Film > Coraline e la Porta Magica
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Autore: AllHailTheGlowCloud    02/10/2014    0 recensioni
Crossover tra "Coraline e la porta magica" (in parte il film e in parte il libro) e il podcast "Welcome to Night Vale", ovvero i personaggi e vicende di WtNV riadattati e ambientati nel mondo di Coraline.
Dal testo: "«Oh, fantastico!» esclamò sarcasticamente, «un loop geografico!» per fortuna aveva già imparato a scuola come ci si deve comportare: mai evitare il centro del loop. Bisogna camminare dritti verso di esso e così facendo ci si troverà alla sua destra o alla sua sinistra.
Sì, ma non era quello che aveva fatto camminando nel corridoio? Aveva camminato dritto ed era finito di nuovo nel soggiorno! Si stava domandando come fare ad uscirne illeso, con una certa calma, sorprendentemente, quando sentì una voce chiamarlo dalla cucina. Sembrava la voce di sua madre."
Accenni di Cecilos (Cecil/Carlos).
Genere: Horror, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Entrò in casa, deciso a dirigersi verso il soggiorno. Aveva una certa idea di dove si trovassero i suoi genitori, ma in realtà non ne era proprio certo. Ma, del resto, che altre opzioni aveva? E non sentiva neanche di avere molte speranze di riuscire a trovarli, se non fossero stati dove credeva che fossero.

Soprattutto quando a metà del corridoio si trovò davanti l’altra madre che lo attendeva impaziente, sorridendo come se niente fosse, ma con una tale collera negli occhi neri che Carlos non credeva le fosse possibile esprimere.

«Allora, hai finito?» chiese l’altra madre.

«No» disse laconicamente Carlos, superandola velocemente ed entrando nel soggiorno, immediatamente seguito dalla donna.

L’altra madre era evidentemente preoccupata, era ovvio che non si aspettasse che Carlos riuscisse a trovare tutti quegli oggetti, ma Carlos sapeva di essere comunque in svantaggio perché non aveva ancora i suoi genitori, ma non solo: perché era certo che anche una volta trovati, l’altra madre non lo avrebbe semplicemente lasciato andare via.

Avrebbe dovuto lottare. Pensava a questo mentre camminava per il soggiorno, guardando dappertutto.

Ciò che gli interessava era lo specchio sulla mensola del caminetto, ma non voleva che l’altra madre lo capisse.

Sentì qualcosa toccargli la gamba e senza pensarci troppo, si voltò e raccolse tra le braccia Khoshekh. Lanciò un’occhiata alla madre per controllare i suoi movimenti.

Sapeva che non le piacevano i gatti, perciò voleva essere certo che non facesse del male al suo amico.

Fin troppe persone avevano sofferto.

«Ebbene? Hai trovato i tuoi genitori?» chiese sempre più impaziente l’altra madre, che, ferma al centro della stanza, seguiva ogni movimento del bambino con gli occhi. O almeno era questa l’impressione che aveva Carlos. Era difficile capire dove guardasse, con quegli occhi completamente neri.

«Sì!» esclamò Carlos, forse con fin troppa convinzione, ma l’altra madre sembrò crederci perché il bambino fu sicuro di vederla irrigidirsi.

«E dove sono?» domandò la donna.

«E’ ovvio… che sono dietro la porta – disse indicandola col braccio che non reggeva il gatto – non sono da nessun’altra parte, quindi sono lì. Ne sono più che sicuro. Anzi, perché non la apri? Così vedremo finalmente!»

Il sorriso dell’altra madre, sempre più sbieco e terrificante, si fece ancora più ampio, mentre andava ad aprire la porta.

«Ne sei veramente sicuro? D’accordo, allora…» disse compiaciuta, facendo scattare la serratura e aprendo finalmente la porta.

Carlos sapeva di non avere molto tempo e che questa sarebbe stata la sua ultima occasione. Senza pensarci due volte, lanciò il gatto addosso all’altra madre, che cacciò un urlo, mentre gli artigli del felino si conficcavano nella sua faccia.

Carlos si sporse e riuscì ad afferrare il piccolo specchio sul caminetto, che infilò in tasca insieme a tutti gli altri oggetti che aveva raccolto.

«Presto! Dobbiamo andarcene adesso!» gridò a Khoshekh, che immediatamente saltò giù, ma non dopo aver orribilmente sfigurato il volto dell’altra madre.

I suoi occhi neri erano stati feriti, dalle varie ferite colava quella stessa sostanza scura e viscosa che Carlos aveva ormai visto tante volte, e la sua bocca era contorta in una smorfia impossibile e spaventosa. Non era più un sorriso, o se lo era, era il più orribile che Carlos avesse mai visto.

Tuttavia non si fermò troppo a guardarla. Non c’era tempo.

Tolse la chiave dalla serratura e la mise in tasca mentre entrava velocemente insieme a Khoshekh.

Tentò di chiudere la porta, ma proprio mentre stava per riuscirci, l’altra madre dall’altra parte cominciò a tirare.

Urla tremende provenivano dall’altra parte della porta.

Carlos era terrorizzato e sentiva che non ce l’avrebbe fatta e che l’altra madre lo avrebbe preso e che tutto il suo lavoro sarebbe stato per niente, ma sentiva anche che se si fosse arreso ora, come stava per fare, l’altra madre gli avrebbe fatto cose cento volte più atroci di quelle che aveva fatto a tutti gli altri, perché nessuno gli aveva dato così tanto fino da torcere, nemmeno l’altro Cecil, e ora era fuori di se per la rabbia, il rancore, e l’odio.

Ripensare all’altro Cecil gli fece venire una stretta allo stomaco – maggiore di quella che aveva già per la paura. Il suo sacrificio non poteva essere vano. Carlos non lo avrebbe permesso.

In quel momento sembrò guadagnare tutta la forza in più che gli serviva per chiudere la porta, anche se un attimo prima di chiuderla per sempre, gli sembrò che qualcosa fosse riuscito a sgusciare fuori.

Non ebbe tempo per pensarci, ancora una volta, anche perché il corridoio era ancora più luminoso del solito ed era come se lì dentro tirasse un vento forte e caldo, come quello di un deserto. Era quasi certo di sentire qualcosa simile a sabbia colpirgli la faccia e fargli male, anzi, forse lo stava anche ferendo, ma in quel momento era difficile da capire.

Attraversò quel corridoio che sembrava non finire mai – tanto che per un po’ dubitò che avesse effettivamente una fine.

Poi finalmente la luce diminuì un’immagine familiare iniziò a delinearsi: quella del soggiorno della sua casa – quella vera.

Carlos fece una sorta di scatto finale e insieme a Khoshekh riuscì a oltrepassare la soglia. Immediatamente, chiuse la porta sbattendola e infilata la chiave nella serratura le fece fare tutti i giri che riuscì a farle fare. E poi tirò un lunghissimo sospiro di sollievo e si rese conto di aver trattenuto il fiato senza accorgersene, ma non aveva idea per quanto tempo lo avesse fatto, o quanto a lungo fosse rimasto in quel tunnel infernale.

Si voltò e Khoshekh era seduto poco più là che lo guardava. Quando Carlos ricambiò lo sguardo, il micio batté lentamente le palpebre due o tre volte.

Il bambino rise. Aveva varie ferite – per fortuna non gravi – ma non importava, nulla importava. Ora erano tutti salvi grazie a lui. Si sentì felice come non si sentiva da tempo e, tutto d’un tratto, si rese conto di sentirsi anche stanco come non si era mai sentito in vita sua. Si lasciò cadere sulla poltrona e nel giro di pochi secondi si addormentò senza neanche accorgersene.

 

Fu svegliato da una voce familiare.

«Carlos… Carlos! Cosa ci fai qui sulla poltrona?»

Ci mise un po’ a capire dov’era e cosa stava succedendo, ma appena si riprese dal sonno abbastanza per capirlo, riconobbe sua madre e le saltò addosso abbracciandola.

«Ehi! Ma che succede?» domandò dolcemente sua madre, accarezzandogli la fronte e spostandogli una ciocca dalla tempia.

In quel momento anche suo padre fece capolino nella stanza, ma l’uomo non fece in tempo a fare domande che Carlos gridò «Papà!» e gli corse incontro abbracciando anche lui.

«Ti siamo mancati?» domandò scherzosamente il padre.

«Sì! Non avete idea quanto!» esclamò Carlos.

Sua madre rise brevemente.

«Non essere esagerato, non siamo stati via così tanto» commentò spensieratamente, avviandosi in cucina.

«Beh, certo, non è facile definire “tanto” in un luogo dove il tempo non funziona, però vi assicuro che a me è sembrata un’eternità!» insistette il bambino, suscitando ulteriormente l’ilarità del padre che alzò un sopracciglio e ridacchiò.

«Un luogo dove il tempo non funziona? Oh, la fantasia dei bambini! Non esiste un posto del genere, o almeno non lo abbiamo ancora scoperto…»

«Ma… ma papà! Te lo assicuro, lì il tempo… aspetta, tu non sai di cosa parlo?» chiese confuso e leggermente deluso Carlos.

Suo padre scosse la testa fingendosi sconsolato.

«Andiamo, aiutiamo tua madre a preparare la cena» disse semplicemente, prima di uscire dalla stanza.

Carlos rimase fermo per un po’, prima di seguirlo.

Non se ne era reso conto prima, ma a quanto pare i suoi genitori non avevano alcun ricordo di tutto ciò che era successo.

Non sapeva come una cosa del genere fosse possibile, e, come dovette constatare il suo animo di scienziato, purtroppo non aveva alcun modo per scoprirlo. Decise, però, che in fondo non gli importava. Gli bastava avere di nuovo i suoi genitori e poter vedere i loro sorrisi umani e i loro occhi normali.

Quando si mosse, sentì come un tintinnio. Allora mise la mano in tasca, ma la ritrasse subito esclamando “Ahi!”. Si era punto il dito con un pezzo di vetro.

Decise allora di togliersi il camice e di svuotare le tasche. Aveva ancora il suo orologio – che ora funzionava normalmente, la chiave, un cellulare, un caricabatterie, alcune pagine accartocciate e in fine lo specchio, che però si era rotto. Capì che doveva essersi ferito con uno dei pezzi di vetro.

Mise tutto quanto nel camice che usò come un sacco, e portò tutto in camera sua.

 

Quella sera non avrebbe mai voluto andare a dormire, voleva restare alzato con i suoi genitori per recuperare il tempo perduto, ma alla fine cedette, un po’ perché si disse che adesso avevano tutto il tempo del mondo, e un po’ – per la maggior parte in realtà – perché non riusciva a tenere gli occhi aperti.

Ad un certo punto, qualcosa lo svegliò. Erano dei fruscii e dei passi che lo fecero scattare a sedere perché erano suoni diventati fin troppo familiari per lui e per un momento credette di non essere mai uscito da quell’incubo, ma quando aprì gli occhi, vide qualcosa di molto diverso e, in qualche modo, si calmò.

Accanto al suo letto c’erano due donne di colore che, nonostante la prima volta non fosse riuscito a vederle bene a causa della luce, sta volta riconobbe immediatamente.

Tamika teneva in una mano le pagine del libro, mentre Dana aveva in una mano il cellulare e nell’altra il caricatore.

«Che cosa ci fate qui?» chiese bisbigliando e trattenendo uno sbadiglio.

«Siamo qui per avvertirti» disse Tamika.

«E per ringraziarti» aggiunse Dana.

«Sono contento che stiate bene» rispose Carlos sorridendo, sinceramente felice di rincontrarle.

«Ascolta bene. Non è finita qui.» continuò la più giovane.

Carlos si sentì confuso.

«Che cosa significa? Non siamo riusciti a sconfiggere l’altra madre?» chiese apprensivamente.

Le due ragazze si scambiarono un’occhiata indecifrabile, sembravano in disaccordo su cosa rispondere.

Alla fine fu Dana a farsi coraggio.

«Devi scappare. Nasconditi. Lei ti ritroverà. Potrebbe arrivare quando meno te lo aspetti… sempre che non sia già qui.» Carlos la fissò per alcuni secondi, battendo le palpebre.

Non riusciva a capacitarsi di una cosa del genere. L’idea che l’altra madre potesse raggiungerlo anche lì lo fece rabbrividire.

“Ma è impossibile, ho chiuso la porta!” stava per dire, ma Tamika lo precedette.

«Devi restare qui e combattere, perché se lei riesce a raggiungere te, puoi essere certo che farà del male a tutti quelli che ami» affermò con forza, in modo che non lasciava adito a dubbi o proteste.

«Se resti ti accadranno cose orribili!» lo avvertì Dana.

«Se scappi accadranno cose orribili alle persone a cui vuoi bene!» ribadì Tamika.

Dicevano l’una l’opposto di quello che l’altra aveva appena detto ed era come se non si sentissero a vicenda. Tutta questa confusione non aiutava Carlos, che ora doveva prendere un’importante decisione. Anche se in realtà non c’era nessuna decisione, per quanto lo riguardava: non poteva abbandonare la sua famiglia. Tamika aveva ragione: se aveva lottato fino ad ora, avrebbe continuato – anche se non aveva idea di come.

«Che cosa posso fare?» chiese sconsolato.

«Lotta!» gridò Tamika.

«Scappa!» gridò Dana, quasi contemporaneamente.

Entrambe continuavano a gridare quella singola parola che riassumeva il loro consiglio, ma nulla di ciò era utile a Carlos, che sperava in un aiuto più concreto. Continuavano a gridare ancora e ancora, sempre più forte, tanto che Carlos non riusciva a sentire nient’altro.

“Basta! Zitte, sveglierete tutti!” stava per urlare, ma non fece in tempo, perché proprio in quel momento aprì gli occhi.

Era giorno e delle due donne non c’era traccia.

Era stato un sogno a quanto pare. Il bambino si stropicciò gli occhi con le mani. Era sollevato che non si trattasse che di un incubo, ma non riusciva a sentirsi completamente tranquillo. Gli era rimasta addosso una brutta sensazione.

Si alzò per andare a prendere il camice che aveva appoggiato su una sedia la sera prima, ma dopo averlo preso tra le mani, si rese conto che qualcosa non andava. Quando lo aveva lasciato, c’erano ancora dentro gli oggetti che aveva recuperato – salvo per i vetri rotti, che aveva messo in una scatolina in un cassetto, e per l’orologio e la chiave, che aveva spostato sul comodino.

«Oh, no…» furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, anche se uscirono come un bisbiglio.

Immediatamente i suoi occhi caddero sulla chiave.

Non poteva lasciarla incustodita, quindi prese un cordoncino che infilò nel buco e se la mise intorno al collo.

Quando fece per scendere a fare colazione, vide qualcosa di nero sfrecciare per il corridoio e rimase pietrificato a guardarla sgusciare su per una parete e sparire nell’altra stanza.

Era certo di cosa si trattasse. Ne aveva visti tanti in quegli ultimi giorni, che dubitava che se ne sarebbe mai dimenticato finché fosse vissuto.

Cautamente, si affacciò sulle scale, ma del ragno neanche l’ombra.

Per sicurezza, fece scivolare la chiave sotto la maglietta.

Prima di fare colazione, girò per casa guardando in ogni angolo. Non riuscì a trovare il ragno da nessuna parte. Alla fine si diresse verso la porta di casa e si affacciò fuori. Immediatamente un’ombra nera velocissima gli passò tra le gambe e schizzò fuori dalla porta. Non ebbe tempo di fare niente, l’unica cosa che fece fu chiudere la porta e tirare un respiro di sollievo: almeno adesso era certo che non si trovasse in casa, quindi ora aveva almeno un posto sicuro dove stare, anche se fuori sarebbe stato tutt’altro che sicuro, d’ora in poi.

Per alcuni giorni non volle neanche pensare di uscire di casa, sapendo che quella cosa era là fuori, ma dentro di sé sapeva anche che uscire sarebbe stato necessario, se davvero voleva riuscire a sconfiggere per sempre l’altra madre. Inoltre, forse lui poteva non uscire, ma i suoi genitori avrebbero continuato a farlo, e così anche gli altri inquilini, e anche Cecil.

Fu proprio Cecil, a dire il vero, a convincerlo una volta per tutte che prendere una decisione risolutiva era l’unica cosa da fare.

Aveva fatto da poco colazione e stava osservando il giardino dalla finestra, cercando il ragno con lo sguardo – consapevole che doveva essere lì da qualche parte, in agguato – quando intravide una testolina bionda spuntare dai cespugli del giardino.

Immediatamente si irrigidì e aguzzò la vista. Proprio come pensava, il ragno era davvero in agguato, ed era sicuro di averlo visto sgusciare tra l’erba.

Corse immediatamente fuori per avvertire il suo amico del pericolo, e fece appena in tempo a saltargli addosso e a spingerlo via, perché l’aracnide aveva spiccato un balzo e stava per attaccare Cecil e il suo gatto. Comunque sia, Carlos non si perse in spiegazioni: non ce n’era tempo. Prese l’amico per una mano e corse in casa, trascinandoselo dietro, seguito anche da Khoshekh, e chiuse immediatamente la porta.

Ancora appoggiato con le spalle contro la superficie di legno, tirò un bel respiro e si ritrovò davanti l’altro bambino che lo fissava con aria interrogativa.

Dopo essere andati tutti e tre in camera sua, Carlos aggiornò l’amico sugli ultimi avvenimenti, e scoprì che l’altro non dubitava neanche minimamente delle sue parole, anche se, naturalmente, ne era sorpreso e visibilmente preoccupato.

Carlos osservò il viso corrucciato del suo amico, mentre accarezzava Khoshekh dietro l’orecchio.

Per un momento gli sembrò di rivedere l’altro Cecil e mentalmente rivisse gli ultimi momenti della sua vita, il che gli causò un brivido e riaprì ferite non ancora rimarginate. Si sarebbe quasi messo a piangere, soprattutto considerato che quella volta non ne aveva avuto il tempo, o almeno, non aveva potuto fare un bel pianto liberatorio, di quelli che sgorgano dal profondo e che ti svuotano di tutte le energie.

Aveva abbracciato i suoi veri genitori quando li aveva rivisti, e si disse che era il momento di abbracciare anche Cecil.

Allungò le braccia e le strinse intorno alle spalle dell’altro che, dopo qualche istante di confusione, ricambiò l’abbraccio.

Sicuramente Cecil avrebbe pensato che quel gesto fosse un modo per farsi coraggio, considerata la sfida che li attendeva – e in parte era vero – ma Carlos sentì comunque il bisogno di spiegare.

«Mi sei mancato. Sono felice di rivederti e che tu stia bene…» disse sciogliendo l’abbraccio.

L’altro lo guardò sorridendo leggermente, con uno sguardo comprensivo.

Carlos tirò su col naso e si strofinò gli occhi che gli si erano fatti lucidi.

«Che cosa facciamo, adesso?» domandò Cecil.

«Ho elaborato una specie di piano… non ne sono sicuro, ma dovrebbe funzionare. Voglio dire, non ne sono certo scientificamente, perché non ho potuto fare una prova, ma se tutto va bene…» e così spiegò la sua idea all’altro che ne sembrò egualmente entusiasta e timoroso. Non trattenne tutta una serie di commenti su come Carlos fosse coraggioso e intelligente, pronunciati con una certa ammirazione, ma alla fine pose il dubbio: non era troppo pericoloso?

La risposta, secondo Carlos, era sì, ma non lo disse e scelse volutamente di non pensarci.

Fece un giro per casa, racimolando tutto ciò che poteva servirgli, poi si avviò verso la porta.

«Io esco! Andiamo a fare un po’ di esperimenti in giardino!» avvisò la madre prima di uscire, che si raccomandò di non fare tardi per pranzo.

“Mi auguro anche io di non fare tardi per pranzo… oh, mamma, se solo sapessi…” pensò tra sé e sé.

Facendo attenzione ad un possibile attacco da parte del ragno, i tre si diressero verso la casa che esiste anche se avrebbe più senso che non esistesse, assicurandosi di essere seguiti perché era importante che il ragno sapesse dove trovarli per cadere nella trappola.

Il piano in teoria era semplice quanto improbabile. In realtà non era affatto semplice, nella pratica. E Carlos non era affatto sicuro che i suoi ragionamenti fossero esatti, ma lo sperava davvero. Questa poteva essere la loro l’unica possibilità.

Se, come credeva di aver capito, quella casa era un passaggio tra i due mondi – quello reale e quello dell’altra madre – che però funzionava in una sola direzione, se fossero riusciti a far entrare il ragno all’interno, quello non sarebbe più stato capace di uscire. Da ciò che aveva osservato, solo la signora che ci abitava sembrava essere capace di rimanere in questo piano dell’esistenza senza neanche rendersi conto di ciò che la sua casa era in realtà.

Quando arrivarono davanti alla casa, i due bambini si guardarono per darsi coraggio, e poi diedero il via al piano.

Prima allestirono un kit per esperimenti con tutte le cose da scienziati che Carlos si era portato dietro, per far capire al ragno che sarebbero stati lì per un po’ e fare in modo che la bestia si convincesse di averli in pugno.

Poi, mentre Carlos versava il contenuto di un’ampolla in un’altra – facendo attenzione ad elencare ad alta voce le azioni che compiva, sperando di convincere il ragno di non essersi accorto della sua presenza – Cecil andò a bussare alla porta della casa. Buona parte della buona riuscita del piano dipendeva dalla tempistica con cui la donna avrebbe aperto la porta, per questo era importante riuscire al primo tentativo, e non sarebbe stato facile.

Quando il ragno vide che Carlos era stato lasciato solo dall’amico, non esitò ad attaccarlo, uscendo dal suo nascondiglio e saltandogli addosso per recuperare la chiave.

Carlos, che in realtà lo teneva sott’occhio, si scansò appena in tempo e proprio in quel momento, Khoshekh uscì a sua volta dal suo nascondiglio, azzannando e immobilizzando il ragno, che cazze sopra la tovaglia con gli strumenti di lavoro di Carlos.

Immediatamente, Carlos chiuse la tovaglia, facendone un fagotto e lo lanciò dentro la porta che era appena stata lasciata aperta dalla signora. Era importante che lei non fosse in casa, perciò Cecil le aveva chiesto con urgenza di seguirlo per aiutarlo a risolvere un qualche problema che si inventò sul momento.

Carlos chiuse prontamente la porta e rimase immobile, come anche Cecil e il gatto. Per un po’ ci fu silenzio.

Poi la signora, confusa e irritata, li rimproverò.

«Che modo è questo? Che scherzi sono da fare? Voi ragazzi di oggi e la vostra sfacciataggine!» brontolò, per poi tornare verso la porta e rientrare in casa.

Quando la donna aprì la porta, entrambi i bambini trattennero il fiato, ma per fortuna nulla ne uscì e il fagotto con dentro il ragno e il resto era sparito.

Carlos non riuscì più a trattenersi. Dopo tutto, fino ad ora non aveva avuto molte occasioni di esprimere le proprie emozioni in modo aperto e salutare, e una bella risata a squarciagola, finalmente, se l’era decisamente meritata. Anche Cecil lo imitò e perfino Khoshekh sembrava voler festeggiare, tanto che gli si accostò e strofinò la testa sulla sua gamba.

Carlos lo prese in braccio e gli posò un bacio sulla testa, ricevendo in cambio un miagolio compiaciuto e delle sonore fusa.

 

Cecil era corso immediatamente a casa dicendo di dover assolutamente registrare con attenzione un resoconto di tutta la vicenda sul suo fidato registratore.

A Carlos non era sembrato strano e lo aveva salutato serenamente, per poi dirigersi a casa, stremato ma ancora euforico per la vittoria.

Non era mai stato più felice di così di non aver fatto tardi per pranzo – lo disse anche a sua madre, mentre si accomodava a tavola, e lei aveva riso e scosso la testa.

Quel giorno Carlos annunciò di voler fare una festa in giardino e di voler invitare anche Cecil, la signora Josie e Telly.

I suoi genitori furono stupiti di questa proposta, ma non vedendoci niente di male, accettarono di aiutarlo ad organizzarla.

Così, il giorno seguente, tutto il giardino era stato abbellito con bandierine colorate e altre decorazioni, che rendevano l’atmosfera leggera e divertente.

La signora Josie portò il suo contributo offrendo a tutti un pezzo della sua crostata deliziosa – a detta sua preparata dagli angeli – mentre Telly si disse finalmente pronto per tagliare i capelli a Carlos. Dato che mancava poco all’inizio della scuola, i suoi genitori pensarono che fosse una bella idea dare una ripulita al suo aspetto, dato che i capelli ricci gli arrivavano ormai alle spalle.

L’unico che non fu affatto entusiasta del cambiamento fu Cecil, che non smise mai di lamentarsi della terribile perdita che il mondo aveva subito per la scomparsa di quei bellissimi e lunghissimi capelli, e di maledire Telly in tutti i modi. Anche se, in realtà, e ci mise un po’ di tempo ad ammetterlo, i capelli di Carlos gli piacevano tantissimo anche così com’erano adesso – ovvero più lunghi sopra e cortissimi e quasi rasati sulla nuca e ai lati – perché aveva scoperto che passarci le dita sopra era davvero piacevole, ora che erano così corti. Carlos, invece, scoprì di soffrire estremamente il solletico sulla nuca.

Per quanto riguarda la chiave, Carlos non la perse mai di vista e decise che appena fosse stato possibile, andava distrutta.

La porta non fu più riaperta.

Anzi, Carlos insistette che vi fosse posto davanti un mobile, così da non doverla neanche più vedere e nella speranza di dimenticarla e con lei tutto ciò che aveva dovuto passare dall’altra parte di essa – eccezione fatta, forse, per tutto ciò che aveva imparato e tutto ciò che aveva perso.

 

 

 

 

 

 

 

Note:
E’ tempo delle note, finalmente! Non so quanto possa essere stata una buona idea metterle alla fine, perché in tutta onestà non so quanta gente arriverà fin qui, ma ehi! Almeno lasciatemi uno sfogo personale.

Mi ritengo tutto sommato soddisfatta del risultato, questo devo dirvelo. (per la serie: SAPEVATELO)

Ho iniziato a scrivere questa fanfiction (anche se in modo discontinuo nel tempo) subito dopo aver avuto l’idea, che credo sia stato tra la parte A e la parte B dell’episodio Old Oak Doors. Tra l’altro era anche periodo di esami per me (addio liceo LOL).

E niente… per non farmi stressare mentre aspettavo il mio turno agli orali mi sono comprata il libro Coraline e me lo sono letto tutto mentre aspettavo. Poi pochi giorno dopo mi sono riguardata il film. Inutile dire che ho avuto gli incubi dell’altra madre che voleva cucirmi gli occhi per giorni… ehm… sono suscettibile, okay??

Ma l’idea non è giunta da sola. Diciamo che è stata una combinazione di cose perché proprio in quel periodo ho visto questo post che mi ha fatto accendere la lampadina. Naturalmente ho solo tratto ispirazione, poi sono partita su rotaie tutte mie e ciao insomma (?)

  
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