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Autore: Rhona    03/10/2014    0 recensioni
[Storia in revisione grammaticale e stilistica, alcune volte con l'inserimento di scene di passaggio e simili. Pubblicazione nuovi capitoli ancora in corso, ma a rilento.]
I romani: un popolo colto, erudito, padrone del mediterraneo ed oltre. Potenti uomini conquistatori che non esitano a commettere genocidi in onore di Roma, capitale del mondo intero.
I barbari: guerrieri, selvaggi, forse anche cannibali, che combattono per la loro terra, ma per difenderla, non per ampliarla.
E poi c'è lei. Chi è lei? Non è barbara, ma si oppone a chi la chiama romana... Non è romana, ma si arrabbia se la si chiama selvaggia...
Romani contro barbari: non è la guerra di due popoli; è lo scontro di due mondi opposti eppure tanto vicini.
**** Attenzione: il rating e gli avvertimenti potrebbero cambiare.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Nota per i lettori: Scusate, scusate, scusate!!! Sono un disastro... A quanto pare fra la wi fi che fa le bizze ed io che sono un’indecisa cronica ho di nuovo ritardato... Spero che il nuovo capitolo valga la pena. La storia, come avrete già visto è in revisione: rileggendola (oltre a trovare un’ecatombe grammaticale) sono arrivata alla conclusione che i capitoli sono un po’ troppo asciutti. Li amplierò al più presto!

Le recensioni sono sempre le più che benvenute! Buona lettura!
 

 
P.S.     Mi riservo il DIRITTO DI SBAGLIARE le citazioni in greco. Se qualcuno riconosce degli errori me lo faccia sapere!
 






Capitolo VII


CIRENAICA, CONFINE DELLE TERRE DI ROMA
 
 
 
La donna che stava fissando si sedette sulle sue gambe. Aveva la carnagione scura e il taglio degli occhi tipicamente egiziano. Era minuta e snella, col seno proporzionato. I vestiti che indossava erano leggeri e poco coprenti: lasciavano ben poco lavoro da fare all’immaginazione del ragazzo. Baciando Lucius con le sue labbra carnose e fissandolo con gli occhi scuri, si alzò, lo prese per mano e –con l’aiuto del suo sguardo magnetico- lo attirò al piano superiore dell’edificio, le camere... Lo portò all’interno dell’ultima in fondo allo stretto corridoio. Il corridoio era trafficato: distinse chiaramente due suoi superiori in compagnia di un paio di donne ciascuno. Una volta entrati lo attirò verso le pelli di animale dispose l’una sopra l’altra a mo’ di letto. Lucius la percorse tutta con le mani, la spinse sulla pila di pelli e le si adagiò sopra. Alzò la tunica. «Lucius!» una voce tonante lo distrasse dal suo intento.
«Che vuoi Decio?!» rispose a tono. Sulla porta comparve Decio con un occhio pesto.  «Dov’è quel codardo di Maximus?» “Ma porca... io... basterebbe guardare per capire che... ma... ma... perché ora?!”
«E cosa ne so io?!»
«Ora mi aiuti a cercarlo.» sentenziò, avvicinandosi
«Ti dispiacerebbe andartene?!» chiese facendo cenno verso il corridoio. Lasciò ricadere la tunica.
«Vieni con me, femminuccia! Che c’è? Hai paura delle botte, forse?!» lo afferrò per la tunica e lo issò su, in piedi. La prostituta di alzò in piedi, si risistemò e, sdegnata, se ne andò. «Aspetta!» la richiamò, ma era troppo tardi. «...tanto ormai... cosa c’è?» si arrese.
«Mi ha insultato, io ho cercato di picchiarlo e lui ha picchiato me!»
«Non potevi chiamare Fabio?»
«Non lo trovo, poi ho visto te che salivi e ti ho seguito.»
«...Fottiti, Decio!»
«Che ho fatto?» chiese stralunato: poteva anche essere forte come un orso, ma era lento, lento e stupido.
«Ero in compagnia, è non so se mi spiego!»
Decio sorrise malizioso. «Credevo quasi che non ti interessassero le donne, da quasi sei mesi che siamo qui non ti ho visto toccarne una!»
«Cerco di trattenermi: sono qui per l’addestramento, non per le donne. La prima che prendo dopo sei mesi, se ne va: ti devo spiegare cos’hai fatto di male?!»
«Per una! Te la pago io la prossima, dai!» rise. Lucius avvertì l’odore pungente dell’alito di Decio; vino.
Scosse la testa: ormai gli era passata la voglia. «Maximus è l’ispanico, vero?»
«Si, quello mulatto con i capelli neri. Non ha un pelo sulla faccia: come fai a chiamarlo uomo?!»
«Non si potrà chiamare uomo ma intanto ti ha steso.»
«Sta’ attento, “Lucisculus”.» calzò sul soprannome, datogli per via della sua statura. Non che Lucius fosse basso, anzi. Era più alto della media, per questo era stato scelto come cavaliere, ma in confronto a certa gente nell’accampamento sembrava una pulce.
«Se non ti dai una mossa me ne vado.» avrebbe tanto voluto non immischiarsi nelle dispute fra i commilitoni.
«Vieni con me!» lo tirò per un polso.
Scesero le scale velocemente, aprendosi un passaggio fra le donne che salivano. Uscirono dal bordello e si diressero verso le strette e anguste vie malfamate della città. «Perché dovrebbe essere venuto fino a qui?»
«Josef l’arabo m’ha detto che era qui.»
Sospirò. «Non ti chiederò perché è toccato a me e non a lui seguirti...»
«Per tutti gli Dèi! Sei ancora arrabbiato?! Ma piantala, Lucius!»
«Già... Avrei tanto voluto piantare qualcos’altro stasera, ma qualcuno ha preferito piantar grane.» sibilò fra i denti.
«Zitto!» gli ordinò. Un’ombra si mosse fra le assi di legno. Riconobbe la figura alta e furtiva di Maximus l’ispanico.
«Ehi...» gli diede una gomitata e invitandolo a seguirlo. Lucius non si mosse. «Decio lascialo perdere.» sospirò.
Decio gli si appostò alle spalle. Maximus si guardava intorno circospetto. Quando si voltò Decio gli piazzò l’asse di legno accanto a lui sulla fronte. L’ispanico ne fu stordito, cominciò a traballante verso una via d’uscita. Cadde rovinosamente.
Decio sorrise subdolo. «Dove credi di andare, codardo!»
Lo prese per le gambe e lo tirò indietro. Lucius intravide il suo volto rigato dalla sabbia sulla strada, i sassi gli ferirono il collo e si macchiarono di rosso. Urlò. «Ora chi è che grida come una donnicciola, eh?» cominciò a dargli- senza alcun segno di pietà- tanti calci quanti più poteva, mentre era steso e impotente di far nulla. Lucius accorse.
Maximus gridò di nuovo. «Lucius aiutami!» gli chiese. Come un ricordo remoto gli pervenne l’immagine del suo fratellino Maximus che, caduto, gli chiedeva di aiutarlo ad alzarsi. Cosa avrebbe pensato suo fratello, che lo vedeva come un dio, se l’avesse visto mentre aiutava Decio a fare una cosa del genere? Come avrebbe potuto sostenere il suo sguardo speranzoso?
«Lucius, dai: immobilizzalo.» lo spronava Decio.
«No, Decio. Non puoi aggredirlo così, ora basta.» disse.
«Cane codardo! Aiutami!» gli gridò rabbioso. «Decio così lo uccidi!» tentò d distoglierlo. «Basta, fermati! Non sei più te stesso!» Ma Decio non si fermava, ed il sangue purpureo continuava a zampillare allegro e vivido fuori dalle ferite aperte di Maximus. Con un gesto disperato atterrò Decio. Decio cominciò a sfogare la sua rabbia su di lui. Sentì un dolore lancinante al basso ventre, realizzando che l’aveva colpito. S’accorse che un pugnale pendeva minaccioso sul fianco di Decio, lo prese e lo scagliò via. Affondò un paio di pugni. Intravide di sfuggita Maximus correre via. Colpì Decio al voltò. Un calcio lo costrinse a piegarsi e Decio cominciò a prenderlo a calci. Decio aveva le caratteristiche animalesche di una bestia impazzita, prima amica e poi carnefice. Mentre si alzava per calciarlo di nuovo, Decio barcollò. Lucius si alzò fulmineo, lo spinse e cominciò a prenderlo a calci allo stomaco. Lo prese con un paio di pugni alla mascella. Poi sentì un colpo, inferto dall’elsa di una spada punitrice, colpirgli il cranio. La testa cominciò a pesargli, la vista gli si annebbiò. La volontà gli venne meno.
 
 
 
 
TERRE DEI SASSONI
 
 
 
Il nero opaco della cenere ricopriva tutto. Un paio di uccelli neri volteggiavano nel cielo mattutino, coperto dalle nuvole scure e che avevano tanto l’aria di voler buttar giù una brutta tempesta. Titurio, con rabbia repressa e non poca delusione, percorse il decumano del villaggio completamente bruciato. Il fuoco e le fiamme non avevano risparmiato nulla. Fiamme appiccate da Vaughan, ne era sicuro. Mentre batteva le ciglia, nell’attimo di buio prima di riaprire gli occhi, vide Vaughan, come glielo avevano descritto i soldati sopravvissuti dalla battaglia disastrosa. Un uomo altro più del doppio di alcuni romani; capelli biondi, lunghi lasciati sciolti, con solo alcune treccine a raccoglierli; la barba tagliata rada dello stesso colore dei capelli; un petto largo quanto quello di due romani, nudo, muscoloso, sul quale risaltava la cinghia che teneva legata la sua spada alla schiena; una lancia alta quanto lui, con la punta fatta da un corno di cervo affilato; solo una gonnella per ricoprire le sue vergogne. Un ghigno malefico e soddisfatto sulla bocca sottile: “anche questa volta: ho vinto io” sembrava volergli dire. Distolse la sua mente irata da quell’immagine. Era stato furbo il barbaro... doveva aver fatto cantare una delle sentinella prima di ucciderla. Ora la sua legione era senza rifornimenti: niente ripari, niente cibo, niente di niente!
«Generale, cosa facciamo?» un soldato, forse un collaboratore di un collaboratore di un suo collaboratore... ufficiale di basso grado al massimo. Giovane; aveva ancora una lanugine da ragazzo al posto della barba.
«Cosa vuoi fare, tu?» rispose astioso. «Torniamo al confine.»
«Non proseguiamo? Potrebbero essere poco lontani.»
«Tutto è bruciato da almeno dieci giorni. Non so quale possa essere la loro meta. Potrebbero anche essere rimasti nei dintorni per tornare presto... In caso contrario saranno già lontani da noi.»
«Ma hanno donne e bambini.»
Titurio si voltò. Vide riflessi i fulmini rossi che accecavano i suoi occhi di rabbia negli occhi del soldato. «Tu hai idea di chi sia quello con cui stai parlando?!»
Il soldato tremolò.
«Io sono Gaio Tullio Titurio e non tollero di essere sfidato...»
«Mio cesare, ...»
«Tu, omuncolo insignificante che puzza ancora di latte, non sai chi sia quello con cui abbiamo a che fare!»
«È  solo un barbaro, cesare...  voi potrete sicuramente trovare un sassone.»
«No. Quello non è un sassone.» indicò il cielo.«Quello è il sassone che distruggerà tutto se non lo fermiamo. Vaughan non è un incivile. Vaughan parla latino; ovvio, visto che è venuto a conoscenza dei nostri piani. Vaughan è spietato. Vaughan è molto più furbo di quanto tu potrai mai essere.»
Il soldato restò immobile.
«Credi che lui non ci abbia pensato? Avrà usato cavalli e carri. Sapeva benissimo che stavamo arrivando; non si sarà di certo messo a scegliere cosa indossare per l’occasione!» lo spintonò «Non azzardarti mai più a dubitare del tuo comandante, intesi?»
Il giovane annuì con le lacrime agli occhi ma, senza scomporsi, le ricacciò indietro e se ne andò a passo di marcia. “Non piangere davanti a me, ragazzo. Io, come Vaughan, non ho pietà per chi non mi rispetta: romano o barbaro che sia.”
«Cesare!» lo chiamò un luogotenente.
«Cosa c’è?»
«Abbiamo trovato una cosa. È  forse il caso che veniate a vedere.»
Titurio, con non poca fatica, combattendo contro le sue gambe che gli imponevano di rallentare, si avvicinò a passo svelto. Gli fu dato fra le mani un bracciale. Un bel bracciale: molto ornato, forse anche troppo, con pietre preziose e disegni geometrici.. Eccessivamente vistoso per una giovane donna romana, per quanto licenziosa potesse essere... Ma la fattura era senz’altro preziosa e, soprattutto, era certamente un bracciale romano.«È un bracciale di fattura romana, non è bruciato. Credo sia ferro battuto.» Titurio si rigirò il manufatto fra le mani. «Perché non si è sciolto nel calore?»
L’altro fece spallucce. «Era fra delle pietre cadute, forse questo l’ha protetto dalle fiamme.»
Annuì assente, arricciando le labbra. Chissà perché era lì? Forse che... «Le donne che tengono molti giovani ufficiali, ci sono tutte?»
«Non lo so, generale. Volete cha faccia ricerche?»
«Prima controlla al bordello. Forse una o due si sono allontanate e i barbari gli hanno fatto la festa.»
«Sì, comandante.»
Fece per andarsene, lentamente.
«Comandante?» lo raggiunse un soldato.
«Cos’altro c’è?» chiese calmo.
«Perché è importante sapere chi ha lasciato il bracciale?» Non era il tono alto che aveva avuto il soldato di prima, era l’atteggiamento di chi vuole imparare.
«Forse Vaughan non è tanto furbo come pensavo...» bisbigliò di spalle.
 

 
CIRENAICA, CONFINE DELLE TERRE DI ROMA
 
 
Poco dopo si risveglio con la testa dolorante e il sangue secco sulle ferite insabbiate sulla sua brandina nella tenda del presidio. Alzò leggermente il busto, sperando di sentirsi meglio. La mossa sortì l’effetto contrario. Diede di stomaco.  Sbatté le palpebre cercando di rischiararsi la vista. Vide il comandante dell’accampamento sbraitare con il suo solito dito alzato, mentre ogni tanto si lisciava la barba. Accanto a lui c’era Decio... però, l’aveva conciato per le feste... aveva il volto livido e le braccia ferite. Le gambe erano sporche del sangue di Maximus. Muoveva la testa annuendo. La voce del comandante gli si insinuò nella mente come un ratto meschino della casa di un patrizio: «Siete tutti coinvolti! ...rissa del tutto immotivata... Decio... istigatore... tutti puniti! Decio... gladiatore... Maximus... pretoriano, a Roma... Lucius ...Confine Nord.»
A quel punto Lucius capì...


 
ROMA
 
 
Nessun’ombra di Iolanda Quintilia, eppure era l’ora settima1. Passeggiava con una tunica semplice e poco preziosa nei fori, aspettando paziente. Si appoggiò alla statua di chissà chi... Non gli importava. Guardandosi intorno vide il figlio di Titurio... senatore anche lui. Un giorno, questo lo sapeva bene, si sarebbe ritrovato a  comandare insieme a lui, se i fatti di quel giorno sarebbero andati a buon fine. Vide accanto a lui la sua giovane moglie. Aveva almeno vent’anni meno di lui. Ecco ciò che dava il potere: ricchezza e sicurezza. E le donne amavano sia l’una che l’altra. Potere, ricchezza e sicurezza, donne: questa era la formula. Peccato che lui partisse dall’avere l’attenzione di una donna e dovesse risalire fino al potere. Era più difficile, ma non impossibile. L’avrebbe convinta, ne era sicuro. Si immaginò al posto di Mario Tullio Liviano, con una bella donna a fianco, con una miriade di figli - bastardi e non - sparsi in ogni carica romana, e soprattutto con il vero potere fra le mani. Continuò a guardarsi intorno per un bel po’, ma alla fine, allo scoccare dell’ora ottava,  il suo sguardo incontrò quello di Iolanda Quintilia, con i capelli nascosti da una parrucca bionda, fatta di capelli barbari, la veste rosata di lino leggerissima e, immaginò, finissima... Le fece un cenno. Lei congedò la serva con un gesto sbrigativo e si diresse verso di lui.
«Perdonatemi ma non mi è stato possibile venire prima.» mimò con la bocca.
Marco si avvicinò con passo svelto. «Non preoccupatevi.» e, senza un minimo di invito né provocazione, la baciò. Iolanda lo spinse via. «Siete pazzo?! Se ci vedono...»
«Ma io vi piaccio.» la contraddisse.
«Se ci vedono passiamo dei guai.» lo tirò dietro la colonna più vicina. Marco le prese le mani e la portò via. Si mosse abile fino ad arrivare in  un vicoletto, lontano dalla calca. Ricordava bene quel vicoletto. Era lì che, tempo prima un paio di volte, la puttana ispanica (Cecilia, possibile fosse questo il suo nome?) gli aveva praticato uno di quei suoi sempre apprezzati giochetti con la bocca sul... «Dove siamo?»
«In un posto sicuro...»
«Cosa volete da me, Marco? Mi piacete è vero, ma non posso sposarvi.»
«Ascoltami» le tappò la bocca «Per sposarci dobbiamo avere un figlio.»
«Generalmente è il contrario...»
«Se rimarresti incinta chi vorrebbe più sposarti?»
«Nessuno, credo.»
«Nessuno tranne me.»
Iolanda scosse la testa esterrefatta. «Dimenticate che mio padre ha potere di vita e di morte su di me!»
«No. Tuo padre ti venera come venera Giove stesso. Se io mi farò avanti per salvare te e la sua famiglia non potrà che accettarmi.»
«No, Marco. Voi siete pazzo. Mi chiedete di gettare via il mio onore per nulla. Per delle vaghe presunzioni.» abbassò lo sguardo «Potremmo diventare amanti una volta che io sia sposata. Staremo attenti e nessuno ci scoprirà. I vostri figli sembreranno quelli di mio marito.»
No. Diventare l’amante di una patrizia non sarebbe valso a nulla. Doveva ottenere il sostegno del padre: un senatore lo avrebbe appoggiato per rientrare nell’esercito, ritornare a comandare... «Non voglio essere il tuo amante.»
«Allora credo proprio sia finita qui.» serrò la bocca sensuale e gli voltò le spalle.
Marco ebbe la sensazione che il mondo gli crollasse sopra. Afferrò il polso di Iolanda con veemenza, la sbatté al muro guardandola con lussuria. Iolanda tirò fuori un coltellino dalla veste e, con la mano libera, lo graffiò al labbro superiore. Marco s’incendio di rabbia; afferrò la mano che lo aveva ferito e le stritolò il polso fino a che non lasciò cadere il coltellino, dolorante. Le diede uno schiaffo, e vide apparire un livido sanguinolento sulla sua guancia candida. «Marco, vi prego... vi ho dato fiducia, sono venuta qui. Rispettate la mia volontà, ve ne prego...» supplicò storcendo la bocca in una smorfia penosa, col volto coperto da un misto di sangue e lacrime.
Non andò molto fiero di quello che fece dopo...
 
 
QUATTRO MESI DOPO
 
TERRE DEI SASSONI
 
 
Cecilia guardava il fuoco che zampillava al centro della piazza del paese. Il villaggio era in costruzione da quattro mesi circa; le strade erano delineate dalle capanne costruite in pietra, le pietre erano tenute insieme grazie ad un intruglio di argilla e sassolini. Non tutte le case definitive erano pronte: alcuni vivevano ancora nelle capanne in paglia e legno. Ma non lei e Vaughan. Vivevano nella casa in pietra al centro della città, proprio davanti alla piazza dov’era seduta. Il piccolo scalciò, riportandola a pensare al parto. Le faceva male tutto... ormai era quasi al nono mese di gravidanza... Il parto di Brynhildr era stato davvero doloroso. La bambina era girata a piedi all’ingiù, quando le avevano spiegato che doveva uscire prima con la testa. Si era resa necessario l’intervento della levatrice del villaggio che era riuscita a girarla. Ricordava quanto Vaughan fosse in pena per lei: ammutolito era rimasto in un angolino della stanza per tutto il tempo, senza alzare lo sguardo. Vaughan ora era seduto accanto ad Olaf, che teneva Brynhildr dormiente fra le braccia. Olaf stravedeva per lei, e aveva cominciato a chiamarla “Brynny”. Era un uomo serioso, Olaf. Sempre col broncio ma gentile, un po’ come Vaughan, che al posto della serietà aveva la spietatezza e l’autorevolezza. Erano a Sud Est, se si considerava il loro vecchio villaggio. Il viaggio era stato stancante, ma allo stesso tempo veloce (rispetto a quanto aveva pensato prima). Il nuovo villaggio era in mezzo alla foresta nera. Era un posto molto più sicuro, ma anche più difficile da proteggere. Le querce alte dominavano il panorama, non permettendo la vista di potenziali nemici. Ma Vaughan e gli uomini avevano tirato su delle mura: piccole, nulla di importante. Cecilia aveva consigliato di ampliarle. Fearchar e Addolgar (un altro dei luogotenenti di Vaughan; un uomo grosso come un orso e con una grande cicatrice sul volto) avevano abbattuto una ventina di alberi al loro arrivo, per poter coltivare la terra. Il Grande Sacerdote aveva intagliato delle piccole donne dalle forme accentuate, conficcandole nel terreno per rendere fertile la terra; Cecilia non era sicura che la cosa funzionasse. C’erano anche un lago, delle piccole rapide, a quanto le aveva detto Vaughan. Si coprì meglio col mantello pesante che indossava. Il bambino scalciò di nuovo.  «Hai freddo?» le chiese Vaughan, stringendole le spalle con le mani.
Cecilia fece spallucce. «Non con il mantello.» Poi respirò profondamente, guardandolo negli occhi. «Il bambino continua a scalciare.»
Vaughan mise la mano sul pancione. «Ho pensato a come possiamo chiamarlo.»
Sorrise, invitandolo a rivelarglielo.
«Madron.»
Cecilia cambiò posizione. La schiena cominciava a dolerle troppo stando così. «Credevo lo volessi chiamare Olver, come tuo padre.»
Vaughan rise. «Seh! Ti immagini cosa direbbe la gente?» mimò il discorso.«“Olver Vaughanson? E chi è?” “Il figlio di Vaughan Olverson”»
Cecilia rise. Aveva davvero il senso dell’humor. «Ma perché Madron? È  un nome... norreno?»
«No, per la verità è celtico.»
«Parli la lingua dei Galli, Vaughan?»
«Non molto bene.» scosse la testa ridendo. «Solo un po'»
«E cosa significa?»
« "Fortunato".»
Cecilia sorrise stupita. «Come fai a sapere queste cose?»
«Quando commerci e viaggi entri a contatto con nuova gente. Gente diversa da te, ma non per questo meno interessante. Il greco l’ho imparato per commerciare a Marsiglia. Era una colonia greca, e molti sono rimasti. Fra chi parla gaelico, latino e greco, si preferisce il greco, perché è la lingua della maggioranza. Il mio latino scadente deriva dal fatto che commerciavamo pochissimo con i romani. La cosa avviene tuttora: Olaf non commercia con i romani. Però devo dire che il mio gaelico è passabile, migliore del mio latino sicuramente!»
Cecilia lo scrutò con attenzione: gli passò il pollice sulla bocca. «Hai un segno al lato della bocca.»
«Ho trentotto anni. Dovrai abituartici, è solo il primo di molti altri.»
«Il primo? Io avrei da ridire in proposito...» scherzò. Vaughan, sorridendo, prese la testa di Cecilia e se la portò al petto. Smise di ridere. «Ti pesa che io abbia dieci anni più di te?»
Cecilia si staccò da lui, lo guardò negli occhi e scosse la testa. «No.»
Vaughan, senza darle il tempo di rendersene conto, la baciò. «Se non fossi incinta...» le mormorò a fior di labbra.
«Sono spiacete di interrompervi, ma vorrei ricordarvi che sono qui anch’io.» si intromise Olaf, con fare simpatico, non staccando gli occhi da Brynhildr mentre la cullava addormentata. Cecilia rise. «Scusa, ti abbiamo messo in imbarazzo.» continuò a ridere, guardando Vaughan con complicità.
«Mio signore!» lo chiamò Fearchar. «Abbiamo lasciato a voi l’onore di spellare il cervo catturato, per togliergli le corna.»
«Arrivo, Fearchar. Grazie.» si alzò agile. Poteva anche avere dieci anni più di lei, ma era sicuramente in forma. «Che ne sarà di Brynny, quando crescerà?» le chiese Olaf, assorto.
«Non lo so. Credo che si sposerà e avrà dei figli come qualsiasi altra donna al villaggio. Non credo le dirò mai cosa facevo prima di sposare Vaughan.»
Olaf la guardò. «Le dirai mai che è una romana?»
«Se ne accorgerà da sola, ho paura. Non sono molti al villaggio ad avere colori scuri come i suoi.»
«E suo padre?»
«No.» scosse la testa. «Non credo le farò mai il nome di suo padre.»
Olaf sorrise. «Era lui ad essere così scuro?»
«No, per la verità lui aveva gli occhi verdi e la pelle più chiara della mia. Mio padre aveva la pelle scura, olivastra come la sua.»
Olaf annuì. «Hai nostalgia della tua terra?»
«Solo del caldo!» rise.
«È  naturale che ti manchi stare fra i romani, era la tua gente.»
Cecilia sorrise amaramente. «No. Non è mai stata la mia gente.» abbassò lo sguardo. «Mi hanno sempre trattata come un rifiuto umano solo per il lavoro che facevo. Tutti: uomini, donne, anche i bambini che giocavano mentre passavo per la strada. Qui è diverso. Sono passata dall’essere una prigioniera di guerra a sposare Vaughan.»
Olaf le sorrise. Vaughan venne verso di loro. Aiutando Cecilia ad alzarsi. Olaf passò Brynhildr a Vaughan e si alzò.
Olaf si rivolse a Vaughan in una lingua che lei non conosceva.
«Mιμνησκεις ταυτα ο ειπα περι αυταν, αδελφω;2»
«Tαυτα. 3» rispose lui altrettanto serio.
«Mi sbagliavo...» sorrise.
«Non parlate fra di voi, non vi capisco!» si lamentò scherzosamente.
I due fratelli non dissero nulla, limitandosi a sorridere. «Vaughan? Olaf? Cosa vi siete detti?!»
 


Note
1Ora settima =da mezzogiorno a mezzogiorno e tre quarti. 
2Mιμνησκεις ταυτα ο ειπα περι αυταν, αδελφω; = “Ricordi quelle cose che ho detto su di lei, fratello?”
3Tαυτα. = in questo caso usato come “Sì, certo”/“È  così”

(prima o poi riuscirò a mettere i collegamente sui numerini...)
  
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