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Autore: Hermione Weasley    03/10/2014    5 recensioni
Lei è in fuga da se stessa. A lui sono stati offerti due milioni di dollari per ucciderla. Ma le mire di qualcun altro, deciso a riunire sei persone che non hanno più niente da perdere, manderanno all'aria i loro piani.
-
“Chi cazzo è questo idiota?” Blaterò qualcuno.
“Un forestiere!” Decise un altro.
“Che razza di accento era quello?” Indagò un terzo.
Si sentì spingere bruscamente verso l'arena, senza poter far granché a riguardo. Quando le fu ad un misero metro di distanza, tra le grida che si alzavano dal gruppo, fu la voce bassa e pacata della donna a sovrastare tutte le altre.
“E' l'uomo che mi ucciderà.”

[Clint x Natasha + Avengers] [Dark!AU] [Completa]
Genere: Azione, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Capitolo 6 -

 

 

 

 

8 ore dopo

da qualche parte in Texas

 

Il furgone si arrestò con un brusco contraccolpo. Clint, che stava disperatamente tentando di recuperare almeno un paio d'ore di sonno sul materasso nel retro, venne sbalzato contro lo schienale del sedile anteriore, strappato definitivamente dal fragile torpore che era riuscito ad invocare con tanta fatica.

“M-Merda!” Imprecò, raddrizzandosi rapidamente. “Mi spieghi chi diavolo ti ha insegnato a guidare?”

Natasha, seduta al posto di guida, non si voltò neppure per prenderlo in considerazione: si limitò a stringere maggiormente il volante tra le mani e a fissare il parabrezza con aria contrariata. Clint seguì istintivamente lo sguardo della donna, sgranando gli occhi in un'espressione inorridita quando si accorse del fumo che fuoriusciva dalla carrozzeria.

“Cazzo.” Si affrettò ad uscire dal retro, inanellando un'imprecazione dopo l'altra finché non ebbe aggirato il furgone. Una nuvola di vapore e fumo lo investì non appena ebbe aperto il coperchio del cofano: fu costretto ad indietreggiare di svariati passi, tossendo rumorosamente. Solo quando la nebbia si fu sufficientemente diradata, si riavvicinò al mezzo per constatarne i danni.

Il silenzio sarebbe stato pressoché totale se non fosse stato per le auto che andavano e venivano nei due sensi di percorrenza: la strada si snodava infinita davanti e dietro di loro, col deserto e la poca vegetazione brulla ad interrompersi proprio laddove finiva l'asfalto. Il sole del primo pomeriggio era alto nel cielo e il sudore, fidato compagno degli ultimi giorni, arrivò prontamente ad imperlargli la fronte.

“Ci capisci qualcosa o stai solo aspettando una qualche ispirazione?” Natasha si era sporta dal finestrino, rivolgendole uno di quei suoi sguardi irritati e perplessi che lo mandavano su di giri.

“Sto aspettando che il motore si freddi,” replicò in tono altrettanto insopportabile, ignorando le occhiate che Thor stava lanciando alternativamente all'uno e all'altra.

La donna trattenne lo sguardo su di lui ancora per qualche istante prima di decidersi a lasciar andare il volante e abbandonarsi contro la fodera lisa e scucita del sedile, sollevando le braccia sopra la testa per sgranchirsi le spalle. La osservò di sottecchi mentre arcuava la schiena e sporgeva in avanti il petto, come ipnotizzato. Fu il rumore della portiera che si richiudeva a farlo trasalire, richiamandolo all'attenzione.

Thor l'aveva affiancato, i capelli lunghi tirati all'indietro, le braccia gonfie strizzate in una t-shirt che aveva l'aria di stargli un po' troppo piccola.

“Te ne intendi?” Gli domandò, stringendo gli occhi per ripararsi in qualche modo dalla luce abbacinante in cui erano immersi.

“Abbastanza,” confermò Clint. “Dev'essere un problema di surriscaldamento.”

“Puoi ripararlo?”

Annuì, testando il calore con un dito prima di decidersi a trafficare con le varie parti. “C'è una cassetta degli attrezzi sul retro.” Thor non se lo fece ripetere due volte: andò e tornò in pochi attimi.

“Credi che riuscirà a portarci fino in Louisiana?”

“Non lo so,” ammise, esaminando gli utensili a disposizione: non molti e decisamente non quelli più adatti.

Natasha, che aveva allungato i piedi sopra al cruscotto, non sembrava intenzionata a perdersi nemmeno una parola di quella conversazione: gli sembrava di potersi sentire i suoi penetranti occhi addosso.

“Forse dovremmo toglierci dalla strada,” mormorò l'altro, sovrappensiero. “Stiamo ingombrando la carreggiata.”

Con un furgone rubato, tra l'altro. Clint non era affatto sicuro che restare fermi in bella mostra, a disposizione di infiniti sguardi indiscreti, fosse una buona idea.

“Che suggerisci di fare? A spinta?”

L'uomo si strinse nelle spalle, come se per lui non fosse affatto un problema.

“Scommetto che sposti un sacco di camion nel tuo tempo libero.”

Riuscì a strappargli una risata che gli illuminò tutto il viso. Clint non era esattamente uno a cui piacesse osservare la gente per carpirne ogni più intimo segreto, ma di una cosa si era accorto: la tristezza non era la condizione che più s'addiceva al suo imponente compagno di viaggio. Tutte le volte che accennava un sorriso sembrava doversi trattenere per non lasciarsi trasportare. Come se ci tenesse a ricordarsi, ogni santa volta, che non aveva proprio alcun motivo per essere anche solo momentaneamente felice, che la sua vita era una merda e lui con lei.

Lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva sul retro. Dopo un'ultima occhiata al motore, batté una mano sulla portiera di Natasha.

“Dobbiamo accostare,” fece una smorfia al modo in cui si era sistemata. “E togli i piedi da lì.”

La sentì sbuffare mentre si allontanava, raggiungendo Thor, già in posizione sul retro. “Al tre,” avvertì la ragazza che stava provvedendo a girare le ruote. “Uno, due... tre!”

Sotto la spinta dei due, il furgone oscillò lentamente verso il lato della strada, sbandando leggermente oltre il limite dell'asfalto prima di fermarsi del tutto.

Le note stonate della suoneria di un cellulare riempirono l'aria un attimo dopo: Clint riconobbe il rumore infernale del suo prepagato, affrettandosi ad andarlo a recuperare nella sacca abbandonata tra le cianfrusaglie del retro. Erano già passate quarantotto ore? Fece un rapido calcolo mentale mentre si allontanava a grandi passi dal furgone per ottenere almeno un po' di privacy.

Lo lasciò squillare per un po' prima di decidersi a rispondere.

“Pronto?”

“Allora?” La voce gelida della donna ebbe il potere di metterlo a disagio, il che era stupido, considerata la distanza che li separava.

“Ci sto ancora lavorando.”

Il silenzio dall'altro capo della cornetta si estese fin troppo a lungo: Clint era convinto di poter sentire il respiro accelerato della signora Drakov, la rabbia mal repressa che faticava a trattenere. Non dubitava che, prima o poi, i suoi nervi avrebbero ceduto e il peso del lutto l'avrebbe fatta uscire di testa.

“Aveva detto che ci avrebbe messo meno di quarantotto ore.”

“Mi sbagliavo. La donna è rapida e astuta...”

“L'avevo avvertita.”

“Lo so. Ma non potevo saperlo senza prima testarlo con mano.”

“Se non è in grado di portare a ter-”

“Sono perfettamente in grado. Mi dia solo più tempo,” indurì il tono di voce, determinato a non farsi prendere a pesci in faccia. Non era la puttana di nessuno, era stata lei a cercarlo per risolverle quello stupido problema e, nonostante il lauto compenso che l'aspettava, proprio niente lo obbligava a farsi trattare come un incompetente qualunque. “Dopotutto non avevamo stabilito una scadenza, no? Vuole Black Widow morta e l'avrà.”

Riuscì a figurarsela mentre si irrigidiva per l'irritazione e lo mandava mentalmente al diavolo in rapida sequenza.

“Non si prenda gioco di me, signor Hawkeye.” Quando riprese a parlare, il tono basso e implacabile che gli rivolse ebbe il potere di fargli gelare il sangue nelle vene. “Porti a termine il lavoro e non pensi di potermi ingannare.”

“Non ho affatto intenzione di ingannarla.”

“Lo spero per lei.” Il modo in cui pronunciò quelle ultime parole, gli fece capire che non stava affatto scherzando. Si morse il labbro inferiore, trattenendo inconsapevolmente il respiro. Si rese improvvisamente conto di aver commesso un altro, madornale errore: non aveva la più pallida idea di chi fosse, esattamente, Elizaveta Drakov. Sapeva che Natasha aveva ucciso sua figlia per vendicarsi del marito, ma... del perché ce ne fosse stato il bisogno, tanto per cominciare, quello non se l'era mai chiesto. La donna gli era sembrata inoffensiva: una ricca annoiata che non riusciva a superare il dolore per la perdita della figlia. Ma adesso, la possibilità che si trattasse di una criminale fatta e finita, una che per di più aveva a disposizione fondi illimitati, gli si palesò finalmente davanti agli occhi in tutta la sua inquietante fisionomia.

Soffocò un sospiro, coprendosi gli occhi con una mano: possibile che il pensiero di quei due milioni di dollari l'avesse accecato a tal punto? Possibile che nonostante tutti i suoi buoni propositi, tutte quelle ciniche regole di vita che si era imposto pur di sopravvivere, si fossero sfaldate come neve al sole davanti alla semplice promessa di tutti quei soldi?

“Ci risentiamo tra quarantotto ore.” Fu la donna a spezzare l'ennesima, lunga pausa.

“Quarantotto ore,” convenne Clint prima di interrompere la comunicazione.

Lo stomaco gli si era aggrovigliato su se stesso. Qualcosa gli diceva che, allo scadere di quei due giorni seguenti, guadagnare altro tempo sarebbe stato praticamente impossibile. Restò immobile per qualche istante, lasciando che il suo sguardo si perdesse oltre l'ondeggiante linea dell'orizzonte, smerigliata dal calore rilasciato dall'asfalto. Si concesse ancora un paio di secondi prima di tornare indietro.

 

*

 

Lo sfregare della spalla ustionata contro il metallo ancora caldo della portiera la costrinse a svegliarsi con un vago gemito di stizza. Il cuore le batteva rapidamente, il principio di un attacco di panico bloccato da qualche parte all'altezza del petto. Tentò di allontanare il pensiero di Ivan il più velocemente possibile, concentrandosi sui primi oggetti concreti su cui riuscì a posare lo sguardo ancora assonnato. Aveva imparato a dormire per terra, in poltrona, in treno, in aereo, persino all'aria aperta senza il conforto del benché minimo riparo: quella non era di certo la situazione più scomoda in cui si fosse mai venuta a trovare. Eppure il sonno arrivava sempre faticosamente e mai troppo a lungo. Le sembrava, quasi, che il volto di Ivan fosse costantemente in agguato dietro la sue palpebre, in attesa del prossimo momento propizio in cui uscire allo scoperto per tormentarla.

I suoi occhi non impiegarono molto ad abituarsi all'oscurità circostante: i fasci gialli dei fari illuminavano strette porzioni di strada e, in alto, il cielo affollato di stelle offriva l'unico, vero spettacolo degno di nota che il deserto le avesse concesso in quei giorni.

Si sistemò meglio contro lo zaino appallottolato che stava usando a mo' di cuscino, cercando una posizione più comoda.

Solo allora prese atto della presenza di Clint al posto di guida, lo sguardo concentrato, il sonno ad appesantirgli gli occhi. Thor, che riposava nel retro, sembrava essere l'unico in grado di lasciarsi conquistare dalle braccia di Morfeo anche in circostanze tanto scomode. Ci avevano messo circa un'ora a rimettere in sesto il furgone: erano ripartiti subito dopo, facendo solo qualche sporadica sosta per bere, mangiare e andare in bagno.

“Dove siamo?” Domandò in un soffio, tornando a rivolgersi all'uomo al suo fianco.

“Ancora un paio d'ore e saremo in Louisiana.” La sua voce le sembrò più bassa del solito. Più calda, forse.

“Vuoi che ti dia il cambio?”

“No. Ce la faccio.”

“Non sembrerebbe.”

“Sono sveglio, ti dico,” insisté, troppo stanco per metterci tutta l'irritazione alla quale si era ormai abbondantemente abituata.

“Come vuoi.” Sbuffò qualcosa, rannicchiandosi di nuovo contro la portiera.

“Incubi?”

Le parole di Clint la costrinsero a prestargli di nuovo attenzione. Nonostante la stanchezza sentì comunque il calore dell'imbarazzo risalirle su per le guance.

“Ho detto qualcosa?” Le ci vollero un paio di secondi prima di decidersi a chiederglielo: temeva che la risposta non le sarebbe piaciuta affatto.

“Sì, ma...” scosse il capo, scoccandole una rapida occhiata. “... in una lingua che non conosco. Immagino sia russo.”

Natasha annuì lentamente, rimettendosi dritta contro la parete del'abitacolo per poterlo guardare meglio, studiare il suo profilo scuro stagliato contro il cielo buio oltre il finestrino.

“Di dov'è che sei di preciso?”

“Volgograd.”

Sembrò riflettere per qualche istante per poi decretare che no, non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.

“Era la vecchia Stalingrado,” suggerì a mezza voce, neanche lei sapeva bene perché. Il silenzio si prolungò tanto che Natasha fu piuttosto certa che la conversazione si fosse conclusa... finché Clint non riprese a parlare.

“Non c'era nessun indirizzo insieme al tuo nome,” constatò. Un'affermazione più che una domanda.

“Non sono mai rimasta nello stesso posto troppo a lungo.” Come i loro misteriosi e presunti datori di lavoro si aspettassero che Thor riuscisse a trovarla, quello non l'aveva ancora capito. Ma d'altro canto, se avessero seguito l'ordine impartito dai pacchi che avevano ricevuto, l'ex pugile non sarebbe stato solo nella ricerca: se Clint l'aveva trovata autonomamente, avrebbe potuto rifarlo anche in compagnia di Thor.

“Non abiti da nessuna parte?” Il concetto non pareva risuonargli granché sensato.

“No.”

“La scuola? Neppure quella hai mai frequentato?”

Natasha si strinse nelle spalle. “Studiavo a casa con mio padre.” Fisica, geografia, matematica, scienze... Ivan non aveva lasciato niente al caso per quanto concerneva la sua educazione. Quand'era stata troppo piccola per occuparsi di altro che piccoli furti, la maggior parte del tempo che avevano trascorso insieme, da un capo all'altro del mondo, era stato speso in lezioni, sia teoriche che sul campo. Non aveva mai avuto un libro di testo, eppure non si era mai sentita stupida o ignorante. Per quanto riguardava le lingue, poi, quelle le aveva imparate per pura necessità e a seconda delle mete scelte da suo padre.

Rieccolo, il pensiero di Ivan. Che Natasha lo volesse oppure no, era ancora capace di insinuarsi nella sua testa, controllarla a distanza anche adesso che non c'era più. Imporsi nelle sue azioni, modificare la sua volontà, farla agire di conseguenza...

“Non credevo avessi un padre.”

“Tutti hanno un padre,” obiettò.

“Lo so, non...” scosse il capo, infastidito. “Lascia perdere.”

Tornò ad occhieggiare la strada, sforzandosi di concentrarsi su altro, una qualsiasi idea che non avesse a che fare col padre putativo. Ma quale che fosse lo stupido dettaglio su cui focalizzava la sua attenzione, finiva sempre per tornare al medesimo punto di partenza.

“E' morto da poco,” si ritrovò a dire, malcelando l'urgenza che la stava crescendo nello stomaco.

Clint le lanciò un'occhiata sospetta e insieme vagamente allarmata.

“Mi... dispiace. Suppongo.” Faticò a risponderle. Natasha riusciva a percepire nettamente l'incertezza nel suo tono di voce: era bastata un'informazione personale scambiata in modo apparentemente disinteressato per metterlo all'erta. “Malattia?”

La domanda di Clint non era altro che un misero tentativo di estenderle una riluttante cortesia: quasi non avesse voluto lasciar cadere la conversazione nel niente dopo che lei gli aveva inspiegabilmente parlato di suo padre. Ma, Natasha si rese conto, non aveva aspettato altro che quello in tutti quei giorni che erano trascorsi dalla sua fuga da San Paolo: solo che qualcuno le desse una scusa per parlare di suo padre, per confessare il suo peccato, dargli voce e forma, renderlo cosa fisica così da permetterle di affrontarlo come faceva con le sue vittime designate.

“L'ho ucciso.”

Studiò attentamente la sua espressione finché non lo vide... sorridere. Per poi sbuffare una risata incredula.

“L'hai ucciso,” ribadì, come per assicurarsi di aver capito bene.

La situazione era a dir poco assurda, ma Natasha se ne sentì contagiata: prima che potessero rendersene conto si erano messi tutti e due a ridere sommessamente, quasi si fossero appena raccontati la barzelletta del secolo.

“Perché stai ridendo?”

“Anche tu stai ridendo.”

“Hai cominciato tu.”

“No... no hai ragione,” ammise, tentando di placarsi. “Scusa.” Natasha scrollò le spalle come a dirgli che non aveva alcuna importanza. “Quanto tempo fa?”

“Una settimana.” Gli ultimi giorni erano trascorsi tanto rapidamente e confusamente, da impedirle di fare un calcolo preciso. C'erano stati dei minuti che le erano parsi lunghi ore, interi pomeriggi che invece erano scomparsi in un battito di ciglia. Era stato un sogno, un incubo. Anche in quell'istante i contorni della realtà le apparivano sfocati. Aveva davvero intrapreso un viaggio senza senso attraverso gli Stati Uniti per smascherare chiunque li avesse contattati? Se riavvolgeva il nastro dei suoi ricordi fino a poche settimane prima, ritrovava Ivan, la loro vita sradicata, le pianificazioni dei vari compiti, la minaccia del siero che riusciva a farle dimenticare chi fosse e cose fosse solita fare, gli allenamenti, le prove, i test... sentì l'ilarità immotivata scemarle via dal viso, evaporare per lasciare spazio al sordo rumore della propria coscienza.

“Perché?” Clint si era rifatto serio tanto quanto lei.

“Non lo so.”

“Ci sono un sacco di cose che non sai.”

“Dovevo farlo,” si corresse. Aveva formulato tante di quelle giustificazioni, una più improbabile dell'altra; aveva portato avanti lunghe ed estenuanti conversazioni con se stessa, con il fantasma di Ivan che abitava nella sua testa... eppure, adesso, non si sentiva più sicura di niente.

“Anch'io avrei volentieri ucciso mio padre.” Natasha si accigliò, fissandolo attentamente per tentare di capire le sue intenzioni.

“L'hai fatto?”

“Non ce n'è stato bisogno,” si voltò verso di lei, un mesto sorriso sul volto. “Incidente stradale.”

“Ma se l'avessi fatto... ti saresti sentito in colpa?”

“Certo.” Non sembrava avesse avuto bisogno di riflettere, prima di rispondere.

“Quindi non l'avresti fatto?”

“Non lo so.”

“Credevo che tu sapessi tutto,” gli fece notare, senza traccia d'astio nella voce.

“Io non so un cazzo,” decretò in tono definitivo. “Dico solo che arrivi ad un certo punto in cui... devi fare qualcosa di imperdonabile, se vuoi continuare a vivere.” (*)

Natasha soppesò attentamente le sue parole: nonostante non fosse affatto sicura di averne capito a pieno il senso, c'era qualcosa che le faceva suonare straordinariamente... vere.

“Dormi,” suggerì Clint. “Domani sarà un lungo giorno.”

 

*

 

12 ore dopo

Lafayette, Louisiana

 

 

“E' una chiesa.” La perplessità era palpabile nella voce di Thor.

Si fermarono di fronte al prato incolto che cresceva davanti alla sgangherata costruzione: doveva essere stata bianca, un tempo, ma adesso il volto che offriva ai passanti era una facciata di legno ingiallito segnata dagli anni e dal tempo avverso.

Non faceva eccessivamente caldo per essere le due del pomeriggio, ma l'umidità rendeva l'aria pressoché irrespirabile. Natasha aveva rinunciato ad asciugarsi il sudore dalla fronte svariate ore prima, quando aveva capito che sarebbe stato del tutto inutile.

La periferia di Lafayette sembrava essere impegnata in una costante lotta tra la vegetazione che rischiava di risucchiarla e strapparla alla città da una parte e la civilizzazione, con i suoi edifici e grattacieli moderni dall'altra. A giudicare dal punto in cui si trovavano, la controparte selvaggia sembrava aver avuto la meglio: grossi alberi scintillanti d'umidità proiettavano la loro ombra sulla strada quasi del tutto deserta. Qualche vecchia signora con abiti sbracciati e ventaglio alla mano, un paio di ragazzini in bicicletta, un cane impegnato ad annusare una radice affiorante dal terreno, le uniche presenze del quartiere in quell'ora meridiana.

“Magari il dottor Bruce Banner ha preso i voti,” argomentò Clint, sistemando meglio la tracolla della sacca che portava sulla schiena dopo essersi rifiutato categoricamente di lasciarla sul furgone. Il doppio filo nero tagliava in due la t-shirt bianca che indossava, mettendo in evidenza la linea dei pettorali.

“Se la tua teoria del lavoro è valida,” intervenne Thor, la voce bassa e rallentata, “che dovremmo volere da un prete?”

Il silenzio tornò a serpeggiare tutt'attorno, nell'aria solo il ronzio di qualche zanzara che aveva osato sfidare l'afa. Entrambi gli uomini si voltarono verso di lei, come in attesa di una sua decisione. Natasha non era sicura che la responsabilità le facesse piacere, ma sapeva che se non fosse stato per la sua insistenza, nemmeno sarebbero arrivati fino a quel punto.

“Entriamo a chiedere,” decretò infine, precedendoli su per il vialetto a malapena distinguibile tra le erbacce che, prima o poi, l'avrebbero inghiottito definitivamente. Era abituata a chiese enormi ed imponenti, fatte di pietra, oro e marmo, in cui l'aria è sempre fresca e la sensazione di trovarsi al cospetto di una forza sovrumana costantemente palpabile: quella chiesetta ai bordi di Lafayette non le ricordava niente che avesse mai visto prima. L'aria ristagnava tra le poche panche di legno disposte nell'unico grande stanzone. In fondo, al posto dell'abside, un pulpito, un enorme croce di legno e un organo dall'aria fin troppo moderna: mancavano solo un coro gospel e, magari, un esorcismo in corso a completare il quadretto.

“Aspettatemi qui,” suggerì senza neppure voltarsi per controllare che i due avessero recepito il messaggio. Percorse i pochi metri che la separavano dalla sagrestia di cui aveva individuato l'ingresso, una piccola porticina verniciata di bianco che si mimetizzava col resto della parete. Bussò un paio di volte. Qualcuno, dall'interno, la invitò ad entrare. La stanza era angusta e caldissima, pile di libri accatastati in più punti, mobili dall'aria antiquata le cui vetrinette lasciavano intravedere cimeli e oggetti sacri di vario genere. Un ventilatore elettrico appoggiato su una radio scassata smuoveva l'aria con un impercettibile ronzio, senza tuttavia offrire alcun beneficio degno di nota. La finestra aperta incorniciava uno scorcio del prato antistante la chiesa, alberi, un tratto di strada. Un uomo di colore sulla sessantina era seduto all'unica scrivania presente: sembrava impegnato nella lettura di un quotidiano di cui Natasha non riconobbe il titolo.

“Le confessioni cominciano tra mezz'ora,” le disse, sollevando lo sguardo su di lei solo in quell'istante. Parve sorpreso.

“Non sono qui per confessarmi,” replicò semplicemente. Restò in silenzio finché l'uomo, la confusione evidente sul suo volto, le fece cenno di accomodarsi.

“Sposti pure i libri.” Lo assecondò, richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle prima di sgombrare l'unica sedia disponibile e prendervi posto.

“Come posso aiutarla?” L'uomo, stempiato e sbarbato di fresco, non aveva affatto l'aria di essere un prete: era abituata ai ricchi paramenti delle chiese ortodosse o al massimo cattoliche, non ad abbigliamenti tanto formali... quotidiani. Ragnatele di rughe si aprivano agli angoli dei suoi occhi gentili, le iridi scure circondate da macchie giallognole.

“Lei è il dottor Bruce Banner?” Il sorriso cortese dello sconosciuto traballò un poco sotto il peso della sua domanda. Natasha si sforzò di apparire tranquilla, nell'intento di non dargli il benché minimo motivo di dubitare.

“No,” scosse leggermente il capo, facendosi infine sospettoso. “Chi lo vuole sapere?”

“Un'amica.”

“Il dottor Banner non ha amici.”

“A parte lei?” Azzardò, ottenendo in cambio un'occhiata placidamente divertita.

“A parte me,” convenne con l'aria di chi è appena stato colto in fallo.

“Ho bisogno di parlare con lui. Sa dove posso trovarlo?”

“Il dottor Banner non vuole essere trovato.”

“E' una cosa importante.”

“Chissà come mai, avete tutti da dire cose importanti, quando si tratta di Bruce.”

Quindi chiunque fosse questo sedicente dottore, non era la prima volta che qualcuno veniva a cercarlo. L'uomo sospirò pesantemente, massaggiandosi le tempie con entrambe le mani, come se il gesto avesse potuto aiutarlo a riflettere. Continuò per quella che a Natasha parve un'eternità, finché, scuotendo il capo in segno di disapprovazione, non si decise a tornare a guardarla.

“Ha da pagare?”

“Sì.” Natasha, che non aveva capito dove volesse andare a parare, si limitò ad assecondarlo.

“Chi è che le ha detto di venire a cercarlo qui?” Le domandò mentre si rimetteva in piedi per affacciarsi alla finestra spalancata.

“Un conoscente,” mentì con tanta naturalezza che il reverendo non parve dubitare della sua buona fede, annuendo distrattamente come a prenderne atto.

“Jonah!” Affacciandosi quel tanto che la zanzariera glielo permetteva, richiamò l'attenzione di uno dei ragazzini in bicicletta che stavano giocando lungo la strada. Gli fece bruscamente cenno di avvicinarsi. “Questa signora vuole parlare con il dottore,” Natasha si vide indicare mentre l'uomo lo informava. Il ragazzino, alto, scuro e smilzo con i capelli acconciati in una cascata di treccine, sembrò cogliere al volo le istruzioni dell'uomo. “Aspettala là fuori,” lo congedò il reverendo, aspettando che si fosse nuovamente allontanato per tornare a rivolgerlesi. “Qualsiasi cosa succeda, non lo faccia arrabbiare.”

“Non ho intenzione di far arrabbiare un ragazzino.”

L'uomo si mise a ridere di gusto. “Chi? Jonah? Io parlavo del dottore.”

“Non voglio far arrabbiare neanche lui.”

“Se è venuto fin qui è perché non voleva essere trovato.”

“Ho ragione di credere che si trovi in pericolo.” Si augurò che la stessa scusa che avevano propinato a Thor, funzionasse anche con lui.

“Il dottore è già in pericolo,” mormorò l'altro in tono sconsolato.

“Perché?”

Il reverendo sembrò valutare se rispondere o meno, optando infine per una ragionevole reticenza.

“Lei si limiti a non farlo arrabbiare,” ribadì.

L'unica cosa che Natasha aveva intuito di questo dottor Bruce Banner era che non amava la compagnia, che era predisposto all'irascibilità e che non doveva essere originario del posto. Giocherellò con qualche altra possibilità prima di decidersi ad annuire e rimettersi in piedi, raggiungendo la porticina dalla quale era entrata.

“La ringrazio della disponibilità.”

“Aspetti a ringraziarmi,” la mise in guardia l'altro, riprendendo il suo posto dietro la scrivania. Lo sguardo dovette cadergli su qualcosa in particolare perché il viso gli si illuminò d'improvvisa consapevolezza. “Potrebbe portargli questo?”

Natasha intuì di cosa si trattasse prima ancora di vedere lo sgangherato pacchetto rivestito di carta marroncina, tenuto chiuso da uno spago sottile: il gemello di quello che aveva ricevuto mentre si trovava in Arizona.

“E' arrivato un paio di giorni fa, e non ho avuto modo di consegnarglielo.”

“Nessun problema.”

Prese l'involto dalle mani del reverendo, rivolgendogli un frettoloso cenno di saluto prima di uscire dalla sagrestia per riunirsi a Clint e Thor che, nel frattempo, avevano preso posto su una delle panche di fondo, sotto gli occhi indignati di una fedele che non sembrava essere granché d'accordo con le tenute estive dei due.

“Allora?”

Ignorò l'inquisizione di Thor, tirando dritto finché non furono fuori, sul vialetto che striava il prato bruciacchiato. Il piccolo Jonah la stava già aspettando giù in strada, mentre il profilo del reverendo si stagliava nel quadro della finestra da cui l'aveva visto affacciarsi pochi attimi prima: non sembrava molto contento di riscoprirla in compagnia.

Natasha si voltò finalmente verso i due, mostrando loro il pacchetto che l'uomo le aveva consegnato.

“Allora siamo nel posto giusto.”



__________________________________________

Note:
Chi aveva ipotizzato che il quarto Vendicatore fosse Bruce Banner aveva indovinato! Ho barato di nuovo e questo è un capitolo "di passaggio": Clint e Natasha cominciano a scambiarsi qualche altra parola (oltre agli insulti che ci stanno sempre :P), mentre Thor si sforza di tenersi in disparte... Bruce invece è andato a nascondersi in Louisiana per motivi che scopriremo nel prossimo capitolo. Tutta l'idea di questa storia era nata perché volevo sfruttare proprio l'ambientazione del Sud "umido" degli Stati Uniti (sulla scia di True Blood) e poi - come avrete intuito - ho finito per dirottare altrove il mio interesse. Ma volevo cimentarmici comunque, quindi sia questo che i prossimi due capitoli si svolgeranno proprio in questi luoghi.
Come sempre ringrazio la semper fidelis sclerosocia Eli \O/ e chiunque abbia letto & commentato :D mi fa sempre piacere, lo sapete!
Anyway, buon weekend e al prossimo capitolo!
S.

(*) citazione a memoria (e possibilmente non corretta) da "A dangerous method" di David Cronenberg.
  
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