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Autore: fireslight    30/09/2014    4 recensioni
Natalia cammina per i corridoi del palazzo, mentre fuori nevica e l’inverno di Leningrado assedia la città in una morsa di fiocchi chiari, argentei come la bellezza delle sue notti bianche.
Sorride, improvvisando qualche passo di danza, neve tra i capelli lunghi e in disordine sulle spalle, − rossi come fuoco di speranza, come la rivoluzione, gelida rovina di Leningrado, sua dimora eterna.
[..]
«Per punizione, considerato che mi hai svegliato e che rimettersi a dormire non è una buona idea, trovi qualche schifezza da mangiare insieme, e..» Clint aveva sorriso in maniera così palese, che a Natasha era sembrato un bambino alle prese con il suo giocattolo preferito.
«.. ti va una partita ad Assassin’s Creed?»
«In russo.» aveva precisato lei, quasi inarcando un sopracciglio.
«Oh, avanti, non si parlava russo, nell’Italia del Dodicesimo Secolo!»

[Clint/Natasha♥] [Natalia's Childhood/Post-TheAvengers]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Winter’s Tale.
 
 
 
 
 
 
“Russia, terra color lampone, e azzurro caduto nel fiume,
amo fino alla gioia, fino al tormento, la tua tristezza di lago.”

 
Sergej Aleksandrovič Esenin.
 
 
 
 
 
Natasha camminava lungo la prospettiva Nevskij con noncuranza, troppo persa nei suoi pensieri per fare caso ad alcunché − o almeno così pareva −.
Del resto, era da tanto che non si concedeva un po’ di buona e sana vodka, come aveva amabilmente scherzato con un cameriere in quel bar alla stazione; viaggiare in treno, piuttosto che in aereo le aveva garantito l’esiguo anonimato del momento.
Nel primo pomeriggio di un poco assolato giorno di Settembre, Leningrado − per quanto tempo ancora avrebbe continuato a chiamarla in quel modo? − si ornava del traffico di automobili e veicoli d’ogni sorta, delle linee del tram e di turisti occasionali.
Ne erano passati, di anni, dall’ultima volta in cui l’aveva vista e, come se non bastasse, la città che si mostrava adesso ai suoi occhi, era ben diversa da come la ricordava.
Passeggiava solitaria senza alcun bagaglio, se non un cellulare e qualche soldo in tasca.
Era arrivata sino ai cancelli del Giardino d’Estate, sinceramente curiosa di rendersi conto se almeno quello − in tutti quegli anni di lontananza − fosse rimasto intatto; e così era stato.
 
Da bambina, poche erano state le volte in cui le era stata concessa una pausa dai suoi lunghi ed estenuanti addestramenti, e quando ne aveva la possibilità, il Giardino d’Estate era la sua meta preferita, il luogo in cui sedersi su una delle tante panchine o semplicemente sull’erba verde, ammirando le statue in marmo ed i fiori che crescevano nelle aiuole ben curate.
Aveva controllato l’orologio parecchie ore più tardi, nonostante le fosse sembrato di essersi fermata per pochi minuti, − come quando da piccola perdeva la cognizione del tempo − e, quasi dispiaciuta, si era recata in hotel per la cena.
Al suo tavolo, posto accanto ad una delle finestre che dava su una delle prospettive della Cattedrale di Sant’Isacco, aveva mangiato poco e niente, volendo osservare più che altro un paesaggio che le era davvero mancato. Portandole il dolce, il giovane cameriere le aveva sorriso, consegnandole poi un piccolo biglietto.
«Per lei, signorina Laurent.»
Laurent, come Elèna Laurent, la sua nuova copertura francese.
Fury era stato irremovibile, su quel punto: o si prendeva una pausa sotto copertura, − il che poteva significare documenti completamente nuovi e chissà quale altra seccatura burocratica − oppure rimaneva a New York a fare da balia alle reclute.
Su questo, Natasha non aveva replicato.
Riportando la sua attenzione al dolce, si era accorta di avere davanti una fetta di Sacher al cioccolato con piccoli frutti di bosco, proprio come piaceva a lei. Ciò che a prima vista le era sembrato strano, e cioè che solo pochi, − veramente pochi − sapevano della sua assenza da New York, non le aveva comunque impedito di mangiare la torta con gusto.
Non appena il cameriere era venuto a ritirare il suo piatto, ed essersi guardata furtivamente intorno, aveva aperto la busta ed osservato a lungo il biglietto al suo interno.
 
 
Davvero credevi che non ti avrei trovata?
 
 
Per un attimo, le era tornato in mente il generale Petrovich, quando da bambina − pur di non sottostare alle angherie delle altre ragazzine, come lei inserite nel progetto Vedova Nera, − si nascondeva sotto il suo letto, e quando aveva capito che era un nascondiglio fin troppo prevedibile, in diversi altri posti.
La cantilena che aveva nella mente, però era sempre la stessa.
Davvero credevi che non ti avrei trovata?
E allora, dopo essere stata tirata fuori a forza da sotto il letto, o dagli altri suoi nascondigli, veniva severamente punita; l’addestramento giornaliero veniva interrotto per fare spazio a sedute di combattimento estenuati e ad esperimenti sulla sua resistenza fisica e mentale.
Tutte cose molto allegre, insomma.
«Com’era la Sacher?»
Natasha era lievemente sobbalzata a quel tono irriverente e un po’ divertito del suo interlocutore, fissandolo storto.
Clint Barton le si era seduto di fronte, prendendo in mano l’elegante segnaposto sul tavolo e annuendo tra sé. «Ottimo, davvero. Adesso sei Elèna Laurent.»
«Il tuo accento francese è pessimo, Barton.»
«E dire che mi chiamo Francis di secondo nome.» annuì lui, divertito.
«Ed anche la tua capacità di formulare frasi è pessima.»
Clint aveva alzato lo sguardo dal segnaposto, aggrottando le sopracciglia.
«.. Come, prego?»
Natasha aveva sospirato, mettendogli davanti sul tavolo il biglietto portatole dal cameriere.
«Mh, si. Volevo vedere come reagivi.»
«Avresti potuto formulare una frase del genere in cinque modi diversi.»
Clint l’aveva fissata stranito, come non potendo credere di aver sbagliato qualcosa.
«Mi spieghi cos’hai contro la mia capacità di formulare frasi scritte?»
La donna si era poggiata allo schienale della sedia, osservando come da fuori il via vai di auto e passanti si fosse affievolito nel corso della serata.
«Petrovich, Clint. Per un attimo, leggendo quel biglietto, ho pensato a lui.»
In quell’istante, Clint aveva capito. «Cavolo, mi stupisci. Nel mondo ci sono qualcosa come tre miliardi di uomini, e tu pensi ad uno che adesso è morto e sepolto?»
Aveva fatto una pausa, osservandola silenzioso, mentre Natasha non aveva distolto la sua attenzione dalla strada. «Senza contare che..» aveva replicato lui, un sorriso malizioso in volto, «avresti potuto pensare al sottoscritto, ma..» a quel punto, Natasha si era voltata si poco, sorridendo impercettibilmente.
«Ma?» domandò, sinceramente curiosa.
«Sarebbe peccare di presunzione, no?»
«Ben detto. Non è che hai ingressi liberi per il Palazzo d’Inverno?»
 

 
                                                                                      − •●• −

 
 
Avevano dovuto rimandare la proposta di Natasha all’indomani pomeriggio, causa dei restauri al lato est del palazzo che appunto, sarebbero stati terminati in giornata.
Quella sera, lei aveva anche insistito perché Clint non prendesse una camera singola, considerato quanto gli sarebbe costata − non che il problema siano i soldi, aveva detto, ma questione di buonsenso − e considerato il fatto che il suo letto era enorme e lei non ne occupava che una scarsa metà.
«Perché dobbiamo chiuderci in camera neanche fossimo vecchietti di settant’anni?» Clint non riusciva ancora a comprende quanto fosse noioso e stancante un viaggio in treno.
«Cosa proponi di fare?»
Natasha aveva cominciato a spogliarsi, addirittura, e Clint stava decisamente perdendo il controllo. «Considerato che qui sei praticamente di casa, pensav.. Romanoff mettiti qualcosa addosso o giuro che esco da qui e prendo una camera singola, rigorosamente singola.»
Lei aveva riso, − quasi, a dire il vero − continuando a camminare per l’ampia stanza con solo la biancheria intima addosso ed i capelli mossi − più lunghi di quanto Clint ricordasse − sciolti sulle spalle.
«D’accordo. Potremo visitare il Giardino d’Estate, o passeggiare lungo la Neva.»
«Affare fatto.» le aveva gettato un’occhiata fintamente distratta, mentre lei si accingeva ad infilare il cappotto. «Scherzi, vero?»
Lui aveva avuto la brillante idea di portare solo la giacca da motociclista che aveva addosso e un cappotto nel caso avesse nevicato, − ma non poteva nevicare a Settembre, giusto? −
Giusto.
«Non nevica qui, vero?» Clint aveva una certa ansia nella voce, che Natasha non aveva potuto non fare a meno di pensare che fosse un turista.
«No, non ancora. Ma di sera fa freddo, ti consiglio il cappotto.»
Dopo diversi minuti passati in contemplazione della giacca sulla sedia vicino al letto e al cappotto che occupava quasi l’intera sacca da viaggio, Clint aveva deciso.
 
                                                                          

                                                                                      − •●• −                                                                 

 
 
Il Giardino d’Estate era probabilmente uno dei posti più belli − e curati, − che Clint Barton avesse mai visto. Vi erano statue di marmo ovunque, raffiguranti tizi più o meno nudi e in pose più o meno discinte, oltre a una buona quantità di personaggi mitologici di cui fino a poche ore fa, non sospettava l’esistenza.
Natasha camminava lentamente al suo fianco come se avesse tutto il tempo del mondo, cosa che, poteva essere vera.
«Molti anni fa, venire qui era quasi un’abitudine.» aveva detto, sedendosi su una panchina, osservando il paesaggio che li circondava. «Avevo la possibilità di.. uscire, per così dire, solo a luglio, e per un paio di settimane.»
Clint si era seduto accanto a lei, un braccio poggiato sulla ringhiera alle sue spalle.
«Non devi parlarne, Nat. Davvero. Le reclute di New York facevano davvero così schifo?»
Natasha aveva sorriso, grata del fatto che lui avesse deciso di cambiare argomento. «Più o meno, si. Non facevano che domandare cose stupide, su cose aliene, battaglie varie. Fury mi ha imposto una copertura, però.»
«Non è Fury se non propone coperture anche per andare al supermercato.»
Avevano riso entrambi, osservando quel giardino sospeso nel tempo, le foglie degli alberi mosse impercettibilmente dal vento e statue silenziose ad osservarli.
 
 
Natalia cammina per i corridoi del palazzo, osservandone i quadri appesi alle pareti e i dettagli architettonici in oro e pietre preziose.
Cammina, ma non sa dove è diretta.
Tutto è immerso nel silenzio, non un rumore a disturbare la quiete della notte.
Raggiunge una delle terrazze nella Sala d’Inverno, ornata di zaffiri e quadri dalle tinte fredde.
Facendo attenzione, ne spalanca ogni finestra ed i balconi, mentre fuori nevica e l’inverno di Leningrado assedia la città in una morsa di fiocchi chiari, argentei come la bellezza delle sue notti bianche.
Natalia sorride, i fiocchi di neve cominciano ad entrare nel salone sospinti dal vento gelido, posandosi sul suo viso esposto alle intemperie di un clima che non perdona.
La piccola principessa non ha freddo, sebbene la veste che indossi sia leggera e chiara, non adatta al minimo soffio d’aria fredda.
Pensa che non ci sia spettacolo più bello che osservare la neve danzare alla luce della luna che filtra tra le tende chiare delle eleganti finestre, cominciando ad avvertire brividi di felicità sin dentro le ossa.
Lentamente, la neve comincia a stendere sul pavimento di marmo bianco uno strato gelido di brina, e Natalia sorride, improvvisando qualche passo di danza imparato giorni prima da Iryna Stanviskij, prima ballerina al Bolshoi.
Su sua richiesta, suo padre le aveva concesso di prendere lezioni di danza e Natalia, nel suo carisma e dolcezza di bambina, impara ogni giorni nuovi e diversi passi, facendo nascere sul volto di uno Zar troppo preso da affari di Stato, un sorriso sincero.
Natalia balla fra neve e fiocchi argentei tra i capelli lunghi e in disordine sulle spalle, − rossi come il fuoco di una speranza che sente nelle membra giovani, ebbre di vita.
Balla con il sorriso sulle labbra spaccate dal freddo, gli occhi verdi come gli smeraldi più preziosi, ridenti e lucidi di felicità.
Riesce a muoversi con destrezza fra i mucchietti di neve agli angoli del salone e la brina del marmo, con il rischio e al tempo stesso la sicurezza di non cadere, la veste bianca mossa intorno a lei dal vento della notte di una città − Leningrado, sua dimora eterna − colma della bellezza del suo sole di mezzanotte, di astri nascenti e lune così luminose da far male a guardarle.
Natalia danza fra il vento e la neve di una città che trattiene un respiro di speranza ormai troppo lieve, danza con il freddo e il gelo di Leningrado sulle spalle minute, ed una musica così dolce da farle venire le lacrime agli occhi nella mente, indelebile e tangibile come la sua capacità di portare gioia e serenità nelle vite di chi ama.
 
 
Si era svegliata di scatto nel cuore della notte, la fronte imperlata di piccole gocce di sudore, i lunghi capelli in disordine.
«Solo un sogno.» aveva sussurrato a sé stessa, eppure la sensazione della neve sul viso le era sembrata fin troppo reale.
«.. Tutto bene?»
Un braccio muscoloso era entrato nel suo campo visivo, così come un bicchiere colmo di un liquido lievemente ambrato, ed alzando lo sguardo dalle lenzuola, aveva incontrato quello di Clint.
«Si, solo..» aveva bevuto la vodka tutto d’un fiato, alzandosi dal letto e posando il bicchiere sul tavolo della sala. Che poi, la loro non sembrava neanche una stanza d’albergo, piuttosto un appartamento di lusso, ma dettagli.
Aveva anche chiesto a Fury un anticipo sul prossimo stipendio, e se il direttore non gliel’aveva negato, l’aveva guardata con vaga curiosità. Nonostante ciò, Natasha non aveva davvero voglia di dirgli che avrebbe preso una suite all’Astoria di Leningrado, − San Pietroburgo, non poteva essere così complicato −.
«Incubo?» Clint le cingeva la schiena delicatamente, senza imporle la sua presenza e lei, d’istinto, − perché aveva dimenticato quand’era stata l’ultima volta che lui l’aveva stretta a sé − si era voltata, stringendogli le braccia al collo, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
«Non volevo svegliarti.» aveva mormorato sulla sua maglia a maniche corte, mentre Clint affondava il volto nei suoi capelli rossi, ispirandone il profumo.
«Non importa, ero già sveglio.» La stringeva a sé come se ne andasse della vita di entrambi, e probabilmente era così. «Mi sei mancata, Nat. Fury ha fatto troppo il prezioso, senza dirmi, alla fine, dove eri diretta ‘perché non lo sapeva neanche lui’
Aveva imitato il direttore in maniera così precisa che lei aveva dovuto reprimere un sorriso, senza però riuscirci davvero.
«Crede di saper mentire meglio di me, o di te. Tzè, dilettante
Il calore del corpo di Clint l’aveva calmata a sufficienza, ma Natasha preferiva godersi quegli istanti ancora un po’, prima di recuperare il suo solito contegno.
«Mi sei mancato, Clint.»
«Bene. Per punizione, considerato che mi hai svegliato e che rimettersi a dormine non è una buona idea, trovi qualche schifezza da mangiare insieme, e..»
Si era interrotto per osservarla meglio, sedendosi sul letto accanto a lei e sorridendole in maniera così palese, che a Natasha era sembrato un bambino alle prese con il suo giocattolo preferito.
«.. ti va una partita ad Assassin’s Creed?»
«In russo.» aveva precisato lei, quasi inarcando un sopracciglio.
«Oh, avanti, non si parlava russo, nell’Italia del Dodicesimo Secolo!»
 
 

                                                                                       − •●• −

 
 
Clint non pensava davvero che la gente potesse fissarsi per più di dieci minuti su di uno stesso quadro, − tranne quei critici d’arte incalliti e Natasha, s’intende −.
Erano entrati per un giro di un’ora e mezza, − massimo due, si era sentito a voler precisare − ed erano ancora lì, non avendo completato il giro di neanche un quarto dell’Ermitage.
«Ce ne andiamo? È da un’ora che sei fissata lì.» Il suo tono avrebbe potuto competere con quello di un bambino che insiste per essere portato al parco giochi dai genitori, e Natasha non si era sentita in dovere di rispondergli.
«Oh, Nat. Cambiamo canale, almeno. Lì ci sono le indicazioni per la scuola italiana.»
Tuttavia, Natasha era rimasta ad osservare con occhi attenti un quadro nella sezione francese del museo, senza avere la minima intenzione di muoversi o accennare ad un altro dipinto. Clint aveva sospirato, cercando di distrarsi leggendo una spiegazzata mappa dell’immenso complesso architettonico.
«Possiamo andare.»
Aveva rialzato lo sguardo dal depliant come confuso, − a dir la verità, disperso fra troppi stili diversi per capirci davvero qualcosa − ed aveva annuito tra sé, stanco dopo essere stato quasi un’ora in piedi e fermo nello stesso medesimo punto. Non che per lui fosse un problema, poiché i duri allenamenti nell’esercito e poi allo S.H.I.E.L.D avevano fatto in modo che potesse stare ore in piedi senza lamentarsi, ma decisamente, si stava annoiando.
Il Salone Rosso segnato sulla mappa del museo era il seguente da visitare, qualcosa sulla scuola olandese, e Clint aveva alzato gli occhi al cielo, quasi d’istinto.
«Oh, la scuola fiamminga non è poi così interessante.» aveva accennato Natasha, prendendo un altro corridoio che sembrava chiuso al pubblico.
«La scuola delle fiamm.. che?»
 
 
Quei corridoi del museo non erano decisamente aperti al pubblico.
Natasha lo aveva guidato per locali e passaggi più o meno angusti, arrivando poi in una sala immensa, i cui mobili antichi erano stati ricoperti da teloni onde qualsiasi cosa potesse rovinarli.
«Suppongo che oltre quelle porte ci sia la scuola dell’acqua, o della terra. Quella delle fiamme non era interessante?»
Aveva indicato le porte a due battenti di fronte a loro, perfettamente serio e controllato nel tentativo di strapparle un sorriso.
Infatti, Natasha aveva accennato ad un movimento quasi impercettibile delle labbra; aveva provato ad aprire le porte, e stranamente, quelle si erano dimostrate piuttosto collaborative.
Nel salone in cui si trovavano, il tempo sembrava essersi fermato da decenni.
Clint aveva avuto la strana quanto mistica impressione che la temperatura fosse di colpo calata, come se improvvisamente avesse potuto cominciare a nevicare − o stesse già nevicando −.
Non vi erano quasi mobili, se non un paio di vecchie mensole in legno rovinate dalle tarme con alcuni libri polverosi ed ingialliti al di sopra ed un tavolino da thè nell’angolo in fondo a sinistra, con ancora una elaborato centrino in pizzo risalente a chissà quando, e una tazzina dai motivi azzurrini su un vassoio d’argento con tanto di teiera e biscotti ammuffiti dal tempo.
Natasha si aggirava per la stanza come se la conoscesse da secoli, come se non se ne fosse mai andata da lì.
E, probabilmente, ricordando quanto una volta lei gli avesse detto, − durante una missione a San Pietroburgo, diversi anni prima, − Clint sapeva che era così.
 
«Avrei potuto avere tutto, Barton.»
Natasha aveva indicato il Palazzo d’Inverno, la piazza antistante, la Neva ed il Giardino d’Estate, dall’alto del jet che li avrebbe riportati in America.
«Avrei potuto avere questo e molto altro, se solo le cose fossero andate diversamente, se solo fossi rimasta, quando tutti erano morti e io ero sopravvissuta.»
 
                                                                         

                                                                                        − •●• −

 
 
«Aspetta.. Aspetta, dov’è Natalia?»
L’uomo si guarda brevemente intorno, sospirando. «Ci penso io, tu vai.»
«Colonnello, non possiamo perdere neanche un minuto di tempo.»
La voce possente di una delle guardie risuona nel caos dei corridoi, mentre una donna e i suoi quattro figli, vengono scortati al di fuori del Palazzo d’Inverno.
«Non posso lasciare Natalia, compagno Evaneskij.»
«Dove credete possa essere la bambina, colonnello?»
L’uomo osserva freneticamente il movimento dei servitori, il calpestio di stivali dei soldati sui pregiati marmi italiani dei pavimenti.
«La Sala d’Inverno.»
Un sussurro che si perde nel frastuono della paura, nel gelido alito della rovina.
 
Natalia continua a provare lo stesso passo da qualche minuto, perseverando nell’ostinazione di una bambina di sette anni, che, nonostante tutto, vuol riuscire nel suo tentativo.
Quando le porte della sala si spalancano come investite da una tempesta, lei si volta di scatto, osservando due uomini stagliarsi contro le ombre della notte, una notte chiara ed illuminata dalla luce della luna.
«Padre?»
Il più alto dei due uomini le si avvicina, piegandosi sulle ginocchia e mettendosi alla sua stessa altezza, occhi azzurri ed occhi verdi.
«Dobbiamo andare, Natalia.» La bambina lo osserva spaesata per qualche secondo, poi sembra comprendere.
«Colonnello, non c’è tempo.»
«Devi essere forte, Natalia. Credi di farcela?»
Natalia comincia a sentire il freddo pervaderla, i muscoli flettersi e scattare come se si trovasse in gabbia. «Certo, padre. Verrò.»
Gli occhi risoluti della bambina si posano sul secondo uomo, intento ad osservarla velatamente, il sorriso bonario e l’espressione tirata, preoccupata.
«Dobbiamo andare, Natalia.»
Il secondo uomo − quello dalla voce profonda − le si avvicina, avvolgendo il suo corpo piccolo ed agile in un cappotto nero di almeno una taglia più grande, premurandosi di coprirle i lunghi capelli rossi, legati in una treccia sulla spalla.
«Principessa, dobbiamo andare via.»
Percorrono velocemente i corridoi a ritroso, nel caos di rumori fra le varie sale del palazzo e dell’incessante movimento dei soldati.
D’un tratto, sebbene stesse tenendo un’andatura veloce, Natalia si sente sollevata da terra, al sicuro fra le braccia forti di un uomo distrutto dalla prospettiva di abbandonare il proprio paese, e la propria famiglia.
Prima di rimuovere quella realtà dalla sua mente, Natalia ricorda il thè ormai freddo e i biscotti non più dolci e fragranti, sul tavolino all’angolo della sala.
 
 
Come se il tempo si fosse fermato, Natasha osservava la tazzina da thè dai motivi azzurrini sul piccolo tavolino, i biscotti ammuffiti dal tempo.
Aveva preso un libro da uno delle due mensole divorate dalle tarme, ed aveva avvertito come una stilettata al cuore, quando, cercando di sfogliarle, queste le si erano sgretolate in polvere fra le dita sottili.
«Natasha..» la voce di Clint le giungeva ovattata, come se fosse stata rinchiusa in una teca di vetro «Forse è meglio andare, tornare indietro.»
«Era il posto che più preferivo, nel Palazzo.» aveva detto, il tono monocorde, perso nei ricordi.
«È qui, che vennero a prenderti?»
«No, era presto. Però fu da qui che scappammo. Io e mio padre, e..» Clint l’aveva vista inarcare un sopracciglio, come se finalmente avesse ricordato qualcosa di fondamentale. «.. e gli altri.»
Le aveva sfiorato un braccio, guardandola di profilo. «Sai che non sei obbligata a parlarne. Avanti, andiamo.»
Aveva come la strana sensazione che se fosse rimasto lì un minuto di più, avrebbe voluto conoscere ogni dettaglio più o meno raccapricciante di quelle ultime e lontane ore di vita di un governo ormai estinto da decenni.
«Continuammo a fuggire, quella notte, senza fermarci mai. Prima in treno, poi a piedi.»
Natasha aveva preso a fissare i vetri della terrazza più grande della sala, come se le vecchie tende un tempo candide, − adesso consumate dal tempo − potesse darle forza per continuare.
 
 

                                                                                        − •●• −

 
 
«Per quanto tempo staremo qui, padre?»
«Per tutto il tempo che sarà necessario, Natalia.»
La bambina alza gli occhi verdi al cielo, indispettita dal tono enigmatico dell’uomo al suo fianco. Lui le prende una mano, stringendola appena e sorridendole.
«Facciamo due passi, ti va?»
I corridoi della casa sono scuri, tetri ma puliti. Natalia viene quasi sempre assalita dalla prospettiva di perdersi in quei labirinti, impossibilitata a trovarne l’uscita.
L’uomo al suo fianco si ferma all’ingresso, cercando con lo sguardo azzurro segni di vita.
La bambina vede due soldati avvicinarsi, i fucili in spalla e l’espressione sprezzante in volto.
«C’è qualche problema?» Il primo dei due soldati è alto e magro, ha i tratti del viso spigolosi come rasoi.
«Vorremo fare due passi, compagno Tereskov.»
Natalia vede il sospetto pervadere come veleno il volto dei soldati, come se lei e suo padre avessero improvvisamente deciso di andarsene.
«Come vuole, colonnello. Ma non si avvicini troppo ai cancelli.»
L’uomo al suo fianco le stringe maggiormente la mano, senza però farle male. Si allontanano per il viale circondato da alberi della casa, camminando lentamente, senza alcuna preoccupazione apparente.
«C’era scherno nei loro toni, padre.»
«Certo, è comprensibile.»
«Voi avete fatto così tanto, dovrebbero ringraziarvi. Dovrebbero essere gentili.»
L’uomo sorride, un sorriso pregno di amarezza e di orgoglio, per il semplice fatto che nessuno dei suoi figli è mai stato così arguto a quell’età.
A debita distanza da presenze umane, si inginocchia davanti a lei, carezzandole il volto dai tratti fini e regali. «Non possiamo pretendere di essere amati da tutti, Natalia.»
La bambina volta il capo, osservando i pochi fiori del giardini, poi il cielo azzurro.
«Non torneremo a Mosca, padre.» dice, e nel suo tono, l’uomo davanti a lei coglie una verità ormai compresa da tempo.
«Sai ancora arrampicarti sugli alberi?» Natalia sa che suo padre vuole metterla alla prova; così annuisce, accennando un sorriso.
«Volete vedere?»
«No, bambina. Non oggi. Però, voglio che tu osservi attentamente questi giardini, ed il viale d’accesso alla casa. Voglio che trovi anche un solo punto dal quale sarebbe facile andare via.»
Natalia inarca un sopracciglio, stupita da quelle richieste. «Scapperemo?»
L’uomo sorride, sfiorandole i lunghi capelli rossi. «No, ma è come un gioco. Come una caccia al tesoro.»
 
 
Suo padre le bacia la fronte, rivolgendole uno dei suoi ultimi sorrisi.
«Sarà meglio rientrare, Natalia. Tu goditi il paesaggio.»
La bambina rimane seduta sul muretto del viale d’ingresso, parzialmente nascosta dagli alberi.
Comincia ad osservare più attentamente i giardini ed il viale, come suo padre le ha consigliato ed in particolare, la sua vigile attenzione è catturata nell’osservazione di  come i muri esterni dell’edificio siano totalmente nascosti alla vista dai rami e delle foglie di cespugli e tronchi vari.
Alzandosi dal muretto in cui è seduta, si premura che nessuno la stia osservando e, silenziosamente, s’inoltra nelle viuzze formatesi tra la recinzione in cemento ed i tronchi degli alberi, piccoli sentieri così stretti in cui, se non fosse così magra, non riuscirebbe a passare.
Natalia giunge sino ad un punto in cui, fra il muro ed una delle finestre del salone della casa, vi è ben poca distanza. Si porta a pochi centimetri dal davanzale per osservare se il locale sia vuoto, quando, improvvisamente, avverte la confusione dei soldati animare le sale circostanti, senza comprenderne la ragione.
Dai corridoi interni provengono delle voci.
«Preparate i bagagli, si parte.»
Natalia avverte da lontano la voce di suo padre chiedere spiegazioni, senza ricevere risposta. Allora, capisce.
È solo un trucco, pensa, uno sporco trucco per eliminarci tutti.
Rimane ad osservare come ipnotizzata la sua famiglia, che scortata da alcuni militari, viene fatta sistemare nella sala da lei spiata; i genitori seduti con accanto suo fratello, e le sue sorelle alle loro spalle, impaurite dal precipitarsi degli eventi.
La bambina guarda come la sua famiglia sia sistemata in linea con la finestra dal quale lei li sta osservando. D’un tratto, gli occhi azzurri di suo padre sono nei suoi ed un ultimo sorriso fa capolino sul suo volto, insieme a qualcosa sussurrato appena dalla sua voce potente e rassicurante.
Scappa.
Prima che possa anche solo pensare di replicare, un’altra voce copre l’eco dei suoi pensieri, terrorizzandola.
«Ci siete tutti?» Natalia vede sua madre in procinto di rispondere, e suo padre toccarle il braccio, come per ammonirla a non fiatare.
«Bene.»
Mentre il sangue della sua famiglia macchia le pareti della sala da pranzo, la bambina geme silenziosamente, spalanca gli occhi al terrore cui diviene partecipe, ed uno dei soldati, − forse quello che poco prima le aveva dato il permesso di passeggiare per i giardini − urla qualcosa nel trambusto generale, fra il sibilo di diversi proiettili.
«Dov’è la più piccola?»
Natalia si volta e comincia a correre, arrivando sino ai piedi di quel grande albero con i rami così lunghi ed imponenti da sporgere sin oltre le mura della casa.
È un attimo.
Si cala sul volto il cappuccio marrone scuro della giacca pesante, cominciando a correre, correre ininterrottamente.
 
 

                                                                                       − •●• −

 
 
La stazione di San Pietroburgo era affollata, entrambi camminavano a testa bassa tra veri e propri fiumi di persone.
Clint aveva osservato l’orologio militare al polso sinistro, mentre Natalia sembrava totalmente interessata al colore delle scarpe della gente intorno a loro.
«Dovrebbe essere quello.»
Il convoglio per Mosca sarebbe partito a mezzogiorno in punto, e mancavano ben pochi minuti. Fortunatamente, sin dall’inizio, avevano deciso di viaggiare leggeri, portando con sé unicamente una sacca da viaggio e qualche cambio di vestiti, oltre che a documenti, soldi, una semiautomatica per lei ed un coltello per lui.
Tutte cose che, − se la loro intenzione era quella di passare inosservati −, avrebbero dovuto nascondere con cura; dopotutto, i controlli non erano più così fiscali, sui treni.
«Natasha, è ora.»
«Arrivo tra un attimo.»
«Certo, il treno aspetterà noi.» aveva ribattuto ironicamente, alzando gli occhi al cielo. Clint si era rassegnato al fatto di doverla seguire all’interno della stazione, per fare chissà cosa.
Lei continuava a camminare tra la gente, incurante del fatto che Clint avesse potuto seguirla o meno e si era fermata di fronte ad uno dei terminal, mentre lui la raggiungeva.
«Non hai intenzione di andartene, vero?»
Natasha non gli aveva risposto, dirigendosi verso la biglietteria.
Lui l’aveva sentita parlare in russo, e per quel che la sua arrugginita conoscenza della lingua gli consentiva, aveva recepito poche parole come treno, biglietti, più tardi.
In seguito, Natasha era tornata da lui, porgendogli due biglietti per Mosca nuovi di zecca.
«Partiamo fra due ore.» era stata la sua spiegazione, e Clint, suo malgrado, si era dovuto convincere che prenotare biglietti per treni su quella strana cosa chiamata Internet, non doveva andarle molto a genio.
«Ma come, avevo anche prenotato la prima classe.»
 

«Dunque, voglio una spiegazione.»
Natasha sedeva in attesa che chiamassero il loro treno, osservando distrattamente la Baltica, senza alcuna preoccupazione apparente.
«Hai notato quei due tizi che ci seguivano praticamente da ieri sera, dopo essere rientrati in hotel?»
Clint aveva alzato gli occhi al cielo, poggiandosi allo scomodo schienale delle panchine d’attesa. «Mh, si. Suppongo tu abbia voluto confonderli, cambiando treno. Ottima mossa, Romanoff, davvero.»
Dopo essere rientrati dalla visita al Palazzo d’Inverno-sbarra-tuffo-nel-passato, Natasha gli era parsa silenziosa, − addirittura più del solito −.
Avevano consumato la cena al ristorante dell’Astoria, poi erano saliti in camera, e avevano giocato fino alle tre di notte ad Assansin’s Creed.
Solo quando Clint si era allontanato per andare a prendere qualcosa da bere al bar qualche piano di sotto, − scoprendo come Natasha avesse un debole per gli attici − l’aveva trovata rannicchiata in posizione fetale sul divano bianco, i capelli rossi una cascata di fiamme sul tessuto chiaro.
Aveva sorriso, quasi impercettibilmente.
Con delicatezza, l’aveva presa in braccio e posata sul letto, stendendosi accanto a lei.
La mattina seguente, aprendo gli occhi ed avvertendo il fresco delle lenzuola, Clint si era alzato, trovando il tavolo del salone della stanza − più che stanza, appartamento che definire lussuoso era del tutto riduttivo − ingombro di ogni genere di cibo per colazione che si potesse desiderare, dal caffè a qualche strano tipo di thè orientale, cornetti, pancake e bacon e uova.
Proprio di tutto.
Natasha era riemersa dal bagno, i capelli umidi sulle spalle.
«Non sapevo cosa ti piacesse, ho ordinato un po’ di tutto.»
E adesso, seduto alla stazione di San Pietroburgo, Clint avrebbe voluto trovarsi ancora al Giardino d’Estate.
Peccato che mai, mai le avrebbe dato la soddisfazione di dirle che anche in Russia, terra fredda, gelida e inospitale, − terra che uccideva con lo sguardo, nell’abbraccio fatale di un inverno che non perdonava − qualcosa l’aveva inevitabilmente colpito.
Non avrebbe saputo spiegare in realtà, cosa effettivamente l’avesse colpito, − se il clima ostile, l’atmosfera di una città imprigionata nel tempo, o la Neva stessa, con le sue acque gelide anche d’estate.
 
 

                                                                                     − •●• −

 
 
«Desiderate qualcosa da mangiare o da bere?»
Natasha aveva risposto che no, per la centesima volta, stavano bene così.
L’anziana signora russa addetta al trasporto di cibo e bevande sul treno non aveva forse recepito il messaggio, così Clint, per farla contenta − e sperando che li lasciasse in pace − le aveva sorriso, accennando qualcosa in un russo decisamente antiquato anche per la simpatica nonnina, comprando una bottiglietta d’acqua.
«Vedrai, non passerà più.»
«Oh, lo spero.»
Natasha aveva sorriso si sbieco, per la prima volta dopo aver lasciato il Palazzo d’Inverno, quasi due giorni prima.
«Com’è che conoscevi quei corridoi del Palazzo così bene?»
Aveva azzardato una domanda che probabilmente non avrebbe ottenuto risposta, ma con lei nulla era del tutto certo. Natasha aveva quasi aperto bocca, ma lui l’aveva bloccata con un gesto distratto della mano.
«Sai, quasi è risaputa la tua tendenza al masochismo.»
«Non si tratta di masochismo.»
«No? Allora quei fascicoli che hai chiesto a Coulson sulle ultime direttive politiche del governo russo e movimenti vari favorevoli al governo zarista subito dopo l’ascesa di Lenin, li ho sognati. Cavolo, devo proprio avere una fervida immaginazione.»
Natasha aveva voltato il capo in direzione di un paesaggio spoglio, la velocità del treno che rendeva indistinta ogni cosa.
«Avevo bisogno di conferme, circa alcuni affari irrisolti, nulla di insolito. Perché dovrebbe interessarti?»
Clint aveva sorriso amaramente, poggiando la schiena allo schienale delle poltrone del vagone. «Preferisco evitare dettagli spiacevoli, Nat. Non vorresti dover rivivere ogni cosa come fosse la prima volta. Gli incubi, le false sedute dagli strizzacervelli di cui Coulson ti fornisce gli indirizzi.. A quale scopo?»
«A volte, voglio semplicemente ricordare, Clint. Nessuno sa com’era la mia vita, prima del KGB, dello SHIELD. Prima avevo tutto, o forse non avevo niente, suppongo dipenda dai punti di vista.»
Clint non avrebbe potuto capacitarsi del fatto che lei potesse aver vissuto tra le convenzione sociali dell’epoca, eppure, − molto in profondità, immaginando una Natalia bambina sfrecciare per quei corridoi interminabili, adornati d’oro e rifiniture pregiate, − pensava che si, probabilmente, in un’altra epoca, Natasha sarebbe stata una persona diversa, molto più di quanto non lo fosse in quei momenti.
«Potrei essere addirittura uno strizzacervelli migliore di quei vecchi rimbambiti allo SHIELD.»
L’aveva vista increspare le labbra in un minuscolo sorriso, prima di vederla nuovamente rilassata, cominciare a raccontare una di quelle storie paurose, un po’ di terrore e ambigua meraviglia, vissute all’ombra di un’identità che ormai, − nonostante fossero passati così tanti anni − le avrebbe anche visto bene addosso.
 
 

                                                                                       − •●• −

 
 
Natalia continua a correre, fermandosi per riprendere fiato al bordo della strada principale di quella città colma di sangue ed orrori.
Sente dietro di sé la morsa strisciante degli aguzzini, la paura che la segue come un rapace che avvista la sua preda.
Sa di dover continuare a correre, perché l’ultimo sguardo, l’ultima parola di suo padre è stata per lei, ed è stato un messaggio fin troppo chiaro.
“Scappa.”
«Ti sei persa?»
Si volta di scatto, osservando una donna che a sua volta, la guarda come fosse uno strano animale selvaggio, forse, i capelli rossi in disordine ne danno prova sufficiente.
Natalia capisce che l’unico modo per salvarsi, per scappare, è immedesimarsi in un ruolo che non le appartiene.
«Sembri spaventata, bambina. Come ti chiami?»
«Svetja.»
È il primo nome di una lunga serie, nomi, soltanto identità spezzate, maschere da indossare nelle occasioni più rare ed improbabili.
 
Il tempo passa, e Natalia sembra apparentemente ambientarsi in quella famiglia povera ed umile che vive alla periferia più lontana e fredda di Ekaterinburg.
I due contadini non hanno figli, ma la donna ha sempre desiderato avere una bambina ed anche il marito l’ha accettata di buon grado, divertendosi un mondo quanto lei, piccola creatura ancora divorata dalla paura, fa qualche tentativo di raccontare delle storie divertenti.
Conduce una vita tranquilla, quasi solitaria, ma Natalia darebbe qualsiasi cosa pur di rimanere sola, pur di avere la certezza che non la ritroveranno mai più.
Un pomeriggio, allontanatasi per rincorrere tra i campi una farfalla dalle luminose ali blu, Natalia si accorge di avere qualcosa − o qualcuno − alle spalle, più vicino di quanto realmente vorrebbe che fosse.
Gli arti vengono pervasi dal freddo, nonostante la giornata sia calda e vi sia il sole, eppure, per la prima volta da settimane, si chiede se qualcuno abbia avvisato chi di competenza che al momento dell’eliminazione della sua famiglia, qualcuno mancava all’appello.
Fugge di scatto verso la sua casa, ed entrando nel piccolo corridoio d’ingresso, vede la donna che le ha dato da mangiare ed un rifugio sicuro, mettere insieme alcuni fagotti di vestiti e un cestino di cibo.
«Cosa succede?»
La donna sorride, chiamando il marito dall’altra stanza. «Andiamo a Mosca, piccola Svetja. Qui non c’è più nulla per noi, neanche per te.»
 
A Mosca, Natalia non avrebbe voluto tornarci per nulla al mondo.
Eppure, vivere da sola sarebbe stata l’alternativa più stupida, considerato che probabilmente, è ricercata da ogni autorità russa, o forse − è un’ipotesi improbabile, ma vuol cullarsi di false sicurezze − qualcuno si è davvero dimenticato della minore delle figlie dello zar, della pulce dai capelli rossi.
Quel giorno è sola in casa, in una mattina scura e pregna di pioggia.
Improvvisamente si sentono scattare le sirene dalla strada, i disordini e le rivolte da parte di coloro che sostengono gli zar non sono terminate, c’è il rischio costante che le case vengano distrutte e chi vi abita, sepolto sotto le macerie.
Quella volta, Natalia non fa in tempo a raggiungere i rifugi, né ad imboccare le scale per scendere quantomeno in strada.
Sente il peso delle macerie, di polvere, calcinacci e pezzi di intonaco cadere e graffiarle la pelle, sente il terrore invaderla e la paura serrarle il respiro in gola.
Poi, il buio.
 
«Qui, sembra esserci qualcuno sotto questi muri!»
Nella sua testa, le voci appaiono come ovattate, come se stesse fluttuando in un mare d’inconsistenza, richiusa all’interno di una bolla fatta di buio, sensazione di terrore e paura sempre presenti nella sua breve ma intensa esistenza.
I soccorsi arrivano immediatamente, − forse troppo − ed è strano che ad essere distrutto da cima e fondo, sia stato proprio il palazzo nel quale lei e quella coppia di giovani persone che l’avevano adottata, avevano preso un appartamento in affitto.
Quando apre gli occhi, osserva un cielo grigio e smorto, il dolore la trafigge come stilettate in ogni angolo del corpo e delle mani la tirano fuori da quell’inferno di polvere e cemento, i capelli rossi ancora in disordine, e diverse ferite sul viso.
L’uomo che la soccorre non ha il tipico camice bianco dei medici, ma una strana uniforme ed un volto che Natalia non dimenticherà facilmente.
Lui controlla il polso, le funzioni vitali più importanti, poi le sorride amabilmente, sfiorandole quella cascata di capelli color del sole al tramonto, in una carezza che la piccola Svetja finge di non sentire.
«È lei. Capelli rossi come fuoco, pelle pallida come il marmo.»
«Signore?»
Natalia riesce a mettere a fuoco solo la voce dell’uomo chinato su di lei, nient’altro.
L’hanno trovata, alla fine.
«Compagno Petrovich, dovremo andare via. Le autorità potrebbero arrivare da un momento all’altro.»
«Certo, passami il sedativo. Sarà meglio che non veda quale sarà il tragitto per la sua nuova casa.»
Sente un ago sul collo che le provoca un minimo dolore, ed in breve gli occhi si fanno più pesanti del solito. Natalia avverte il dolore abbandonarle le membra, la stanchezza pervaderla come un sonnifero ed il corpo sollevarsi da terra.
«Piccola principessa, erede dei Romanov, credevi forse che non ti avremo trovata?»
 


                                                                                       − •●• −

 
 
Fury li osservava con quegli occhi capaci di incutere timore come nulla, − occhio, Clint Francis Barton, sussurrava una vocina impertinente nella sua testa −.
Ma Clint non era davvero dell’umore per ascoltare una sua sfuriata, proprio non credeva che quello fosse il luogo o il momento adatto.
Lui e Natasha avevano deciso di continuare il viaggio di ritorno da Mosca a Parigi in treno, così da non attirare sospettosi omini in nero che avrebbero potuto facilmente individuarli, o seguirli.
Da Parigi, − ove lui aveva insistito di fermarsi almeno un giorno per riposare − Natasha aveva stoicamente deciso di proseguire, ignorando l’assurdo mal di schiena di entrambi; Clint non aveva proferito il minimo lamento per l’intero, distruttivo tragitto.
Peccato che, un attimo dopo essere scesi dall’aereo per Washington, dove le prime nevi avevano annunciato la loro comparsa fra turbini di vento, − Natasha imbacuccata in un lungo cappotto nero, i capelli rossi nascosti sotto il cappuccio, lui con solo quella giacca da motociclista indossata a San Pietroburgo − avevano visto il colonnello Nicholas J. Fury attenderli al loro terminal, con accanto un sorridente Phil Coulson.
«Secondo te, perché si è scomodato a venire fin qui?»
«Lo scalo a Parigi non era previsto.»
«Non farebbe casino solo perché tu, hai improvvisamente deciso che un aereo da Mosca sarebbe stato troppo prevedibile.»
«Fai meno lo spiritoso, dottor Watson.»
Coulson li aveva accolti in maniera molto poco formale, accennando quel suo sorrisetto enigmatico cui ormai Clint era abituato, − e dire che i primi mesi, quando l’aveva conosciuto, si era convinto che avesse una specie di paralisi facciale −.
«Agente Barton, Romanoff..» pausa d’effetto, in cui aveva pensato a quanto fosse strano vedere l’agente a lui di fronte senza il consueto completo giacca-e-cravatta, «.. bentornati.»
Il che, come Clint poteva ben recepire, significava pressappoco ‘adesso andiamo tutti a discutere di come non avreste dovuto commettere azioni avventate’.
 


                                                                                        •●• −



«Ci seguivano.»
Natasha aveva parlato per prima, buttando fuori quelle due parole come fossero stati pugnali conficcati nella gola. E dire che non aveva mai pensato potesse avere il dono della sintesi.
Non letteralmente, ma quasi.
Fury aveva alzato un sopracciglio, fissandola attentamente da sopra gli occhiali da sole, − anche se di sole, alle 11.46 di una fredda sera di Washington, non ce n’era −.
«Suppongo che, in quel caso, lo scalo di Parigi sia stato un diversivo.»
«Esattamente.»
Coulson li osservava parlare come seguendo una partita di ping-pong particolarmente avvincente, girando di tanto in tanto il cucchiaino nella tazzina di un caffè ormai freddo, sempre con quel sorriso sulle labbra, ma al tempo stesso, quasi del tutto impassibile, come se non stesse davvero ascoltando la conversazione.
Clint, al contrario, trovava quella scena alquanto esilarante.
Erano seduti in un bar nel centro della capitale, come un qualsiasi gruppetto di amici mal assortiti, certo. Lui e Natasha sembravano essere appena sbucati fuori da un qualche tunnel sotterraneo direttamente dalla Groenlandia, Coulson era il conciliatore di turno, − o la maestra paziente che spiega ai suoi alunni di non litigare − e Fury, il papà severo che rimprovera i figli perché tornati troppo tardi dall’ultimissimo, trasgressivo concerto di Lady Gaga.
«Bene, Romanoff. Voglio un rapporto completo di almeno dieci pagine sulla mia scrivania, per le 10.30 di domani mattina. Intesi?»
«Direttore, l’auto ci aspetta dall’altra parte della strada.»
Natasha aveva osservato l’agente Coulson riconoscente, sapendo che no, Fury avrebbe voluto per quella volta i dettagli di ogni loro spostamento, e non si sarebbe accontentato dello scarno ed incisivo rapporto dell’agente Barton.
Il direttore si era alzato, dirigendosi verso il Suv nero dalla parte opposta della carreggiata, seguito da Coulson. Si era però fermato quasi al centro della strada, incurante del traffico di Washington in prossimità della mezzanotte di un sabato d’autunno.
«Voglio i dettagli, Romanoff. Lo dica anche a Barton, nel caso volesse essere lui a stilare quel rapporto.»
Clint l’aveva fulminato con una delle sue migliori occhiate da falco, prima che Natasha potesse rifilargli una sonora gomitata nelle costole, intimandolo al silenzio.
Dopo che il direttore e l’agente si erano allontanati in macchina, lei aveva sorriso divertita.
«Preparati a trascorrere un’emozionante nottata davanti al Pc, Barton.»
«Avanti, Nat. Non sono psicologicamente pronto per le dieci pagine sulla mia scrivania, per le 10.30 di domani mattina. Non essere crudele.»
Natasha aveva alzato gli occhi al cielo, mormorando una qualche imprecazione in russo che Clint non aveva voluto afferrare.
«Ci dividiamo il lavoro, però.»
«Affare fatto.»
Il caffè di entrambi, ormai freddo nelle tazzine, segnava da troppo tempo − troppi anni insieme, missioni portate a termine, troppa complicità, e fiducia − un legame strano, forse contorto in maniera serena, opportunamente di reciproca indifferenza quando necessario, ma duraturo e permanente.
Perché quando la Vedova rilanciava un’offerta, il Falco non la rifiutava mai.
 






 
 




Note dell'autrice.
Si, dopo aver superato questo ostacolo insormontabile che è il banner, (opera mia, aw.) ricompaio con passo felpato. Ebbene si, mi sono finalmente decisa − a dire il vero, la scuola mi ha totalmente rapita nel suo vortice − a pubblicare questa shot, che shot non è poi tanto, − belle 17 pagine di Word.
Ad ogni modo, era da un po' che immaginavo l'infanzia di Natasha, e so che a quanto si dice nei fumetti, non è che sia proprio.. ahem, la figlia dell'ultimo zar di Russia, ma niente, ho dato la mia versione romanzata della cosa. E poi c'è Clin Barton, aw, cosa sei.
E niente, spero possa piacere ad anima viva, giusto perchè Russia&Co colpiscono ancora − e ancora colpiranno, oh, se colpiranno − e anche perchè sinceramente, io adoro Vedova e Falco insieme.
Anyway, c'è un piccolo papà cattivo aka Direttore Fury in incognito (shh, non ditelo a nessuno) e un orsacchiotto sorridente che risponde al nome di Phil Coulson, e no, il suo nome di battesimo non è Agente.
Smetto di uccidervi con queste simpatiche note, − simpatiche quanto le diete a Natale e Capodanno.
Alla prossima,
fireslight.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

  
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