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Autore: Sylphs    02/10/2014    9 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 15
 
 
 
 
 
 
“Perché lo hai fatto?”
La voce di R era appena udibile, un mormorio fioco e soffuso che si perdeva nell’illimitato dedalo di corridoi sotterranei. Non si era mosso dalla sua posizione, era ancora immobile nel buio, con gli occhi azzurri spalancati e increduli.
Harriet, da parte sua, stringeva spasmodicamente al seno il vassoio con cui aveva colpito l’intruso – l’intruso, non il suo carceriere! – e ne fissava il corpo privo di sensi, per capacitarsi di averlo davvero ridotto così, di aver compiuto un gesto in cui si mescolavano follia e istinto. Non riusciva a far funzionare il cervello, ad ordinargli di elaborare una qualche spiegazione per il suo assurdo comportamento.
Forse non esisteva nemmeno, una spiegazione.
“Perché lo hai fatto?” insistette R, stavolta alzando quella sua voce demoniaca ma senza adottare un tono aggressivo. Pareva confuso e incapace di elaborare la situazione quanto lei, e la ragazza avrebbe riso, se tutto non fosse stato tanto assurdo e insensato.
“Devo essere sincera?” rispose, stupendosi dell’accento vagamente ironico scaturitole dalla gola.
Gli occhi luccicanti del suo carceriere la invitarono a continuare, fissandola avidamente dalle tenebre che seguitavano a celarle il suo aspetto. Lasciò cadere il vassoio, che si schiantò sul suolo di pietra scura con uno stridulo clangore metallico, e scrollò debolmente le spalle.
“Non ne ho la più pallida idea”.
Era… accaduto. Semplicemente, accaduto. E non esisteva discorso logico che potesse spiegare a lei o a lui le ragioni della sua azione. Si domandava cosa albergasse nel suo subconscio, cosa proliferasse sotto l’odio e la rabbia di superficie, e si rifiutava di rifletterci sopra, anche solo di pensarci, perché, era costretta ad ammetterlo, aveva troppa paura di ciò che avrebbe potuto trovare scavando a fondo, ed era così semplice, così comodo detestare il suo aguzzino per ciò che le stava facendo, mentre era così difficile accettare che forse, nel profondo del suo animo, qualcosa di lui doveva averla colpita.
Le venne incontro adagio, circumnavigando con indifferenza la sagoma accasciata dell’intruso e muovendosi nella sua direzione con quei passi agili e silenziosi che Harriet iniziava a riconoscere. Arretrò d’impulso, mettendosi sulla difensiva e rimpiangendo di aver fatto cadere il vassoio – adesso lo avrebbe volentieri usato contro di lui, contro Jesper, contro Christine e tutti coloro che si erano arrogati il diritto di comandarla e decidere del suo destino – ed R, notandolo, si fermò, le iridi chiarissime che non cessavano un attimo di scandagliarla con intensità e di carpire ogni più piccolo particolare di lei.
Era la prima volta che la osservava in quella maniera, finora non le aveva dedicato altro che occhiate sferzanti, colme d’ira o di freddezza.
“Tu mi odi?” le chiese piano.
Harriet, rigida, annuì; poco importava che una parte di lei giudicasse patetico quell’assenso alla luce degli ultimi avvenimenti, era troppo orgogliosa per fornire una risposta diversa.
Gli occhi azzurri si assottigliarono impercettibilmente: “E allora come mai?”
“Te l’ho detto” ribatté, fredda: “Non lo so”.
“Questo non è possibile!” scattò il suo carceriere con malcelato fastidio, e il sibilo irritato in cui si era tramutata la sua voce strappò un lieve sussulto alla ragazza: “Devi pur avere un motivo! Ed io…” indugiò con lo sguardo prima sul suo viso, poi sul suo corpo, e infine di nuovo sul viso: “Io lo conoscerò. Parla!”
“Cosa vuoi che ti dica, per l’amor di Dio?!” ringhiò Harriet, innervosita da quelle richieste perentorie e ossessive: “Per te tutto deve avere obbligatoriamente una ragione logica?!”
Le sembrò di cogliere una nota di stupore in R, di sorpresa per quella sua replica, e mai come allora desiderò rischiarare le ombre con cui l’uomo si faceva scudo, per studiare la sua fisionomia come lui studiava quella di lei e leggerne le espressioni. Aveva intuito che l’ostinazione del suo carceriere nel rimanere anonimo non era dettata solo dal timore che lei, vittima, potesse farsi un’immagine chiara del suo carnefice e in caso trasmetterla alle autorità, che c’erano altre implicazioni, ma provava una curiosità feroce. Forse, se quell’individuo avesse avuto un volto effettivo… le sarebbe apparso più reale.
Voi di solito le avete sempre, delle reazioni logiche” quello di R fu un sussurro.
Harriet inarcò le sopracciglia: “Noi?”
“Voi” confermò aridamente lui: “Vedete un mostro, e fuggite. Vedete la bellezza, anche addosso al peggiore tra i peccatori, e la idolatrate. Tutto è in bianco e in nero, tutto è inferno e paradiso, non ci sono sfumature. Anche… anche lei ha… quando… quando ha visto…” un digrignare di denti nel buio: “Tu devi avere un qualche fine, ragazza! Pensi che io non vi conosca? Che non conosca i cari Lawrence e tutti quelli come loro?” gradualmente, le sue erano divenute mezze grida: “Perché colpire lui e non me? Perché non scappare?”
Quello scoppio di agitazione spingeva Harriet a stare sul chi vive, ma non aveva paura di R, era una sensazione bizzarra e sconosciuta: da quando lo aveva salvato, improvvisamente la distanza che li separava, gli equilibri di potere che avevano imperversato fino a quel momento si erano distrutti e si sentiva alla sua pari, non lo temeva né aborriva più con la forza dei primi giorni.
"Se anche ti fornissi una spiegazione di qualche tipo" disse lentamente: "Questa situazione acquisterebbe un senso?"
Le rispose solamente il respiro raschiante e teso di R. Sospirò, stanca e spossata, e si passò una mano sulla fronte madida, cercando di mettere a tacere il ronzio insistente dei suoi pensieri: "Io sono qui. Tu sei qui. Tutto il mondo è lontano. Non ha senso. Ma forse bisognerebbe semplicemente accettarlo. Che non ha senso. Che magari non lo avrà mai. Lasciar entrare l'assurdo. Perchè no?" produsse una risata amara: "Che cos'ho da perdere?"
Una breve pausa. Poi il mormorio debole del suo carceriere: "Neppure io ho nulla da perdere".
Harriet guardò dentro le ombre che lo proteggevano: "Siamo qui, tutti e due, e nessuno di noi ha qualcosa da perdere".
Quel dialogo, quello scambiarsi frasi insensate nel buio, indovinando appena la sagoma dell'altro, aveva un che di irreale, di mistico. Ma, come aveva da poco affermato, forse doveva accettarlo e basta. Prenderne atto. E smetterla di cercare della normalità in una circostanza che di normale non aveva nulla.
R esitò appena una frazione di secondo prima di chiederle, con una sorta di avida curiosità: "Se non hai niente da perdere, perchè tanto impegno nel tentare di sopravvivere?"
Un cipiglio si dipinse sul volto pallido e sbattuto della ragazza, marcato da occhiaie talmente accentuate da deturparle le guance: "Potrei rivolgerti la stessa domanda. Qualsiasi cosa tu voglia da Jesper - e non mi interessa, sai? Le faccende dei Lawrence non sono affar mio - se non hai niente da perdere, perchè combatti a tal punto per ottenerla?"
"Perchè devono pagare il fio!" repentinamente, la voce di lui si era tramutata di nuovo in un sibilo di melodioso astio, di furia bestiale a stento trattenuta: "Tutti loro devono pagare il fio! Come è giusto che sia!"
Ad Harriet non sfuggì che stavolta non l'aveva inclusa in quell'indeterminato gruppo di individui che in certi momenti ipotizzava comprendesse solo i Lawrence, e in altri il mondo intero con le sue migliaia di abitanti belli e anonimi. Ma sul suo animo era scesa una strana e torbida calma, e si limitò ad assimilare la novità senza particolari reazioni.
"Io" spiegò piano: "Sopravvivo perchè arrendersi significherebbe darla vinta a mia madre e a tutti quelli che si sono presi il diritto di decidere del mio destino e chiudermi a chiave in una stanza buia, senza porte nè finestre, confabulando dietro le pareti e disegnando il mio futuro, un futuro che non desidero. Sopravvivo perchè penso che morire, svanire, li soddisferebbe. Da un certo punto di vista" alzò lo sguardo, quasi stupita, e incontrò quello bizzarramente intento e rapito del suo carceriere: "Sono come te. Mi hanno fatto troppo male perchè io possa semplicemente togliermi di mezzo".
La facilità con cui si era confidata la coglieva di sorpresa. Non era mai entrata in confidenza con le persone al punto da condividere con loro le parti più intime della sua anima, aveva sempre preferito calarsi nel ruolo monotono ma rassicurante dell'ascoltatrice, dando consigli senza scoprirsi in alcun modo, non sapeva se per autodifesa o per naturale riserbo, eppure era stato un mostro, un criminale a tirarle fuori quelle verità. Ricordava suo padre, quella notte in cui era entrato da lei farneticando assurdità, e avrebbe voluto disperatamente buttare fuori il boccone repellente e appuntito che quel ricordo era, ma si costrinse a darsi un freno, a non affidare quel segreto, quello sporco ad un uomo che avrebbe dovuto odiare.
"Ami Jesper?"
Non si aspettava quella domanda - pronunciata peraltro con una specie di tensione - , tuttavia non si mostrò impreparata. L'oscurità, impedendole di guardare in viso R e ammantando ogni cosa, la faceva sentire improvvisamente protetta, sentiva di poter essere sincera proprio perchè immersa nelle tenebre.
"No" ammise con semplicità: "Non l'ho mai amato. I primi tempi cercavo disperatamente di amarlo, nella speranza di poter avere un matrimonio felice, ma c'era - c'è - qualcosa in lui che mi disgusta. Come se le nostre cariche si respingessero a vicenda".
"Lui è bello" il tono di R era atono e quasi cantilenante: "Non è uno sgorbio. Come può disgustarti la bellezza? Dovrebbe essere uno sgorbio a disgustarti".
"Ma Jesper è uno sgorbio. Lo è dentro".
Gli occhi azzurri la sferzarono, lo sguardo di colpo vulnerabile: "Ti sbagli".
Harriet però non cedette; non più: "Non mi sbaglio".
Quasi dovesse difendersi da qualcosa, lui le disse con voce astiosa, come se la detestasse: "Lui però ti vuole".
Un sorriso sarcastico andò disegnandosi sulle labbra della giovane: "Davvero?"
"Non fare così" ringhiò R: "Io non mento. Non mento mai. Non sono come voialtri, che dite una cosa e poi ne fate un'altra, che convincete qualcuno di potersi fidare, che gli parlate notte dopo notte e ricostituite pezzo dopo pezzo il suo cuore infranto, solo per il gusto di distruggerlo una seconda volta e molto peggio di prima. Non mento, e lo so, lo so bene che Jesper ti vuole. Tu puoi anche non volere lui, ma lui vuole te".
Le pareva quasi un'accusa.
"E questo non dovrebbe rallegrarti?" era macabremente ironica: "Se" mimò le virgolette con le dita: "Mi vuole, allora pagherà il riscatto".
Lui la ignorò: "Non lo capisco, perchè ti voglia. Tu... non vai bene per lui. Sei troppo diversa. Sei troppo viva. E lui ha bisogno di qualcosa di morto. Qualcosa che lo accarezzi nel suo ego, che se ne stia in un angolo, senza dir nulla. Com'era mia madre. Mia madre è sempre stata una donna morta. E mio padre..." la fissò: "Ma tu non lo sei. Tu sei viva".
Per quanto contorti fossero i suoi discorsi, Harriet iniziava a vederci un senso. Anzi, li comprendeva addirittura. Nell'atmosfera c'era qualcosa di indefinibile, di magico quasi, e si sentiva sospesa, intenta, rapita. Forse anche R si sentiva così.
"E tu?" gli chiese con genuina curiosità: "Tu sei vivo o morto?"
Le arrivò un'occhiata vagamente sospettosa, diffidente, come se egli si stesse domandando se era realmente interessata o se lo stava ingannando, prendendo in giro come doveva essere accaduto in passato. Alla fine, prevalse la prima ipotesi.
"Io?" una risata sguaiata: "Ho cercato di essere vivo per tutta la mia esistenza, ma il mondo mi vuole morto. E non morto con una pallottola nel cervello o una lama nel cuore. Morto nell'animo, così che possa studiarmi, così che possa catalogarmi e non avere più paura di me" un odio antico gli vibrava nella voce: "Questa è la storia di tutti i mostri. Esaminali, martoriali, trovagli un nome e una definizione e li avrai addomesticati. Prima la torre, poi il circo, e addirittura Heather Ville... gabbie per tenermi prigioniero, e mio padre, gli zingari, Irene... dottori ansiosi di sezionarmi e poi buttarmi via. Tu probabilmente non capisci quello che dico. Ed è ovvio. Tu sei bella, tu porti la luce dentro di te. Ma..." un tremito, spezzato, e per un attimo Harriet pensò con immenso stupore che lui fosse sull'orlo delle lacrime: "Non chiedevo molto. Un sorriso, una carezza, una frase gentile. Avevo nel petto un amore talmente grande che stenteresti a immaginarlo. E bastava un cenno perchè... ma neppure quello mi è stato concesso. E allora ho tramutato l'amore in odio. Perchè così mi sento vivo".
Una pausa, lunga e assordante, durante la quale il buio parve solidificarsi in una cappa pesantissima, che li schiacciava entrambi. Poi un sussurro proveniente da R.
"Non avrei dovuto dirti queste cose".
Harriet non riusciva a definire ciò che sentiva. Erano emozioni troppo conflittuali e troppo sconosciute perchè potesse denominarle. Sapeva solo che, in qualche modo assurdo, non nutriva più odio nei suoi confronti. Il rancore, l'ira erano rimasti, ma si mescolavano ad un senso di pietà, di comprensione quasi. Dopotutto, erano simili.
"Come puoi saperlo?" bisbigliò: "Come puoi sapere che in te non c'è più nulla di quell'amore?"
Le iridi azzurre avevano un'intensità tale da farle mancare il respiro: "Non immagini neppure di cosa sono capace".
Lei non tremò: "Credo... che tu abbia già ucciso".
Un minuscolo fremito nelle pupille di R.
"Ma non mi scandalizzo".
Lui trattenne bruscamente il respiro: "Non ti scandalizzi?"
"No" lo disse con semplicità: "Esistono omicidi e omicidi, e tante possibili ragioni. Non conoscendole, chi sono io per giudicare?"
Avrebbe desiderato guardare R in faccia, perchè la tensione che indovinava appena nella sua figura le suggeriva che doveva aver assunto un'espressione particolare a quella sua ultima dichiarazione.
"Se mi vedessi" fece infine lui, lentamente, con macabro divertimento: "Mi giudicheresti".
"Che cos'ha che non va il tuo volto?"
"Cosa?"
"Non sono una stupida" aggrottò la fronte: "Ho capito che ti vergogni del tuo aspetto. Ma è davvero tanto brutto?"
R si allontanò di qualche passo, lasciando che ulteriori tenebre si addensassero nell'aria che li separava: "Avevi una candela. Potevi prenderla, avanzare e vedermi. Non l'hai fatto. Perchè?"
Lei scrollò le spalle: "Avevo priorità più importanti".
"Non ti importa del mio volto?" lui lo disse con una sorta di assoluto, sgomento stupore: "Non ti importa?"
Harriet incominciava a sentirsi leggermente divertita: "Forse è il tuo aspetto che devo temere? Può, che so, aggredirmi o provocarmi danni?"
"No..."
"Allora non vedo perchè dovrei farmene un problema. Ne ho già fin troppi".
Lui scosse freneticamente la testa: "Non può non essere un problema".
Quella sua ostinazione la colpiva: "Perchè no?"
Ricomparvero i modi forsennati, il fare esagitato: "La mia intera vita ha ruotato intorno al fatto che l'aspetto era la chiave di tutto. Che c'erano i demoni e gli angeli e che i demoni, gli sgorbi non avevano diritto al paradiso. Tu non puoi dire sul serio!"
"E allora lascia che ti veda!" lo esclamò con impeto, non con sfida, e mosse un passo in avanti, presa dal repentino, fortissimo desiderio di dimostrargli di avere ragione, di strappargli le sue convinzioni e fargli vedere che il mondo non era bianco e nero, demoni e angeli, ma una tavolozza di colori sfumati e che bastava cercare, uscire dalla propria prigione, reale e psicologica che fosse, per trovarle: "Lascia che guardi!"
R indietreggiò, sembrava quasi voler scappare da lei, dall'onestà delle sue parole: "No, no" mormorò, terrorizzato, agitato, folle: "Non di nuovo. Non posso sopportarlo. Non di nuovo. Giuro su Dio, se ti avvicini solo poco di più..."
Improvvisamente, mentre gli andava incontro con una mano tesa come a blandirlo, Harriet vide, con la coda dell'occhio, un fugace movimento frusciare dalle parti in cui giaceva il corpo privo di sensi dell'intruso. Le si ghiacciò il sangue nelle vene, un unico pensiero strillato a lettere cubitali nel cervello - lo abbiamo dimenticato, eravamo così presi da dimenticarlo, merda! - e l'uomo nel frattempo, ancora sdraiato sui lastroni di pietra, aveva afferrato la pistola e gliela puntava contro, un foro nero diretto al suo addome che sembrava quasi inghiottirla.
Anche R dovette accorgersi, perchè levò un grido terribile: "No!"
Poi il fragore del colpo. E l'odore denso della polvere da sparo a saturare l'aria.
La ragazza si tuffò di lato, uno scatto istintivo. Non abbastanza rapidamente, però. Un dolore acuto, lancinante, simile al morso di zanne acuminate le trafisse il fianco destro e si lasciò sfuggire un urlo soffocato, ripiegandosi su se stessa e sussultando per gli spasmi.
Era stata colpita. Aveva temuto per tutto quel tempo che R le facesse del male, e alla fine era stato un altro a ferirla. Premette una mano nel punto in cui la carne strillava di dolore e poi sollevò le dita che stillavano sangue fresco, fissandole con attonita fascinazione.
Il mio sangue. Morirò.
"Maledetto!"
L'esclamazione del suo carceriere, colma di una collera sanguinosa e mortale, di un odio alimentato da anni di sofferenze, la distolse per un attimo dalle fitte che scaturivano dalla ferita, portandola ad alzare il capo appena appena: R era scattato in avanti come una serpe, gli occhi azzurri più baluginanti e ferali che mai, e con un piede avvolto in uno stivale logoro aveva calpestato la mano con cui l'intruso impugnava la pistola tanto violentemente da spezzargli tre dita e da fargli lasciare la presa sull'arma. L'uomo lanciò un grido di pura sofferenza mentre l'altro, incombendo su di lui, ansimava di una furia primordiale, tanto intensa da provocare in Harriet un moto di profondo sbalordimento. Lo aveva visto spesso fuori di sè in quei giorni di prigionia, ma mai aveva mostrato una tale, incommensurabile ira.
"Le hai fatto del male!" ringhiò astiosamente all'intruso boccheggiante: "Le hai fatto del male, lurido ratto di fogna, le hai fatto del male! Lei è mia!"
Quello farfugliò qualcosa di incomprensibile, forse una preghiera, forse un insulto, che in ogni caso non placò minimamente R. Era cieco, bestiale, ingovernabile.
"Lei è mia!" ripeté, ogni parola echeggiante nel sotterraneo umido: "Mia, miserabile scarto umano, mia! mia! mia! Per quindici giorni, e solo io posso farle del male! E finché non prendo questa decisione è sotto la mia protezione, e tu l'hai ferita, schifoso, inetto omuncolo! L'hai ferita, l'hai fatta soffrire!"
Harriet sussultò quando lo vide estrarre con un movimento dalla grazia fatale un coltello dalle pieghe del mantello scuro, un corto pugnale dall'elsa decorata di intarsi in argento e la lama arrugginita in alcuni punti, che mandò un debole scintillio nell'oscurità. Si chinò sull'intruso che ancora piagnucolava per le dita rotte e lo afferrò spietatamente per i capelli: "Nessuno può toccarla all'infuori di me" sibilò con dissennatezza: "Nessuno!"
"Fermati..." provò a protestare debolmente la ragazza, ma il fianco doleva troppo e aveva il cervello annebbiato, incapace di elaborare pensieri compiuti. Tuttavia, non chiuse gli occhi quando il coltello calò sul corpo della vittima, quando uno schizzo di sangue macchiò la pietra del pavimento, non era mai rifuggita davanti agli orrori e assistette, mezza accasciata a terra, ai colpi che R menava perdutamente all'intruso. Quello emise solo un uggiolio da cane, tentò di sollevare le mani a pararsi prima di cadere sotto la pioggia di coltellate. C'era del metodo nel modo in cui il suo carceriere colpiva i punti fatali.
Sì. Ha già ucciso in passato.
Era cattivo. O meglio, il mondo lo aveva reso tale. Ma si accorse di provare un orrore minore di quanto si sarebbe aspettata dinnanzi alla dimostrazione della sua crudeltà. Stava impazzendo anche lei? O semplicemente iniziava a persuadersi che quell'uomo senza volto fosse il risultato di atrocità commesse da altri? Stava troppo male per riflettere.
Dopo un tempo infinito che in realtà erano pochi secondi, R gettò a terra il suo pugnale e respirò affannosamente, ansimò, tremando e sudando nel buio, col sangue dell'intruso che scorreva in una pozza ai suoi piedi. Aveva messo a nudo le sue sofferenze solo poco prima e adesso aveva ucciso qualcuno con furore da bestia.
Non è solo vittima, e neppure solo carnefice.
Harriet si trascinò faticosamente fino ad una parete e vi appoggiò il dorso, seguitando a premersi una mano sul fianco. Un gemito le scappò dalle labbra, ma bastò quel suono fievole a riscuotere R. Si voltò di scatto, gli occhi azzurri che la trovavano in un istante - occhi in cui all'odio si mescolava la preoccupazione - e le volò incontro, ancora ansimante.
"Dove ti ha ferita? Non doveva farlo. Non doveva. Voleva ucciderti, quello schifoso, ucciderti" nella foga si mangiava le parole, mentre cadeva in ginocchio accanto a lei: "Cosa credeva di poter fare... tu sei mia... credeva di poterti portare via... ma ha avuto quello che si meritava... la morte è stata troppo rapida per lui..."
La ragazza serrò le labbra. Ancora non provava orrore, persino a fronte di quei discorsi. E neppure scansava le mani gelide di R, che le allontanavano i capelli dal viso, la tastavano in cerca della lesione, la disordinavano e poi la ricomponevano in preda all'agitazione totale.
"Dove ti ha ferita?" incalzò: "Rispondi!"
"Al fianco..." si costrinse a staccare le dita dai fori di entrata e uscita - grazie a Dio il proiettile non era rimasto dentro la carne - ed udì il ringhio di disappunto e di rabbia che lui emise contemplando la ferita sanguinante. Le sue mani indugiarono ad un soffio dalla pelle lesa, ma senza toccarla direttamente, quasi avessero timore di accrescere la sua sofferenza.
"Non è grave" disse, anche se il respiro affannato e la folle ansia lo tradivano: "In camera da letto ho tutto ciò che serve a curarti. Non è grave" ripeté, come a convincere anche se stesso: "Avevo promesso che saresti stata al sicuro presso di me in questi quindici giorni. Che mi sarei preso cura di te. Ma posso rimediare. Lascia solo che..." ebbe una leggera esitazione - era intimidito? - prima di aggiungere piano: "...ti prenda in braccio".
Era strano, Harriet non aveva più la minima paura di lui. E si sentiva troppo intorpidita e dolorante per fare storie. Gli si strinse al collo, fingendo di non notare il piccolo sussulto che lo scosse, e lui fu rapido a passarle un braccio sotto le ginocchia e un altro intorno alle spalle, sollevandola senza sforzo. Fece una piccola smorfia, appoggiando il capo contro il torace del suo carceriere.
"Tranquilla" nella voce di lui c'era un improvviso riguardo: "Metterò tutto a posto. Tu sei la mia ospite. Cerca di resistere".
"Perchè" mormorò debolmente, combattendo contro la nausea che la colse quando R prese a muoversi con agilità nel dedalo di corridoi, trasportandola: "Sei così fissato con il fatto che in quanto tua ospite devi accudirmi?"
Lui rispose con naturalezza: "E' così che si fa".
"Non più..." la ragazza aveva la testa pesante, alle fitte acute s'era sostituita una forte sonnolenza, dovuta forse all'emorragia: "Questo è un concetto... davvero molto antico, R".
"Antico?"
"Sì... i padroni di casa usavano comportarsi così una volta..."
Il tono di lui esprimeva una forma di stizza: "I libri però ne accennano spesso".
Un pallido sorriso sbocciò sulle labbra di Harriet: "E quanto vecchi sono questi libri?"
Un silenzio eloquente.
"Dovresti..." le braccia di R erano comode, e d'impulso vi si rannicchiò meglio: "...uscire di più. Vedere il mondo... ne rimarresti sorpreso".
Le sembrava di affondare in una densa, pastosa melassa. Aveva le membra grevi, molli, i pensieri sconclusionati. Pensò: Ho rischiato di annegare solo ieri, e adesso un uomo mi ha sparato. R lo ha ucciso. Ed io sono stretta a lui. E scoppiò a ridere, con un che di perduto e di pazzo, buttando indietro la testa. No, la normalità era andata. Andata per sempre, forse.
"Perchè ridi?" nella voce di R era ricomparsa quell'avida curiosità.
Harriet si sforzò di raccogliere le idee per essere in grado di rispondergli: "Perchè... niente ha più senso. Ti ho salvato la vita... hai ammazzato quell'uomo davanti a me... e non riesco ad essere spaventata".
Lui tacque. C'erano solo le sue braccia, che l'avvolgevano e la conducevano nelle ombre, e i suoi passi silenziosi sui lastroni di pietra. La ragazza aveva l'orecchio appoggiato al suo petto, e udiva il battito poderoso e regolare del suo cuore. Un cuore che voleva vivere. Un cuore che lottava.
"Credo che tu..." biascicò incoerentemente: "Sia una persona viva. Non morta. Viva per davvero. Molto più... di Jesper".
Forse fu solo una sua impressione - del resto, era intontita, forse morente - ma le parve che R la stringesse impercettibilmente di più. Il sangue, nel frattempo, le aveva inzuppato buona parte dell'abito rosso e qualche goccia era caduta a terra, a marcare il loro cammino, come i sassolini e le mollichine di pane di Hansel. Qualcuno, arrivando ai sotterranei, avrebbe scorto la scia scarlatta? L'avrebbe seguita? Non le importava più. Tutto le appariva ininfluente, al momento.
Il suo carceriere la portò nella camera da letto, con il divano foderato di velluto e la porticina che conduceva al bagno, dove tutto aveva avuto inizio, e la distese delicatamente sul materasso, che la accolse come la più pura delle beatitudini. Si rannicchiò sotto le coperte, i brividi di freddo che la squassavano, e lui andò ad inginocchiarsi sulla sponda del letto con gli occhi azzurri fissi sul suo viso.
"Farà un po' male" bisbigliò ragguardevole: "Solo un po'".
Per tutta risposta, lei allungò una mano e gli toccò il viso, come se qualcuno l'avesse posseduta, obbligandola a compiere quel gesto. Lo sentì irrigidirsi da capo a piedi, farsi statua di sale sotto le sue dita, ma non ci badò, e le lasciò scorrere sulla pelle piagata e ossuta, tra i capelli incolti, fino al mento appuntito. Non era come vederlo con gli occhi - forse non sarebbe mai accaduto, non avrebbe mai posato lo sguardo su di lui - ma i suoi polpastrelli registravano sporgenze, curve, cicatrici che costellavano quella faccia testimoniando ognuna un peccato diverso.
Dopo aver conservato un'immobilità assoluta, R si ritrasse di scatto, tornò a proteggersi col buio e un'eco della sua minacciosità ricomparve, come una spina nel mezzo di un bouquet: "Cosa stai facendo?"
Ad Harriet sembrò vulnerabile, però. Come un bicchiere di vetro sul punto di spezzarsi. E le venne in mente che, anche se era alla sua mercé, le sarebbe bastato un gesto a mandarlo in frantumi. Quell'uomo era così terribilmente... fragile.
Non attese una risposta da lei. Forse non voleva conoscerla. Si limitò a spingerle contro le labbra quella che aveva l'aria e la consistenza d'essere una pasticca: "Prendi questa" le suggerì, ancora un po' teso: "Così non sentirai dolore".
Mai accettare cibo o bevande.
Un monito antico come il tempo. Ma Harriet era troppo stanca e confusa per dargli ascolto e ubbidì, accettando consapevolmente di affidarsi alle mani del suo carceriere. Tuffandosi nella sua anormalità.
E non aveva idea di come sarebbe andata a finire.
 
Angolo autrice: Hola! Eccomi tornata :') questo è un capitolo non molto lungo, totalmente incentrato sui Rarriet. Volevo... lasciargli un po' di spazio solo per loro. In realtà, confesso che non mi aspettavo si prendessero così tanto! Quando scrivo i personaggi fanno un po' le cose per conto loro, e in questo caso è come se un tappo fosse saltato e questi due finalmente si fossero liberati... devo dirvi che da adesso in poi le cose si faranno sempre più serie ;) in realtà come al solito ho una quantità di dubbi abnorme, spero solo di non aver combinato un disastro. Comunque, Harriet mi piace molto più di Irene, non soltanto come persona, anche come impatto su Raphael: se la prima era "il primo amore", fondamentalmente un'idealizzazione totale da parte di lui che va a cozzare dolorosamente con la realtà, la seconda rappresenta invece un sentimento più maturo e graduale, una comprensione e un mettersi a nudo intimi. Nel prossimo capitolo, rincontreremo Erin e Berg e avremo un'altra scena Rarriet :) A proposito: come pensate che Harriet scoprirà l'aspetto di Raphael? Io ho già pianificato tutto (muahah XD) ma mi interessano le vostre ipotesi!
E insomma, spero tantissimo che mi farete sapere cosa pensate, intanto un bacione a tutti quanti <3 

 
  
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