cui nessuno dei due ha mai dimenticato i passi.
«Ti amo.» Sherlock lo ripete ansimando quando si staccano, lo ripete quando John comincia a divorare di baci ogni punto che riesce a raggiungere di lui.
Si spogliano con lentezza, senza fretta, si tolgono indumenti uno ad uno mantenendo l'equilibrio sullo stretto divano. E finalmente, dopo anni, si ritrovano, rifanno l'amore come una volta, si muovono nella loro danza a tratti scoordinata, quella che gli faceva scappare piccole scosse di risa. Si muovono entrambi, formano un unico disegno, elaborato in ogni sua piccola parte, fino a quando non si ritrovano l'uno tra le mani dell'altro, travolti dalla potenza del loro legame, e infine, spossati, rimangono l'uno contro l'altro, stretti, un'unica entità, un groviglio inestricabile di braccia e gambe.
«Hamish voleva che tu lo sapessi.» mormora John contro il suo petto, accarezzando la pelle con un dito, disegnando cerchi e intrecci invisibili.
«Lui sapeva, lo ha sempre saputo. Lui sapeva e ha sempre tentato di darmi quello che non ricevevo più da te…» La sua voce è un tuono contro la cassa toracica e John chiude gli occhi, beato.
«Voglio che torniamo… torniamo ad essere noi due. Contro il resto del mondo.» Sherlock lo dice in un sussurro, accarezzando con devozione il suo volto, e John lo guarda con gli occhi che brillano. «E con Hamish. La… La terza parte di noi.» aggiunge poi, sorridendo debolmente. John si tira su a forza e raggiunge il suo volto, allungando il collo.
«E poi sono io quello romantico dalle frasi poetiche.» dice, rispondendo al sorriso. Si avvicina, sfiora la punta del suo naso con le labbra. «Ti amo anch'io, fottuto bastardo.» sussurra.
E sigilla quelle parole con l'ennesimo bacio, prima di addormentarsi stretto a lui.
 
Quando si sveglia Sherlock lo sta osservando dal basso, la felicità espressa negli occhi lucidi e brillanti, nelle piccole rughe che gli increspano la fronte, nell'espressione rilassata del suo volto.
John lo guarda con gli occhi socchiusi e sorride anche lui, gli passa una mano tra i capelli e gli stampa un bacio in fronte.
«Torna a casa, John.» dice, e non è una domanda.
John annuisce e si lascia andare un paio di lacrime mentre inverte le loro posizioni e ricomincia a baciarlo dall'alto, facendo sfuggire dalle labbra del suo uomo due brevi risate.
«Devo visitarti. Devi curarti. Sei dimagrito troppo…» mormora alla fine John, quando si sono calmati nuovamente. «Devi mangiare e dormire regolarmente, ma soprattutto lasciarti coccolare tutte le volte che ne ho voglia. E se sarà troppo, se la tua mente iperattiva non potrà sopportare la monotona vita quotidiana, ti troverai uno di quei casi complicati e io ti accompagnerò. Chiaro? Hamish è abbastanza grande per stare qualche ora da solo.»
Sherlock annuisce. «Ma solo se a cucinare sarai tu, solo se ti addormenterai al mio fianco, solo se tornerai ad essere il mio conduttore di luce.» mormora e ai “Sì” ridacchiati e ripetuti di John si apre anche lui in un sorriso.
«Lo sono sempre stato.» ribatte John, ed è la verità.
 
Quella mattina, quando John torna a casa, incrocia Hamish nell'ingresso. È pronto per uscire, lo zaino in spalla, il pranzo in una mano e l'ombrello nell'altra.
Si accorge solo in quel momento di avere la giacca umida di pioggia e la guarda. Ha la testa completamente libera da ogni pensiero, sulle labbra gli alleggia un vago sorriso e se ne rende a malapena conto.
Il bambino, invece, lo scruta attentamente per qualche secondo con gli occhi socchiusi, poi lo guarda dritto negli occhi.
E, sorprendentemente, sorride.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Gageta