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Autore: fuoritema    01/10/2014    4 recensioni
Esiste una spessa linea di demarcazione tra una ribelle e un pacificatore, come ripassata più e più volte con una penna. E quelle poche volte che qualcuno la oltrepassa, non faranno mai parte della “storia”, ma continueranno a vagare finché qualcuno non le raccoglierà, strappandole al vento.
***
«Non sai nulla della paura, peekeeper.»
Rimasero zitti fino a che il silenzio non fu insopportabile e le parole furono abbastanza per colmarlo.
«So quanto basta per capire che sei terrorizzata» rispose Noah, abbassandosi al suo livello. Quell’aria altezzosa che aveva assunto le faceva venire voglia di prenderlo a pugni. Così, forse, gli avrebbe tolto quel sorriso sardonico dalle labbra.
«Non lo sono. Che cazzo sei venuto a fare qui?» gli chiese Rebekah, sputandogli quella domanda in faccia come aveva fatto tante volte Ford con lei.
«Ehi… calma… Volevo solo vedere come stava una Volpe in cattività.» L’occhiata che gli lanciò la rossa fu più eloquente di qualsiasi maledizione. Non avrebbe dovuto. Non poteva. Provò a scagliarsi contro di lui, i pugni serrati in un vano tentativo di colpirlo, ma le catene la fermarono e un gemito di dolore uscì dalle sue labbra.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Canti di Rivolta'
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Note iniziali:
 
Comincio con lo spiegare che questa storia è direttamente collegata a “No one can catch the motherfucking Fox” ed è un po’ difficile che ci capiate qualcosa non avendola letta. Però, se volete proseguire la lettura nonostante tutto, vi metto una piccola sintesi della storia di Rebekah Martin, personaggio principale della long.
Anche conosciuta come "Volpe del distretto nove", è il capo di una banda di ribelli del distretto nove, che distruggono spesso e volentieri i granai dei grandi proprietari terrieri. Il problema sorge quando viene catturata mentre cerca di recuperare un accendino lasciato sulla scena del crimine(?). A questo punto viene condannata a partecipare ai 67esimi Hunger Games (perché Snow è un simpaticone e la vuole ammazzare a tutti i costi). Prima della Mietitura, però, si ritrova a passare due/tre settimane in cella, e la storia parla proprio di questo.
 

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(I)
You know nothing.
 
 
 


La presa ferrea del proprietario del granaio le stringeva le braccia, entrambe schiacciate contro il muro, proprio come il suo corpo. E lui continuava a gridare, gli occhi piccoli e acquosi che esultavano più della sua voce.
 «L’ho presa, l’ho presa.» Le sue parole rimbombavano nella testa di Rebekah, che continuava a scalciare per liberarsi. Nella foga, il berretto che portava sempre in testa era caduto per terra, e la polvere che si era alzata mentre cercava di liberarsi lo aveva avvolto, sporcandolo.
«Lasciami» biascicò, cercando con il piede, a tentoni, l’accendino che era andata a recuperare, prima di cadere vittima di un agguato. Gabriel gliel’aveva sempre detto di non tornare indietro, ma quel giorno aveva accantonato i suoi consigli, per riprendere l’unica cosa che le era rimasta di lui.
«Credi che lo farei, ragazzina?» le chiese e lei perse un respiro, continuando a guardarlo con aria di sfida. Rispose, ma Roth era troppo occupato ad osservare se i Pacificatori stessero arrivando per ascoltarla. Le fiamme continuavano a divampare, in una scala di rossi e gialli, sovrapposti l’uno sull’altro. E l’odore del grano che bruciava le entrò nelle narici, raschiandole la gola. Eppure Rebekah non tossì, abituata com’era a quell’odore che l’aveva accompagnata per tutta la sua crescita. Le tornarono in mente le parole di Gabriel, quelle che le aveva detto prima di lasciarla per sempre, perché quel lavoro finiva solo con la morte e lei aveva finito per dimenticarsene. Ora lo ricordava, sì, ma non si sentiva pronta per ciò che l’aspettava.
«Buonasera, signor Roth. Vedo che ha catturato una Volpe» commentò un Pacificatore, usando il suo soprannome per deriderla. Le diede un’occhiata, come per accertarsi che fosse lei il capo dei ribelli del nove, poi fece cenno all’uomo di lasciarla andare. Non avrebbe mai pensato che la sua vita sarebbe potuta dipendere da un uomo così.
«Ti immaginavo più alta e pure maschio » le confessò il giovane, stringendole il mento tra pollice e indice. I loro sguardi erano come incatenati, come in una gara a chi abbassava il suo per primo.
«E io immaginavo sputassi di meno, mentre parli.»
Uno schiaffo le fece voltare il capo dall’altra parte, ma il sorrisetto vincente che aveva increspato le labbra della Volpe non accennò ad andarsene. Per un secondo, i suoi occhi vagarono per terra, alla ricerca dell’accendino perduto, e lo sbirro lo interpretò come un segno di resa.
«Portatela via. La interrogherò io stesso.»
Detto questo, la spinse verso la sua rovina, mentre Roth chiedeva un compenso per la sua cattura.
 
 

«Hai fame, ragazzo?»
Lo sguardo di Volpe, rannicchiata sul freddo pavimento, vagò per la cella. C’era puzza, forse dovuta alla precedente persona che era stata ospitata lì, ma quello era il problema minore. A volte, stesa con la testa attaccata alla porta, riusciva a vedere persino una falce di luna, se strizzava gli occhi, riuscendo a vedere nei buchi tra le mattonelle. Era un’abitudine che aveva preso stando chiusa lì dentro, perché fino a poche settimane prima non aveva degnato il cielo notturno neppure di uno sguardo. Non sapeva i nomi delle stelle, eppure, vederle lì ferme, le dava una certa sicurezza: non sarebbero mai andate via, si diceva, erano stabili e la loro posizione non sarebbe mai cambiata. In realtà anche loro si muovevano, certo, ma Rebekah preferiva dimenticare le nozioni basiche che le aveva dato Gabriel, in quei momenti. Le chiudeva fuori dal cervello, per poi farle rientrare la mattina seguente.
I carcerieri dicevano che tutto quello che stava sopportando chiusa lì dentro sarebbe diventato la normalità e che avrebbe dimenticato la sua vita e l’aria che le accarezzava la pelle in superficie, il mormorio del grano quando c’era vento. Tutto. Vuoto totale.
Aveva anche imparato a non ascoltarli – non che prima prestasse orecchio a quello che dicevano – perché erano dei Pacificatori, e le loro parole contavano meno di nulla.
«Sei sordo? Ti ho chiesto se hai fame!»
La ragazza schiuse un occhio, alzandosi dalla posizione che aveva assunto per addormentarsi. Aveva il corpo piegato in modo inumano e le sue braccia penzolavano giù dalle sue ginocchia senza forze per tutte quelle che aveva sprecato a tentare di trovare una posizione comoda. Le manette tintinnavano, quando scuoteva le mani, quando si muoveva, quando cercava di alzarsi ricadendo sulla schiena. Allora il dolore le intorpidiva il corpo e si accasciava per terra, inerme ed indifesa.
«Ragazzo?» ripeté la voce fuori alla porta.
«Sono una ragazza» precisò lei, puntando lo sguardo sulla finestra che dava sul corridoio. I suoi occhi scrutarono quelli del giovane che aveva parlato, poi lui abbassò i suoi e un sorriso comparve sulle labbra di Rebekah.
«Non si direbbe.» Il cigolio del legno mentre la porta si apriva la fece svegliare definitivamente e il turbinio di pensieri che l’assaliva nello stato di dormiveglia tacque di colpo. Cercò di alzarsi in piedi, appoggiandosi su un mattone sporgente del muro con entrambe le mani. I suoi piedi cercarono automaticamente un appiglio e si ritrovò ad appoggiare la schiena – ancora dolorante per le frustate che le aveva dato Ford – al muro per rimanere alzata. Trasformò una smorfia di sofferenza in un colpo di tosse, prima di rispondere alla domanda.
«Per questi?» Rebekah prese in mano una ciocca di capelli, facendo oscillare le catene che le tenevano legati i polsi. Ormai erano sporchi, aggrovigliati – cosa strana per quanto fossero corti. Erano cresciuti, negli ultimi tempi: le solleticavano le orecchie e, quando scuoteva la testa, le ricadevano davanti agli occhi in mazzetti scomposti. Appena avrebbe potuto, se li sarebbe  tagliati, si promise. Solo da piccola li aveva portati così lunghi, prima che Gabriel li accorciasse con il suo coltello senza badare alle sue storie.
«Non solo. Sembri un maschio anche per tutto il resto.» La luce proveniente dal corridoio illuminò il ragazzo e Rebekah poté guardarlo con più attenzione, socchiudendo gli occhi. Era alto – di certo più di lei, ma non ci voleva molto per superarla – e aveva il viso squadrato, bianco come cera, e gli zigomi pronunciati. Se non fosse stato un Pacificatore, avrebbe potuto fare il morto di fame. Gli sarebbe riuscito bene. Eppure la sua forma fisica rovinava tutto: le gambe e braccia erano muscolose e il torace non lasciava intravedere le ossa, cosa comune agli affamati del Mercato Nero.
«Devi essere Rebekah. Beh… Io sono Noah.»
Patetico.
La ragazza lo fissò, lasciando ben intendere quel commento nella sua espressione, e aspettò una sua reazione, un piede già pronto per scappare dall’altro lato della cella. Non aveva paura, era solo previdente. Solo previdente. Se l’era già ripetuto troppe volte, in quella settimana: quando guardava il pavimento mentre Ford le portava il cibo – pane e acqua, tanto per cambiare – o quando giocherellava con le manette, cercando invano di liberarsi i polsi. Da quei tentativi, però, guadagnava solo nuove cicatrici, che si aggiungevano alla massa già presente sul suo corpo.
«Mossa sbagliata.» Noah indicò il suo piede con un dito e in un attimo fu dietro di lei. «Non ti picchierei mai, se è questo che temi.»
Alla sua risposta – una risata che non aveva neppure tentato di trattenere – il Pacificatore inarcò un sopracciglio, confuso.
«Se è questo che temi… – borbottò a mezza voce Rebekah, imitando il suo tono – Credi davvero che abbia paura di te
«Non in particolare, ma dopo il colloquio con Ford, beh» ritentò Noah, non senza mimare le virgolette. Sembrava una pecora, quando parlava così e forse lo era: una delle tante pecore che seguivano il Pastore Snow belando dalla contentezza.
«Dopo il colloquio con Ford?»
«Sì – Messer Pecora aveva riacquistato la sua sicurezza – Dopo le frustate che ti sei presa per averlo provocato.» I suoi occhi si posarono un attimo sulle ferite della recente fustigazione, prima di posarsi di nuovo in quelli della giovane, che lo fissava con aria di sfida. Ora capiva perché tutti avevano perso la pazienza con lei e picchiarla sembrava l’unico metodo per cavarle parole di bocca, prima che il capo rendesse noto che sarebbe stato un Tributo e gli ordinasse di non sfiorarla neppure con un fiore – come le femmine.
«Non sai nulla della paura, peekeeper[1]
Rimasero zitti fino a che il silenzio non fu insopportabile e le parole furono abbastanza per colmarlo.
«So quanto basta per capire che sei terrorizzata» rispose Noah, abbassandosi al suo livello. Fu umiliante: lui la superava di almeno trenta centimetri e quell’aria altezzosa che aveva assunto le faceva venire voglia di prenderlo a pugni. Così, forse, gli avrebbe tolto quel sorriso sardonico dalle labbra.
«Non lo sono. Che cazzo sei venuto a fare qui?» gli chiese Rebekah, sputandogli quella domanda in faccia come aveva fatto tante volte Ford con lei.
«Ehi… calma… Volevo solo vedere come stava una Volpe in cattività.» L’occhiata che gli lanciò la rossa fu più eloquente di qualsiasi maledizione. Non avrebbe dovuto. Non poteva. Provò a scagliarsi contro di lui, i pugni serrati in un vano tentativo di colpirlo, ma le catene la fermarono e un gemito di dolore uscì dalle sue labbra.
«Davvero credevi di potermi picchiare? Stupida, stupida ragazzina» ghignò Noah. E quel commento, sebbene non fosse fatto con tanta cattiveria – come suggerivano le occhiate che stava lanciando ai suoi polsi martoriati – le fece male. Non fuori: dentro, ed era peggio di qualsiasi tortura avrebbero potuto infliggerle.
«Fa’ vedere» le ordinò, indicandoli con lo sguardo. Stavolta non era ironico, sembrava sinceramente dispiaciuto dello scatto d’ira che aveva provocato. Il giovane allungò una mano verso le catene.
«Mai.» Lei la respinse con il piede.
«Devo far venire altri sbirri a tenerti ferma, o basto io?» Domanda retorica: non voleva un’umiliazione così grande, e lui lo sapeva benissimo. Non le diede neppure il tempo di aprire bocca, che le sue mani si posarono sulle manette – con una delicatezza strana per delle mani così grosse – e iniziarono ad allentarle.
Rebekah si morse le labbra per non urlare, smettendo solo quando sentì il sapore ferroso del sangue in bocca. Lo inghiottì come bile e alzò gli occhi verso Noah, in un vano tentativo di fargli vedere che non aveva bisogno del suo aiuto, ma un gemito strozzato rese tutto vano. Lui la osservò, scrutò l’espressione aggrottata e le pieghe sulla sua pelle, poi raccattò la boccetta del disinfettante da terra.
«Quante volte hai provato a liberarti?» chiese, sorridendo leggermente.
«Che cazzo t’importa? Fasciamele, prima che ti dia un pugno.»
«Con le mani messe in questo stato? O forse mi maledirai fino alla fine dei tuoi giorni» aggiunse. Ora stava ridendo, una risata aspra, di qualcuno che non avrebbe voluto farlo, e per Rebekah non fu difficile farlo inciampare e cadere. Dal corridoio arrivarono distinte delle esclamazioni di scherno, che fecero sorridere di nuovo la ragazza.
«Non hai i piedi ben saldi per terra, Messer Pecora.»
La mano del giovane Pacificatore scattò per colpirle la guancia destra, ma si fermò a mezz’aria, quasi fosse congelata. «Non posso toccare una donna.» Noah scosse la testa, raccattando la boccetta da terra
«Cos’è, hai paura che ti cadano le mani?» lo rimbeccò lei, mettendosi i capelli apposto alla bell’e meglio con le mani appena liberate.
«Non posso e basta.»
«Buono a sapersi, ah… E di’ ai tuoi colleghi peekeeper che sono ridicoli» disse, girando lo sguardo sulle sbarre da cui si vedevano distintamente delle persone raccolte attorno alla porta. «Perché tu un minimo di onore ce l’hai. Loro no.»
Le sembrò di vedere Ford che si rimboccava le maniche, urlando un “ma chi si crede di essere” troppo forte per non essere udito in tutti i sotterranei. Scommise con sé stessa che quel commento era arrivato persino al loro capo e che qualcuno lo avrebbe fermato prima di compiere delle sciocchezze – dato che lei era intoccabile per ordine di Snow. Non avrebbero mai potuto mandare ai Giochi un Tributo pesto e sanguinante. Lo Show avrebbe perso visualizzazioni!
«Aspetta che la abbia tra le mani!»
«Per farci cosa?» chiese una figura appena arrivata fuori, con un tono carezzevole che non prometteva nulla di buono. Rebekah si congratulò con la sua bravura nel prevedere certe cose, stendendo le gambe davanti a sé, e scambiò uno sguardo con Noah, che si era appena seduto accanto a lei. Non sembrava essersela presa: anzi… Sembrava divertito dallo scompiglio che quella ragazzina stava creando. Forse anche lui detestava Ford. Forse, come lei, detestava quel posto anche più del suo collega.
«Ho onore davvero, secondo te? O era solo un modo di farlo incazzare?» le sussurrò in un orecchio, abbassandosi nuovamente per essere alla sua altezza.
Rebekah gli fece un sorriso piccolo piccolo, di quelli che increspano le labbra in un attimo e scompaiono per paura di essere rubati  dalle altre persone.
«Un po’ tutti e due – disse, spingendolo via di colpo con una spallata – E ora smamma, che non ospito a tempo indeterminato peekepers nella mia umile dimora.»
 
 
[1] Gioco di parole intraducibile in italiano. In inglese Pacificatore si dice “Peacekeeper”, ma Rebekah – come gli altri ribelli e quelli del popolo del nove – ha mutato la parola in “Pee-keeper.” E pee significa pipì, quindi… Lascio a voi il resto dell’interpretazione.
 
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Angolino dell’Autrice:
 
Comincio con il ringraziare Alaska__, che mi ha gentilmente concesso di usare il suo Signor Roth e l’idea che un ragazzo possa essere mandato ai Giochi per mostrare agli altri cosa succede a ribellarsi al regime. Lei ne ha vari, di OC che sono andati nell’Arena per questo motivo.
L’idea per questa long mi è venuta tre settimane fa, mentre guardavo Spirit per l’ennesima volta e ho accostato Rebekah – come avevo già fatto varie volte – a quel cavallo, unendola al comandante Amelia de “Il Pianeta del Tesoro” e la Volpe di “Pinocchio”. L’idea era raccontare tutto quello che era successo durante il periodo compreso tra la cattura e la Mietitura, in particolare il rapporto instaurato con quel pive… Noah. Con Noah. Lui non è un Peekeaper come gli altri e mi sto divertendo molto a  scrivere su lui e ‘Bekah.
Riguardo alla lunghezza di questa storia, dovrebbe avere circa quattro capitoli in tutto (tre normali e un epilogo, ma potrebbero anche diventare di più) di circa 2000 parole. È il mio primo esperimento nell’Introspettiva e sto pensando di integrarlo nella mia originale – modificandolo un po’, ovviamente – se mai arriverò a questo punto. Oltre a cercare di proporlo al concorso di scrittura che fanno a scuola mia, pur essendo una storia strana e inusuale.
In questi quattro capitoli vorrei cercare di approfondire questi due personaggi. Non soltanto Volpe, ma anche questo Pacificatore proveniente dal due, che diventerà molto importante in seguito.
I titoli dei vari capitoli saranno solo ed esclusivamente citazioni, proprio come i fan di GoT avranno notato leggendo “You know nothing, Jon Snow”. Non nascondo che continuo a vedermi la faccia di Ygritte davanti, quando lo leggo, ma mi sembrava abbastanza adatto nel contesto. E nulla… Ho sparato parole alla cavolo, che tanto non interessano a nessuno :3
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e li invito a fare una capatina sulla mia pagina Facebook WIP(work in progress). Ora vado a farmi la doccia u-u
 
 
Talking Cricket
PS: Ringrazio con tutto il cuore PrincessLeila, che mi sta facendo da beta per questa mini-long <3
  
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