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Autore: GretaCrazyWriter    01/10/2014    4 recensioni
Mia prima storia Malec. Parla di Magnus e Alec, le stesse persone che conosciamo, ma l'universo non è più quello creato dalla Clare.
E' una Malec!Sherlock (e intendo la serie tv), con Magnus come Sherlock ed Alec come John.
In pratica, è la rivisitazione della serie tv in versione Malec (con qualche piccolo - o grande - accorgimento per adattarlo alla Malec).
Può essere letta da chiunque, ovviamente.
Spero che vi piaccia.
Genere: Angst, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Magnus Bane
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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PREMESSA: Questa storia non ripercorrerà TUTTE le puntate di Sherlock, ma solo alcune (tra le mie preferite).



Storia dedicata a
_F i r e_
 
Uno studio in rosa





Capitolo 1
Alec fissò la donna seduta davanti a lui. Non era per niente felice del fatto che lei, e quella stanza, gli fossero quasi familiari. Non era una bella sensazione.
«Come procede il suo blog?» chiese la dottoressa. 
«Molto bene» mentì lui.
La donna sospirò. «Non ha ancora scritto nulla, vero?»
Alec si appoggiò all’indietro sulla poltrona in pelle nera reclinabile, tamburellando con le dita sul bracciolo e osservandola mentre scriveva su un block notes.  «Lei ha appena scritto ‘Ha ancora problemi di fiducia’.»
«E lei ha letto ciò che ho scritto al contrario» disse, smettendo di scrivere. «Ha capito quello che voglio dire?» Lui fece un mezzo sorriso, ma non rispose. «Alec… Lei è un soldato. Le ci vorrà un po’ per adattarsi alla vita da civile. E scrivere tutto ciò che le è successo in un blog la aiuterà, davvero.»
Alec scosse leggermente la testa. «A me non succede mai nulla» disse.
 
 
***
 
 
 
«Le indagini preliminari suggeriscono che si tratti di suicidio.» Il sergente Donovan fissò Will, seduto al suo fianco, che, con le mani intrecciate sopra il tavolo, faceva correre lo sguardo tra le telecamere e i giornalisti affollati intorno a loro.
Non poteva biasimarli – tre suicidi identici in pochi mesi non era cosa da poco – ma lo irritava comunque il modo in cui lo tartassavano di domande. Se avesse saputo qualcosa, l’avrebbe detto. Non che tutta quell’attenzione gli dispiacesse, affatto, ma era a dir poco stressante, in quella situazione.
«Possiamo confermare» continuò Donovan «che questo apparente suicidio abbia molte similarità con quello di Jeffrey Patterson  e James Phillimore. Alla luce di tutto ciò crediamo che questi incidenti siano collegati tra loro. Le indagini sono ancora in corso.» La donna si voltò leggermente verso Will. «Ma l’ispettore Herondale risponderà alle vostre domande.»
Un uomo si fece avanti, rivolgendosi all’uomo seduto davanti a lui. «Ispettore, questi  suicidi, come fanno ad essere collegati?»
«Beh» iniziò l’interpellato «hanno preso tutti lo stesso veleno. Sono stati trovati tutti in posti in cui non avevano ragione di trovarsi. Nessuno di loro mostra segni di…»
«Ma non esistono i suicidi seriali» lo interruppe l’uomo.
Will lo fissò con i penetranti occhi blu. «A quanto pare, si sbaglia.»
«Non c’è nessuna connessione tra queste tre persone?» chiese un altro.
«Ancora non l’abbiamo trovata ma… la stiamo cercando, deve sicuramente esserci.»
Un istante dopo che l’ispettore ebbe pronunciate queste parole, tutti i cellulari nella sala squillarono, ognuno, senza eccezione, aveva lo stesso messaggio.
“SBAGLIATO.”
«Per favore» Donovan ripose il proprio telefono e alzò la voce, cercando di riportare la calma generale. «Ignorate quegli SMS!»
«Dice solo ‘Sbagliato’!» fece il primo della folla che aveva parlato.
«Appunto, ignorateli» sbottò la donna. «Se non ci sono altre domande per l’ispettore Herondale, dichiaro chiusa la conferenza stampa.»
«Se sono veramente suicidi» ribatté il secondo giornalista «su cosa sta indagando?»
Will sospirò, senza più cercare di nascondere l’irritazione. «Come ho già detto, questi suicidi sono chiaramente collegati tra loro. È una situazione insolita ed i nostri migliori uomini stanno indagando.»
Di nuovo, lo squillo di tutti i telefoni della sala lo interruppe. Ognuno aveva lo stesso messaggio di prima.
“SBAGLIATO.”
«Di nuovo. Dice ‘sbagliato’» sbuffò qualcuno tra la folla.
«Ultima domanda!» Una donna con gli occhiali si sporse per farsi vedere dal fondo della stanza. «E’ possibile che in realtà questi siano omicidi? E, se così fosse, abbiamo a che fare con un serial killer?»
«So che vi piace scrivere di queste cose ma questi sembrano proprio suicidi.» Ormai Will era oltre il limite di sopportazione. «Noi li sappiamo distinguere.» Fece di nuovo scorrere lo sguardo tra la folla. «Il veleno è stato chiaramente auto ingerito.»
«Sì, ma se si tratta di omicidi, la gente come potrebbe fare per essere al sicuro?» La donna non sembrava voler mollare la propria teoria.
«Beh, basta che non si suicidi» disse Will, con tono acido e sarcastico, fulminandola con gli occhi. «Naturalmente, questo è un periodo in cui si è diffusa molta paura. Ma tutto ciò che ognuno di noi deve fare, è prendere le dovute precauzioni. Ognuno di noi è al sicuro tanto quanto vuole esserlo.»
Per la terza volta, i cellulari tutto attorno squillarono. Il messaggio, di nuovo, era “SBAGLIATO”.
Solo Will ne ricevette uno diverso.
 
“Sai dove trovarmi.
MB.”

 
Sospirò, rinfilando l’apparecchio in tasca e accingendosi ad alzarsi. «Grazie della vostra attenzione..»
Mentre uscivano, Donovan, i lunghi e ricci capelli marroni che sventolavano per la camminata rapida (e anche abbastanza incazzata, a parere di Will), sbottò: «Devi farlo smettere, ci sta facendo passare per idioti!».
La voce di Will era frustrata mentre si voltava verso di lei. «Se mi sai dire come ci riesce, lo fermerò.»
 
 
***
 
 
Un giovane uomo sui venticinque anni stava camminando per i vialetti acciottolati di Hyde Park, aiutandosi con un bastone. La camminata era leggermente rigida (doveva avere un’infermità alla gamba).  Aveva la pelle pallida, capelli nero inchiostro e occhi blu. Indossava jeans scuri e un maglione grigio.
Proseguiva, guardandosi intorno, mentre un gruppo di anatre si agitava su un ruscello vicino, perso tra i propri pensieri. Passò davanti a diverse panchine, tutte occupate, senza badare ai loro occupanti.
«Alec!» lo chiamò una voce. «Alec Lightwood!»  Si fermò all’improvviso, e si voltò, sorpreso. Quel tono gli era familiare, nonostante non lo sentisse da anni.
Quello che lo aveva chiamato, e che si stava alzando proprio in quel momento da una delle panchine, era un uomo che doveva avere pressappoco la sua stessa età. Capelli e occhi dorati, pelle leggermente ambrata. Era poco più basso di lui, e indossava un giubbotto nero in pelle sopra una camicia bianca elegante e jeans chiari. Sembrava sorpreso quanto Alec, mentre gli veniva incontro.
«Sono Jace. Jace Wayland. Andavamo all’Istituto insieme.»
Lo sguardo di Alec si illuminò. «Jace!» Gli strinse la mano. «Sì, scusa, non ti avevo visto.»
Jace gli diede una pacca sulle spalle. «Ho sentito che da qualche parte all’estero ti hanno sparato. Che è successo?» chiese, con lo sguardo sinceramente preoccupato.
«Mi hanno sparato» disse Alec con un mezzo sorriso, e quel pizzico di ironia che usava solo quando era nervoso.
Jace gli restituì il sorriso, e lo trascinò verso un bar vicino, dove si sedettero e ordinarono due caffè freddi.
Dopo qualche imbarazzante momento di silenzio, il moro chiese: «Vai ancora all’Istituto?».
«Ora ci insegno» rispose l’altro. «Ci sono giovani brillanti, proprio come eravamo noi una volta.»
«Dio, quanto li odio» mormorò Alec, e Jace ridacchiò.
«Tu invece?» chiese poi. «Resti in città finché non trovi qualcosa da fare?»
«Non mi posso permettere Londra con la pensione dell’Esercito» sospirò Alec.
«Non sopporteresti di essere altrove» ribatté Jace. «Questo non è l’Alexander Lightwood che conoscevo.»
«Io non sono più quell’Alexander Lightwood.» Evitò volutamente il suo sguardo, concentrandolo su un gruppo d’anatre che si era avvicinato schiamazzando.
«Tuo padre non ha potuto darti una mano?» gli chiese il biondo, incuriosito.
«No… Tanto non accadrà mai.» Le parole erano venate di tristezza. Non vedeva suo padre da anni, da quando era partito per la guerra. Il giorno della partenza, Robert Lightwood non era nemmeno venuto a salutare il figlio. D’altronde, Alec non ne era rimasto stupito. Ferito, sì, ma stupito? Quello no. Cosa ci si poteva aspettare, in fondo, da un padre che reputa il proprio figlio un errore perché gay?
«Non so… Perché non cerchi un coinquilino?» buttò lì Jace, interrompendo il corso dei suoi tristi pensieri.
«Andiamo, chi mi vorrebbe mai come coinquilino?» chiese Alec, con un mezzo sorriso sarcastico, tornando a fissare l’amico.
Jace rise, come se avesse appena sentito una barzelletta e il compagno lo fissò male. «Che c’è?» Il tono di Alec era a metà tra l’acido e l’incuriosito.
«Non sei il primo che me lo dice, oggi.» Ora Jace aveva smesso di ridere, e si era fatto pensieroso.
Si fissarono negli occhi, e dopo un attimo fu Alec a parlare: «Chi è stato, il primo?».





ANGOLO AUTRICE:
Sì, beh, se siete arrivati fino alla fine di 'sta schifezza, complimenti. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. E niente, non ho altro da dire :)
Aggiornerò una volta a settimana, ma, se mi riesce, anche prima.

Greta
  
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