Pensandoci è sempre stato così: io ero l’equilibrato, lui il passionale, io il responsabile, lui l’eterno peter pan, io l’inglese che non si scomponeva mai, lui l’americano sempre al centro dell’attenzione, insomma io ero Watson e lui Holmes. la sua compagnia era difficile da sostenere, ma lui non si accorgeva di niente. Non capiva, o almeno fingeva di non capire, quanto fosse pesante per me la situazione. Perché ogni suo sguardo provocava un dolore tale che neanche mille pugnalate al cuore sarebbero state l’altezza. I suoi occhi posati su di me mi illudevano e la pelle, sotto la stoffa, bruciava ad ogni suo tocco. Per lui erano gesti naturali, forse sentiva il bisogno di contatto fisico, ma per me erano ciò che di più mi logorava dentro. Perché era proprio il ricordo di questi che mi portavo dietro, quando chiudevo la porta della suit. Ero stanco, non sopportavo più tutta quella finzione che si prendeva gioco dei miei sentimenti. Perché la sua era una recita, la mia era verità. L’avevo chiamato realmente in piena notte per dirgli che mi mancava, Dio solo sa quanto coraggio avevo racimolato per premere quei tasti, ma alla fine per lui non era stato che uno scherzo da rivelare nella prima intervista trovata. Ed era vero anche che facendo così aveva spezzato quel poco che rimaneva del mio cuore. Era vero che l’unica persona di cui ero innamorato al momento era lui. Era vero che c’erano voluti solo 30 secondi per entrare in sintonia. Era tutto vero. Nulla di ciò che dicevo era inventato, avevo provato quelle sensazioni sulla mia pelle, non potevo mentire. Lui invece con incredibile nonchalance raccontava aneddoti mai avvenuti, frasi mai dette, soltanto per promuovere se stesso e il film. Tutta quella messa in scena faceva male, quasi quanto dover regger quel gioco che per lui non valeva che quattro risate e un po’ di pubblicità. Ed era così difficile sorriderne. Dovevo fingermi divertito e da attore non facevo altro che indossare maschere, quando avrei soltanto voluto urlare. Si, gridare in mezzo alla folla che lo amavo, che io non avevo Susan a casa ad aspettarmi, che io lì trovavo lui, o meglio il suo ricordo. Perché no, non ero solo, come dicevano i media, io avevo lui, nel cuore e nella mente, invadeva ogni pensiero. E tutte sere passate sul letto, con le guance rigate dalle lacrime e le ginocchia al petto mi intimavo di dimenticarlo, di lasciarlo andare, dicendomi che avevo solo bisogno di tempo e che tutto sarebbe passato.

 



-------Nda------
Innanzitutto scusate per questa rappresentazione un po’ egoista e egocentrica di Rob. È partito tutto dalla risata di Jude, quella che amo da impazzire e che è così spontanea che si capisce subito quando è un po’ forzata. Nell’intervista in cui Downey rivela che l’inglese l’ha chiamato per dirgli che gli mancava, Jude ha una risata così finta da sembrare quasi ferito. Ok magari è solo una mia impressione o magari sono diventata pazza per colpa di questi due, ma capitemi era tardi, avevo un groppo in gola e tanta voglia di scrivere. Non ho mai scritto niente su loro due e a dir la verità è la prima ff che posto con questo account. So che è breve ma sono una persona diretta e sintetica quindi non riesco a fare cose troppo lunghe. Se siete arrivati fin qui grazie per la pazienza. E per non far si che siano le Nda più logorroiche della storia la chiudo qua. Mi dareste una grande mano se recensiste. Xoxo