Film > Coraline e la Porta Magica
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Autore: AllHailTheGlowCloud    02/10/2014    0 recensioni
Crossover tra "Coraline e la porta magica" (in parte il film e in parte il libro) e il podcast "Welcome to Night Vale", ovvero i personaggi e vicende di WtNV riadattati e ambientati nel mondo di Coraline.
Dal testo: "«Oh, fantastico!» esclamò sarcasticamente, «un loop geografico!» per fortuna aveva già imparato a scuola come ci si deve comportare: mai evitare il centro del loop. Bisogna camminare dritti verso di esso e così facendo ci si troverà alla sua destra o alla sua sinistra.
Sì, ma non era quello che aveva fatto camminando nel corridoio? Aveva camminato dritto ed era finito di nuovo nel soggiorno! Si stava domandando come fare ad uscirne illeso, con una certa calma, sorprendentemente, quando sentì una voce chiamarlo dalla cucina. Sembrava la voce di sua madre."
Accenni di Cecilos (Cecil/Carlos).
Genere: Horror, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Carlos scoprì quella porta poco dopo aver traslocato con la famiglia.

La casa era molto vecchia, con una soffitta, una cantina, e un giardino pieno di erbacce e di grossi e vecchi alberi.

Date le sue notevoli dimensioni, però, non era occupata esclusivamente dalla famiglia di Carlos. I suoi ne possedevano solo una parte.

Nel resto dell’edificio abitavano altre persone.

Nell’appartamento al pian terreno, sotto quello di Carlos, viveva l’anziana signora Josie. La donna viveva in compagnia di creature – a detta sua – che chiamava angeli e che –sempre secondo lei – andavano tutte sotto il nome di Erika. In passato Josie aveva fatto parte di una squadra di bowling ed era stata nominata campionessa per diverse volte di seguito – come lei stessa aveva rivelato a Carlos non appena si erano conosciuti.

Nell’appartamento sopra quello di Carlos, viveva uno strano uomo mezzo calvo, un barbiere in pensione, che sosteneva di essere capace di acconciare i capelli di chiunque, ma la realtà era che non era neanche capace di distinguere tra persone e piante, o per lo meno si confondeva spesso, e i suoi ultimi clienti, diciamo negli ultimi vent’anni, erano stati per lo più cactus.

«Un giorno, piccolo Carlo, quando lo riterremo opportuno, ti taglierò i capelli. Mi domanderai perché non posso tagliarteli adesso… – in realtà Carlos non aveva chiesto niente, aveva solo ribadito che il suo nome finisce con la “s”: Carlosss – beh, non è ancora il caso. Voglio sperimentare dei nuovi tagli prima, ma non riesco a trovare persone disposte a fare da cavie. Eppure le ultime con cui ho lavorato si sono dette più che soddisfatte… Vedrai, sarà fantastico!»

Carlos era più che convinto che questi fantomatici clienti non fossero altro che malcapitati arbusti, dato che da quel poco che era riuscito a sbirciare nell’appartamento c’erano rami tagliuzzati su tutto il pavimento, inoltre la stanza emanava un tale odore di piante rancide, così acre e nauseabondo, che non aveva avrebbe avuto il coraggio di mettere un piede all’interno neanche volendo.

Esplorò anche nei dintorni, in cerca di qualcosa di interessante per poter fare un po’ di scienza – il suo sogno era diventare uno scienziato, dopo tutto. Scoprì che in fondo al giardino c’era un’ampia foresta che stranamente sembrava sussurrare quando ci si passava vicino. Non era sicuro di cosa dicesse, né che parlasse affatto, ma ebbe l’impressione che quei sussurri fossero dei complimenti e si sentì inspiegabilmente edificato nel riceverli. C’era anche un parco per cani, a vederlo si sarebbe detto che nessuno ci entrasse da una vita, anche se Carlos era abbastanza sicuro di aver intravisto delle figure incappucciate aggirarsi al suo interno. Comunque avevano un’aria poco rassicurante e per il momento decise di non indagare perché doveva finire il suo giro di ricognizione. C’era anche un cerchio di eliotropio, rocce di un verde scuro che sotto la luce risplendevano di particolari riflessi rossi che le facevano sembrare coperte di sangue. Non aveva idea di come fossero finite lì o di chi avesse fatto il lavoro di metterle in cerchio, ma eccole lì. In fine, c’era una casa che non esisteva. Avrebbe avuto senso che esistesse, dato che era situata tra altre due case perfettamente identiche, ma non esisteva. La signora Josie l’aveva avvertito di stare alla larga perché poteva essere pericoloso, ma non aveva resistito ed era andato subito a cercarla. Del resto doveva sapere dov’era, se voleva starle lontano, giusto? Ebbene, eppure sembrava una casa normalissima, a parte per il fatto che sbirciando dentro attraverso la finestra si vedeva una casa completamente vuota, con dentro solo uno strano uomo che fissava una figura in cornice, mentre se si entrava dalla porta – Carlos aveva bussato e gli era stato aperto – la casa appariva abitata e ad aprire veniva una simpatica signora.

Era anche stato a caccia di animali e aveva trovato diversi cani selvatici dall’aspetto spaventoso, che però non sembravano aver voglia di fare alcun danno, se non disegnare qualche graffito qua e là con delle bombolette spray. C’era anche un gatto, un po’ schivo, che lo seguiva e lo osservava da lontano, ma non si lasciava toccare per cui era impossibile giocarci.

Dopo qualche settimana aveva esplorato tutto il possibile e forse anche un po’ dell’impossibile e avrebbe cominciato con l’improbabile se non fosse che il tempo decise che quel giorno non se ne parlava proprio di uscire di casa: pioveva a dirotto.

La madre di Carlos era impegnata nei suoi ultimi esperimenti e se ne stava tutto il giorno a fare calcoli e a far esplodere cose, per cui non aveva tempo per dare retta a Carlos che la assillava.

«Se ti annoi trova qualcosa da fare in casa. Ad esempio svuotare gli scatoloni. Viviamo qui da tre settimane ormai e la tua cameretta è ancora un cantiere!» fu l’unica cosa che gli disse prima di smettere nuovamente di ascoltarlo.

Stanco di chiedere e richiedere il permesso di uscire, si arrese e provò a rivolgersi al padre. Non ottenne risposte molto differenti, ma almeno gli fece una proposta che Carlos ritenne più costruttiva: «Un bravo scienziato deve innanzitutto raccogliere i dati. Perciò fai un giro della casa e conta tutte le porte, tutte le finestre, e tutte le cose che razionalmente non dovrebbero esistere ma esistono lo stesso.»

Eccitato, Carlos afferrò un blocchetto e una penna e corse per il corridoio. Dopo poco tempo aveva già raccolto tutte le informazioni e le aveva appuntate sul blocchetto.

Una delle porte che aveva trovato, però, aveva attirato la sua attenzione, perché non era certo a quale lista appartenesse: quella delle porte o quella degli oggetti che non dovrebbero esistere razionalmente ma esistono lo stesso. Provò ad aprirla, ma scoprì che era chiusa, quindi chiese la chiave a sua madre e tornò in soggiorno per aprirla. Con sua sorpresa, la porta si apriva sul vuoto. Il vuoto più totale. Non luce, non oscurità, semplicemente vuoto. Un po’ deluso la richiuse, ma senza inchiavarla, e sbuffò tra sé scribacchiando sul blocchetto.

 

Cose che non dovrebbero esistere razionalmente eppure esistono lo stesso: 13

 

Quella sera andò a letto presto, ma il suo sonno fu disturbato da strani fruscii. Quando aprì gli occhi, gli parve di vedere un’ombra sgusciare via nel buio e decise di seguirla. La seguì fino in soggiorno, dove l’ombra sparì nell’angolo più buio della stanza, quello dove c’era la porta. Incuriosito, Carlos aprì la porta, ma non vide altro che il vuoto. Pensò di essersi sognato tutto, la richiuse e tornò nel suo letto, dove si addormentò subito.

Sognò di ombre che correvano nel buio, con le loro migliaia di zampine e di occhi e di zanne.

 

Il giorno dopo il tempo era migliorato – per così dire, in realtà c’era molta nebbia, ma Carlos decise di uscire lo stesso.

Vagò nel giardino, usando un bastone per orientarsi, dato che non si riusciva a vedere niente a più di un palmo dal naso, finché non inciampò in qualcosa. Qualcosa che si rivelò essere un qualcuno.

«Ahi!» esclamò una voce dispersa nel grigiore della foschia.

«Scusa!» rispose come per riflesso il bambino dalla pelle olivastra, senza neanche sapere a chi si stesse rivolgendo.

«Mi dispiace per l’inconveniente, ascoltatori, ma sembra che io mi sia scontrato con… con…» continuò la voce, finché non si interruppe nel momento in cui un leggero venticello estivo diradò leggermente la nebbia. La voce sembrava appartenere ad un bambino probabilmente dell’età di Carlos, anche se leggermente più alto. Un ciuffo di capelli biondi faceva capolino tra la nebbia, mentre i suoi occhi sembrarono illuminarsi quando vide delinearsi la sagoma di Carlos.

Anche Carlos restò a fissarlo per un momento, un po’ indeciso su cosa fare, un po’ colto di sorpresa. Il bambino teneva stretto un vecchio apparecchio che pareva essere un registratore, al quale probabilmente stava parlando prima di fermarsi, aveva la faccia piena di lentiggini e gli occhiali appoggiati sul nasino.

Appena sembrò riprendersi da qualunque fosse l’emozione che lo aveva preso, il bambino si avvicinò nuovamente il registratore alla bocca e disse: «…ascoltatori, ho appena incontrato un estraneo. Probabilmente si tratta di uno scienziato, visto che indossa un camice…»

Nel sentire quelle parole il piccolo Carlos si riempì di orgoglio perché sì, certo che lui era uno scienziato! E andava anche piuttosto fiero del suo piccolo camice su misura che i suoi gli avevano regalato ad un certo punto, dopo tanta insistenza da parte sua.

«Tu sei uno scienziato, vero?» gli chiese lo strano bambino.

«Ma certo! Il mio nome è Carlos, Carlos lo scienziato. Mi sono trasferito qui da poco e ho intenzione di studiare questo posto e capire che cosa succede qui intorno» rispose con tono solenne, drizzando la schiena per apparire più alto e più importante, e non riuscendo a trattenere la soddisfazione, sorrise mostrando tutti i denti.

Il che sembrò avere uno strano effetto sull’altro, Carlos non seppe subito dire se positivo o negativo, perché quello sgranò gli occhi e fece un lunghissimo sospiro che terminò con un grande sorriso.

«Piacere di conoscerti! Io sono Cecil e un giorno diventerò il più famoso presentatore radio della città!» annunciò quindi il bambino – Cecil a quanto pare – e gli porse la mano. Carlos la strinse più forte che poté. Dopo di che Cecil corse via saltellando e da quel poco che riuscì a capire, perché la nebbia sembrava attutire i suoni, stava dicendo al registratore: «Il nuovo arrivato è uno scienziato. Si chiama Carlos e mi ha stretto la mano. E’ perfetto e… i suoi capelli sono perfetti.»

Non seppe cosa fare e restò a vederlo scomparire, poi alzò i tacchi ed era in procinto di proseguire la sua esplorazione, ma un’altra voce attirò la sua attenzione. Era la signora Josie, del piano terra.

«Carlo! Carlo! Gli angeli hanno un messaggio per te!» gli urlò dal pianerottolo di casa.

«Gli angeli?» ripeté Carlos più che sorpreso – anche perché, da quel che ne sapeva lui, gli angeli potevano benissimo non esistere, dato che non ne aveva mai visto uno. Anche se Josie sosteneva che uno l’avesse aiutata a cambiare una lampadina proprio la settimana prima.

«Il messaggio dice: “stai lontano dalla porta”. Ti dice niente?»

Carlos non era sicuro di come questo lo facesse sentire.

«No» rispose comunque, perché se c’era qualcosa da scoprire voleva essere sicuro di arrivarci la solo.

L’anziana signora sembrò confusa e forse un po’ delusa per un momento, poi, non troppo convinta, fece spallucce.

«Che vuoi farci? Delle volte gli angeli si confondono…» e così dicendo si ritirò e la sua sagoma scomparve prima nella nebbia e poi dietro la porta.

Carlos rientrò in casa, ma presto riprese ad annoiarsi. I genitori gli consigliarono di andare a trovare la signora Josie.

«Ma ci ho appena parlato!» provò a lamentarsi, ma si rese conto che in fondo non aveva davvero niente di meglio da fare, e poi perché no? Magari avrebbe finalmente visto questi fantomatici angeli.

La porta gli fu aperta subito, e fu fatto accomodare in un piccolo salottino. C’era un gradevole odore e infatti la donna gli rivelò che aveva appena sfornato una crostata ed erano stati proprio gli angeli a farla. Carlos si guardava intorno da quando era entrato, ma degli angeli neanche l’ombra. Iniziò a pensare che la donna fosse pazza, ma preferì non farglielo notare perché aveva sentito da qualche parte che ai matti non piace sentirsi chiamare matti. Accettò comunque la crostata: angelica o no, era deliziosa. Gli fu offerto anche del tè. Non che ne andasse pazzo, ma non se la sentì di rifiutare.

Quando lo ebbe bevuto quasi tutto, Josie gli tolse la tazza dalle mani annunciando che gli avrebbe letto i fondi. Disse che gli angeli avevano il potere ci vedere il futuro nel tè e che lo avevano insegnato anche a lei. Scrutò per bene la tazza per del tempo.

«Carlo! Piccolo Carlo, sei in grave pericolo!» esclamò decisamente preoccupata, mettendo agitazione anche al bambino. Non è che credesse in queste scemenze superstiziose come leggere i fondi, o leggere la mano, o il procedere lineare del tempo, ma la preoccupazione della donna fu tale da contagiarlo.

Cercò di cavarle qualche informazione in più, ma tutto ciò che fece fu blaterare su come gli angeli dicano solo ciò che vogliono dire e niente di più, e poi il tè non è mai affidabile, e così via.

Una cosa la fece però, ossia regalargli un oggetto che secondo lei gli sarebbe tornato utile in situazioni difficili.

Questo era un piccolo orologio da taschino, dall’aria molto vecchia, tant’è che quando provò ad aprirlo ne uscì una piccola nuvola di polvere che lo fece tossire. Non era certo di cosa avrebbe dovuto farsene di un vecchio orologio, ma accettò il dono fatto in buona fede.

 

Il giorno dopo fu giorno di compere. Dato che l’estate stava finendo, c’era bisogno di comprare vestiti nuovi e altre cose utili, quindi uscì con sua madre, mentre suo padre usciva a sua volta, ma per recarsi ad una riunione speciale di scienziati che aveva convocato per condividere qualche scoperta.

Quella mattina si annoiò moltissimo perché non gli piaceva andare per negozi, e in più sua madre si ostinava a non volergli comprare l’unica cosa che gli piaceva: una bella felpa verde con disegnato un alligatore e la scritta: «“Gli alligatori possono mangiare i vostri figli?” “Sì.”»

Una cosa molto sciocca, ma se non altro diversa da tutti i vestiti monotoni e banali con cui sua madre stava riempiendo il cestino – che, inoltre, gli andavano anche grandi, ma sua madre sperava che ci crescesse dentro.

Quando tornarono a casa, Carlos aveva lo stomaco che brontolava, ma con suo grande disappunto nel frigorifero c’era solo un po’ di verdura andata a male che puzzava quasi quanto l’appartamento del signor Telly e del formaggio ammuffito. Il bambino avrebbe quasi giurato di aver visto qualcosa muoversi, ma sua madre gli aveva risposto che non c’era bisogno di essere così melodrammatico e che sarebbe tornata presto con del cibo vero. Dopo aver detto questo era semplicemente uscita di corsa, lasciandolo solo.

La casa era abbastanza grande e non era un gran che stare da solo, perché con tutto quello spazio a disposizione, senza nessuno, la casa sembrava ancora più grande e vuota. Ovviamente iniziò presto ad annoiarsi di nuovo e stava giusto infilandosi il piccolo camice per uscire fuori, quando il campanello suonò.

Aprendo la porta si trovò davanti un grande solare sorriso circondato da un’esplosione di lentiggini.

«Ciao, Cecil» salutò piacevolmente sorpreso. In quel momento notò qualcosa sgusciare tra le gambe dell’ospite e capì subito che si trattava del gatto che spesso vedeva aggirarsi nel giardino.

«Quel gatto è tuo?» chiese immediatamente.

«Non proprio. In realtà sì, perché gli do da mangiare, ma non è proprio proprio mio. L’ho chiamato Khoshekh.»

Carlos annuì e si sporse per accarezzare il gatto che inizialmente cercò di allontanarsi, ma poi annusò con diffidenza le dita del bambino ed infine gli concesse di grattargli l’orecchio, anche se brevemente.

Entrambi i bambini risero.

«Ti ho portato questa. Lo so che molti considerano le bambole una cosa da femmina, ma questa ti assomigliava così tanto che ho voluto mostrartela.» spiegò Cecil porgendogli il giocattolo.

Era vero, la bambola gli assomigliava in maniera spaventosa. Era più una sorta di robot, ma aveva la faccia e le mani dipinte di un marrone non troppo scuro, aveva fluenti capelli neri fatti di un materiale sintetico e indossava perfino un piccolo camice bianco.

Osservò l’oggetto con stupore e crescente curiosità.

«Dove l’hai presa?»

Cecil fece spallucce.

«L’ho trovata, in realtà. Credo sia caduta ad un tizio strano che si aggirava nei pressi di casa mia. Indossava una giacca marrone e portava una valigetta di pelle di cervo. L’ho visto aprirla e ne sono uscite tantissime mosche, poi è andato via e questa bambola è rimasta a terra.» si interruppe pensieroso «la cosa buffa è che non riesco proprio a ricordare la sua faccia.»

Uno strano tizio con una valigia piena di mosche possedeva una bambola identica a lui? Cosa poteva significare? Non riusciva a pensare ad una risposta intelligente e fu anche distratto da un grosso starnuto.

«Credo di essere un po’ allergico ai gatti…» disse sovrappensiero, asciugandosi il naso con il dorso della mano.

«Adesso devo andare, ma la bambola puoi tenerla se vuoi» gli disse Cecil con un sorriso, prima di allontanarsi seguito a poca distanza anche dal gatto.

Prima il tè degli angeli gli aveva detto che era in pericolo, poi era arrivata una strana bambola. Il mistero di quella casa si stava infittendo e per Carlos questa non poteva che essere una gioia. Anzi, pensare all’ammonimento della signora Josie gli ricordò del regalo che gli era stato fatto.

Si sedette al tavolo della cucina con tutti gli attrezzi che riuscì a racimolare e si mise a smontare l’orologio che in un batter d’occhio finì completamente scomposto sul tavolo.

Al suo interno non sembrava esserci un vero e proprio meccanismo, ma una particolare sostanza scura e densa. Non si spiegava come facesse l’oggetto a funzionare se dentro era ridotto in quel modo.

«Tu cosa ne pensi, Piccolo Me?» chiese alla bambola che aveva posto seduta di fronte al disastro che erano i pezzi dell’orologio.

«Non mi rispondi è?»

Robot-Carlos se ne stava lì muto con quei suoi strani occhi neri che guardandoci dentro sembravano profondissimi – letteralmente – come se non finissero mai.

Improvvisamente Carlos fece un salto sulla sedia. Quella sostanza indecifrabile sembrava aver preso vita e le stavano crescendo piccole sporgenze che si rivelarono essere denti e ciuffi di peli. Spaventato, ma anche affascinato, rimase per un momento in dubbio se cercare di “uccidere” quella cosa in qualche modo oppure se provare a darle del cibo o altro. Giunse alla conclusione che se quella roba stava nell’orologio era perché doveva stare lì – inoltre l’orologio funzionava, quindi non era disturbato dalla presenza della sostanza, no? Quindi decise di raccoglierla e rimetterla a posto. L’orologio riprese a funzionare come se nulla fosse successo.

«Quest’orologio non è reale…» si disse tra sé e sé a bassa voce.

Lo impostò con l’orario giusto e si accorse che era passato molto tempo, ma di sua madre ancora non c’era traccia. Cosa poteva fare? Aveva davvero fame adesso, ma non c’era nulla di commestibile in casa.

Per distrarsi ebbe l’idea di tornare alla porta misteriosa del soggiorno.

Prese la chiave e si affrettò ad andare ad aprirla. Infilò l’oggettino metallico nella toppa e girò finché non sentì uno scatto. Allora la spalancò, ma questa volta il vuoto non c’era. Era stato sostituito da un corridoio luminoso. Non resistette alla curiosità e ci si infilò subito dentro.

Si chiese dove sarebbe andato a finire e sperava di non finire dritto nel vuoto, ma questa opzione gli sembrava improbabile. Quando finalmente uscì, si guardò intorno e non vide altro che il soggiorno di casa sua.

«Oh, fantastico!» esclamò sarcasticamente, «un loop geografico!» per fortuna aveva già imparato a scuola come ci si deve comportare: mai evitare il centro del loop. Bisogna camminare dritti verso di esso e così facendo ci si troverà alla sua destra o alla sua sinistra.

Sì, ma non era quello che aveva fatto camminando nel corridoio? Aveva camminato dritto ed era finito di nuovo nel soggiorno! Si stava domandando come fare ad uscirne illeso, con una certa calma, sorprendentemente, quando sentì una voce chiamarlo dalla cucina. Sembrava la voce di sua madre. Evidentemente era tornata dalla spesa.

Decise di dirigersi in cucina, sperando di non ritrovarsi in soggiorno non appena varcata la porta, ma con sua grande sorpresa non subì interruzioni fino alla meta e si ritrovò proprio dove voleva essere. C’era un profumo buonissimo, il che era strano perché sua madre non cucinava mai nulla di particolare.

La donna che l’aveva chiamato era indaffarata ai fornelli e gli dava le spalle. Sembrava proprio sua madre, ma aveva una carnagione leggermente diversa. Quando quella si voltò, vide con orrore che i suoi occhi erano completamente neri, e aveva un sorriso molto ampio, un sorriso che però non era un sorriso, e aveva in generale qualcosa di molto strano e – diciamo – disturbante.

«Tu non sei mia madre.» disse con un tono un po’ incerto, ma non era una domanda.

«Certo che sì, sciocchino, sono la tua altra madre – rispose amorevolmente – ora vai a chiamare il tuo latro padre, starà certamente morendo di fame.»

Un po’ sospettoso, uscì dalla cucina per dirigersi verso lo studio del padre. Anche la casa era uguale ma diversa, era difficile da descrivere. Forse era più una sensazione.

Bussò alla porta ed entrò senza aspettare il permesso – come era abituato a fare, tanto nessuno si preoccupava più di tanto della sua presenza.

«Ciao, ehm… “altro padre”, lei mi ha detto di chiamarti per cena e…» mentre stava ancora parlando, l’uomo si girò mostrando anche lui due occhi neri come la pece ed un ampio sorriso, anche questo, come quello dell’altra madre, con qualcosa di… “non normale”.

«Ma certo! Non vedo l’ora! Che cosa si mangia di buono oggi?» chiese per poi ridere tra sé, «Oh, Carlos, ti stavamo aspettando, sai?» continuò mentre usciva dalla stanza con il bambino, appoggiando una mano sulla sua spalla.

«Che cosa significa?» chiese quando ormai erano entrati in cucina. Rimase estasiato nel vedere la tavola imbandita. C’erano talmente tante cose buone che non sapeva da dove cominciare e aveva una tale fame che quasi dimenticò di ascoltare la risposta – ma lo fece comunque.

«Ovviamente, significa quello che significa. Ti stavamo aspettando, questo è il tuo posto, con noi. Non era la stessa cosa senza di te…» spiegò l’altra madre.

«… ma per fortuna sei arrivato!» terminò gongolando l’altro padre, beccandosi un’impercettibile occhiataccia da parte della donna – forse non le piaceva venire interrotta.

  
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