Fugitive Slave Act
-servo
di due padroni-
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Lo darò all’Uomo Nero...
... che se lo tiene un anno intero...
Sollevava la zappa come fosse una piuma; sporgendosi
dalla finestra, attento a nascondere il viso pallido dalla luce del sole alto
di mezza giornata, ne vedeva il profilo perfetto incurvarsi su quella terra. La
sua terra.
Vedeva il ragazzo dalla pelle scura, quasi nera, afferrare lo strumento che
per lui era di un peso insostenibile e piantarlo nel terreno con uno schiocco
secco, ancora e ancora... Finché non
notava il suo petto alzarsi e abbassarsi in fretta, le labbra inumanamente
carnose schiuse verso il cielo in cerca d’aria fresca, e un braccio spaventosamente
muscoloso andava a coprirgli la fronte pulendone il sudore che, puntualmente,
tornava ad assalirlo dopo un istante. Era un
bello spettacolo, lo sapeva.
Tutta
quella forza in un corpo tanto simile al suo, tutta quella determinazione nel
portare a termine un lavoro in cambio di semplice cibo e acqua... era come se guardandolo
il suo corpo reagisse caricandosi di adrenalina, le sue braccia molli e le gambe
tremanti provavano invidia per quelle più forzute e scure al lavoro nei campi,
volevano prendere il loro posto.
Era un bello spettacolo che lo riempiva di gelosia.
Aveva visto arrivare quel nuovo schiavo tre mattine prima, portato
pulito e ben acconciato da suo padre direttamente dal mercato di neri di
Petersburg, Virginia.
Aveva visto suo padre strattonarlo con fierezza da un cappio che gli
cingeva il collo nero, lasciandogli già i primi lividi di quella che, sapeva,
sarebbe stata una lunga serie di segni indelebili sulla quella pelle...
Aveva provato gelosia fin da subito, nei suoi confronti: suo padre ne
lodava la forza e il silenzio –non osava mai parlare, a meno che non gli
venisse espressamente chiesto- e, in tre giorni, aveva ricevuto una sola
frustata per indulgenza in pieno petto, la ferita bruciante ben visibile anche
dalla sua finestra. E
poi, ovviamente, quella mattina ci si era messa anche sua madre a farglielo
odiare più del solito. Era entrata in camera all’improvviso, senza
nemmeno bussare, urlando contenta che persino il cardinale Church aveva
avanzato un’offerta per comprarselo, quello schiavo, talmente ubbidiente e
silenzioso da sembrare una macchina macina denaro. A
quel punto, tutti i suoi problemi sembravano convogliare in un’unica
direzione.
Vedeva chiaramente una strada proiettata dalla sua immaginazione sulla
parete, un cartello con un nome preciso che avrebbe cancellato al più presto:
Jack. Jack, lo schiavo. Era
saltato giù dal letto con foga, le guance arrossate dalla rabbia e dalla
determinazione di farlo fuori in tutti i sensi. Continuava ad osservarlo come
un cecchino, in attesa del momento giusto per colpire. Nella sua testa quel
nome rimbombava con prepotenza: Jack, quello che era riuscito a distrarre sua
madre dal suo problema alle gambe; Jack, quello che per tre giorni aveva
dormito nella stalla impedendogli di andare a trovare il suo cavallo per paura
che i suoi germi africani potessero attaccarlo e Jack... quello che era
riuscito a tenersi buono persino suo padre... Era troppo.
Lo odiava. Sentiva di odiarlo e se lo ripeteva più volte mentre, scendendo per
le scale, afferrava la frusta in lucida e flessuosa pelle nera che nascose nel
bordo dei pantaloni mentre, con occhi
infossati e sguardo di fuoco, lo raggiungeva a grandi falcate decise affondando
i piedi nel terreno, un passo sempre più lento dell’altro, sempre più
rumoroso...
Jack alzò gli occhi di scatto.
Era rimasto
immobile, quasi in ascolto, la zappa infossata nella terra e lo sguardo
attento, scattante, pronto a registrare qualunque cosa fosse segnale di
pericolo.
Il ragazzo dalle braccia molli e lo sguardo acceso perse un colpo: si
sentiva già molto meno forte e determinato di prima, più stanco, più
indeciso...tutto per colpa di quegli occhi nerissimi puntati su di lui; tutta
quella sicurezza era davvero svanita in un attimo... per lui? “Non sei così debole. Non sei troppo debole.
Colpisci!”
...
Jack si copriva il viso con entrambe le mani,
raccogliendo un lembo di pelle bruciata stesa a peso morto sullo zigomo rosa,
quasi del tutto scoperto.
Gli aveva portato via un pezzo di pelle dal viso, lo aveva sfigurato e gli
aveva inferto dolore, ma ancora non si sentiva soddisfatto. Ancora non si
sentiva...appagato.
Dentro di sé sapeva che, al suo posto, per quel colpo avrebbe urlato
come un dannato e avrebbe pianto, avrebbe pianto a lungo finché non lo avessero
curato e prestato attenzione a dovere. E invece lui che faceva?
Levava piano una mano, poi la seconda. Gli lanciava uno sguardo fulminante
uccidendolo silenziosamente e posava una mano appiccicosa di sangue sulla
zappa, l’ evidente intenzione di ignorare tutto e rimettersi a lavoro come se
lui non fosse mai arrivato e anzi, come se lui, in realtà, non esistesse
neanche.
“Non ti fa rabbia. Ti fa
impazzire...”
Prese un bel respiro e gli si
avvicinò, le gambe vacillanti di poco prima incredibilmente più salde, adesso,
incredibilmente pronte a scappare da suo padre raccontando che quell’indegno di
uno schiavo l’aveva colpito e lui aveva dovuto difendersi. Così suo padre
l’avrebbe tolto di mezzo per lui... –Abbi rispetto, negro!- ringhiò, sputandogli in faccia quella verità che a Jack
dava il voltastomaco, lo pietrificava portando a galla i ricordi del viaggio
per Petersburg, le urla a sfondo razziale dei negrieri... Il ragazzo bianco
davanti a lui ne sentiva il respiro accelerato, tradusse quello sguardo di
stupore improvviso come terrore e ne andò fiero. –Ricorda che
sono il tuo secondo padrone, negro.-
puntualizzò, dandogli subito le spalle procedendo lento, lasciandosi piano lo
schiavo e il campo alle spalle con un unico, stupido pensiero per la testa: “Hai visto, Jack, chi comanda davvero?”
***
Sua madre Anne adorava gli abiti sfarzosi ed
esageratamente voluminosi, soprattutto se, al pomeriggio, il suo programma
consisteva nel portare il suo diciassettenne figlio dal miglior medico di
Petersburg, il signor William Janet. La
donna dalla pelle bianchissima si dava gli ultimi ritocchi mentre –Harry?-
chiamava, voltandosi all’improvviso e incamminandosi verso la sala da pranzo. Il
suo Harry era lì, i capelli biondissimi e gli occhi azzurri come quelli del padre
puntati sulle mani pallide, tremanti, intrecciate sul tavolo attorno al manico
di una frusta. Anne notò che il
tremolio era anche peggiore del solito: non tossiva, certo, ma quella mani
dalle lunghe dita sottili non smettevano di ondeggiare, le gambe nascoste dal
tavolo oscillavano in maniera spaventosa.
–Harry?- provò di nuovo, sfiorandogli uno zigomo con l’indice. A quel contatto, Harry
rabbrividì.
Ricordò l’enorme idiozia che aveva compiuto neanche un’ora prima quando,
spinto dall’istinto, aveva dichiarato guerra al suo schiavo. L’aveva sfregiato
a vita, se ne rendeva conto solo adesso. Immaginò la sua guancia
sanguinante, la ferita di Jack trasferita sulla sua pelle bianca... –Anne!- il signor
Peter Harondale piombò nella stanza col fiatone, lo sguardo feroce e deluso
puntato sulla giovane moglie. –Che diamine hai fatto a Jack!?! Church non
sborserà un centesimo per uno schiavo sfigurato!- si avvicinò ad Anne per
colpirla, forse, ma la differenza abissale fra l’espressione shockata della
donna e quella impassibile di Harry era tanta. Troppa... –Harry!- urlò,
alzando una mano quasi a volerlo colpire (il che era strano, vista la natura
pacifica di Peter), ma poi si bloccò, pronunciando un semplice: -Sei stato
tu,vero?
-E’ così evidente!?- sbottò l’altro, mordendosi un
labbro a sangue. Era terribilmente arrabbiato con se stesso, terribilmente
pentito... e adesso ci si metteva anche suo padre! Sapeva che, se avesse potuto,
avrebbe rimediato a quello sbaglio ma adesso... adesso non c’era più tempo. Era
già troppo tardi, giusto? Cominciò a tremare visibilmente, le iridi sbiancate e
il respiro affannoso. Chiuse gli occhi assorbendo in silenzio il comando di suo
padre: -Stasera porterai la cena allo schiavo. E gli chiederai scusa, intesi?
Non possiamo permetterci che scappi come Cart...
Prese un respiro profondo, i passi di suo
padre che si allontanavano era la sua medicina, al momento. Un’ efficace medicina per il senso di
colpa che cominciava ad attanagliarlo (magari...sì, magari Jack l’avrebbe
perdonato e lui avrebbe perdonato se stesso, ci avrebbe decisamente messo una pietra
sopra...), ma un’inefficace medicina per il colpo basso che il suo orgoglio,
quella sera, si preparava a subire.
Harry Harondale non era né uno stupido né un
ignorante.
Amava studiare, amava osservare le dinamiche sociali di quanto gli
accadeva intorno ponendosi sempre nuove domande e dandosi sempre nuove
risposte.
Aveva osservato anche lo strano comportamento di suo padre, quel
pomeriggio: esageratamente inferocito, stranamente pronto a schiaffeggiare
moglie e figlio. Se fosse stato per il
denaro del signor Church, Harry non l’avrebbe compreso: erano ricchi, gli
Harondale...allora perché desiderare tanto altro denaro? Scacciò l’idea che,
forse, quella violenza era dovuta a Jack: era uno schiavo, no? Suo padre non
aveva mai avuto grande considerazione per gli schiavi...
Si pizzicò uno zigomo, lì dove aveva visto la frusta posarsi sulla
guancia del nero, e si mosse verso la stalla, un vassoio fornito di zuppa
semifredda e una brocca d’acqua.
Giunto alla stalla, bussò. Se ne pentì subito perché quello era un gesto
di rispetto davvero inappropriato alla situazione.
“Orgoglio” si ripeté
freddamente. Aprì
la porta con un cigolio restando accecato dal buio, un buio davvero troppo
fitto e surreale per permettergli anche solo di pensare di entrare lì dentro
e...camminare? Camminare al buio col
suo problemino alle gambe? Scosse il capo pronto a richiudere la porta ma
qualcosa, nel buio, si accese: un
piccolo puntino giallo, una delle lanterne che suo padre comprava una volta
all’anno ritenendole ‘speciali’. Harry non poté non sorprendesi di vederne una
ai piedi di un Jack steso sulla paglia, lo sguardo al soffitto, le braccia
incrociate dietro al capo. Sembrava dormisse, ma quella luce non poteva averla
accesa solo lui... in qualche modo, voleva ricordargli che lui era lì, e che
aveva bisogno di cibo e acqua.
Pian piano la luce si espandeva ed Harry lo raggiunse. Tenendo lo sguardo
fisso sullo schiavo, gli girò lentamente intorno poggiando il vassoio al suo fianco, sedendosi
poi sulla paglia come se non gli appartenesse; come se, in realtà, la stalla
fosse diventata ‘il regno di Jack’. Vide lo schiavo
sollevarsi piano sui gomiti, lo sguardo fisso sul vassoio e il respiro
silenzioso. Sembrava
volesse sparire: faceva di tutto per essere silenzioso, per non essere notato
mangiando e bevendo con lentezza estenuante, nonostante l’impellente impulso di
ingurgitare tutto e in fretta gli pizzicasse le mani. Ma doveva trattenersi: il
signor Harondale odiava la maleducazione e la fretta, e l’avrebbe sgridato o peggio,
se solo ne avesse mostrata un po’.
A fine ‘cena’ affondò le mani nella paglia. Immobile.
Attendeva con pazienza la solita frustata quotidiana di cui nessuno,
oltre a Peter stesso, conosceva l’esistenza: quell’uomo era furbo e non l’avrebbe
mai colpito, se non in un punto difficile da vedere... Alzò gli occhi di
scatto, evidentemente tremante e sconcertato: Harry! C’era lui, adesso, non
Peter. E se la cosa da un lato lo tranquillizzava, dall’altro lo spaventava a
morte. Harry,
il bianco dalla frusta facile come tutti gli altri, che lo colpiva senza
ragione.
E che adesso era lì, e continuava a fissarlo senza discrezione.
Pensò
che non avrebbe mai parlato, e invece Harry lo sorprese con un –Mi dispiace.
Per... per stamattina, intendo...-
Shockante. Semplicemente shockante.
Jack scosse il capo impercettibilmente dandosi dell’idiota: non poteva
pensare di credere al pentimento di quel bianco, giusto? Era un ragazzino
ipocrita. Un viziato. Un sadico. E, poteva almeno pensarlo? Uno stronzo.
C’erano almeno mille altre ragioni per cui odiarlo ma una spia luminosa, nella
mente di Jack, chiedeva improvvisamente attenzione: quel bianco stava solo
giocando, giusto? Allora... perché non giocare in due?
Annuì, mentre l’altro, evidentemente più rassicurato, sembrava in preda
ad una crisi improvvisa: doveva restare? Doveva andar via? Ormai le scuse erano
state impacchettate e regalate, perciò perché restare? Perché?
-
Cos’è quello?- chiese Harry, indicando un alone viola sul braccio di Jack, un
livido che mai né suo padre né lui gli avevano provocato.
E
adesso? Che doveva fare?
Jack
non ricordava quel lembo di pelle bruciato con violenza, dolorante nel giro di
un secondo dopo un semplice, sonoro schiocco. Non ricordava che,
sull’imbarcazione, uno dei negrieri aveva bevuto tanto, troppo... e alla fine
l’aveva colpito così, senza ragione.
Bruciava, Cristo Santo... poteva sentire le fiamme stritolargli la
pelle, il muscolo...tanto intenso da raggiungere l’osso, da farlo urlare per
qualcosa che si ritrovò a scoprire solo quel giorno: il dolore.
Non ricordava nulla di tutto questo, eppure la sua mente gli riproponeva
sempre le stesse immagini. Sempre.
All’infinito.
Jack non ricordava.
Jack
sapeva.
-E’ solo... uh..niente.- sospirò, ignorando
l’espressione improvvisamente rattristata del bianco al suo fianco, gli occhi
carichi di pietà, di compassione... pieni di tutto ciò che lui non aveva mai
chiesto né desiderava...
Harry sembrò incerto per qualche istante. Non credeva che la sua mente
potesse formulare così tante domande in così poco tempo, specialmente se quelle
domande avevano tutte come soggetto Jack, lo schiavo che, fino a poche ore
prima, avrebbe evitato a tutti i costi... Così –Jack-
si ritrovò a dire, ripetendo ad alta voce il primo quesito a caso. –diciamo che
hai un nome molto... strano, per essere un africano, gius...
–Diciamo che Jack non è il mio nome- lo interruppe l’altro, i pugni
stretti nascosti dietro la schiena, i denti serrati al ricordo del suo fortuito
‘battesimo’ improvvisato. Era
stato Peter a dargli quel nome insulso e insignificante. Era
stato Peter a imporgli di usarlo sempre, di non confidare mai a nessuno quello
vero, quello che solo Peter Harondale in persona poteva usare quando e come
voleva. Jack
rabbrividì al pensiero di un Harry curioso su quella storia e si voltò, dando
le spalle al suo secondo padrone senza fregarsene più di tanto, troppo preso a
salvarsi la pelle... –Allora
come ti chiami?- fu la richiesta di Harry che non poté evitare.
Si maledisse per l’istinto che, in lui, soffocava la ragione con troppa
facilità. Doveva imparare a mordersi la
lingua, giusto?
-
Ehi...Jack...?
- Tiboo!- Aveva urlato, Tiboo. Aveva urlato, trasgredendo ad una
delle regole del Codice degli Schiavi: ‘mai e poi mai, urlare al proprio
padrone. Mai.’
“Oh Dio Santo...” si tappò la
bocca con entrambe le mani cominciando a dondolare convulsamente avanti e
indietro, avanti e indietro... le aspettative erano così pessime che gli
pungevano gli occhi, le lacrime minacciavano di scivolar via mostrando quanto
fosse debole in realtà...
–Tiboo...-
ripeté Harry, l’espressione sognante e una voce calda, incredibilmente
tranquilla e rassicurante. –Strano, ma bellissimo.
E
quell’occhio strizzato per lui, per farlo rilassare e calmare, gli strappò un
sorriso nervoso. Un
sorriso che, forse, avrebbe cambiato molte cose fra loro...
–Beh,
Tiboo... buonanotte.- scandì Harry infondo alla stalla, un piccolo puntino bianco
contro il cielo nero che intravedeva dalla porta socchiusa.
Il ragazzo
l’aveva finalmente lasciato solo, eppure il pensiero di Harry non gli
dispiaceva affatto.
Ma c’era quella ferita sullo zigomo
a ricordargli qualcosa: Harry
era ipocrita. Viziato. Sadico.
Stronzo.
***
Harry aveva trascorso una
settimana - un’intera, maledetta settimana-, sorprendendosi spesso e volentieri
a pensare al giovane Tiboo, a quel segno sulla pelle di cui non aveva spiegato
la provenienza e a quello che lui stesso gli aveva inferto creando, ne era
certo, una crepa profonda che li avrebbe sempre divisi, che avrebbe sempre e
comunque portato il ragazzo di colore ad allontanarlo, a negargli la fiducia. Gli mancò il respiro appena si
accorse che una piccola parte di sé la desiderava davvero, quella fiducia. Era
uno stupido, Harry. Uno stupido e un illuso, uno che, stranamente, sentiva il
bisogno di farsi perdonare da un insignificante schiavo. Il suo schiavo, però. O meglio, lo schiavo
di suo padre. E a proposito di padre,
Harry era alquanto sorpreso di non vederlo in giro per casa da un po’, sempre
preso dal lavoro all’ufficio immigrazione e sempre pronto, ogni sera appena
tornato a casa, a chiudersi nella stalla con ‘Jack’ per definire il lavoro che
lo aspettava nei campi il giorno seguente.
Ad essere onesti, Peter Harondale sembrava preferire la compagnia dello
schiavo, a quella della famiglia.
A quella provocazione che Harry aveva avanzato a sua madre, un tiepido
pomeriggio di marzo, Anne aveva risposto con un semplice –Si vede che
preferisce gli affari, Harry.- liquidandolo con un gesto della mano che non
ammetteva repliche.
Continuarono così per un po’, ignorandosi a vicenda, finché la donna non
lo baciò sulla nuca con gesto affettuoso, quasi a farsi perdonare, per poi
annunciare che sarebbe andata dal dottor William. Harry osservò il luccichio
dei suoi occhi e decise che sì, l’atteggiamento adulante che sua madre aveva per
quel William lo infastidiva. E parecchio, anche. –Vengo anch’io!- si offrì, pur di tenerla
d’occhio. Ma Anne sorrise mesta e –Devi riposare, Harry. Ricordi che ha detto
William ieri? “La miglior cura è il riposo”.
–E tu allora? Che ci vai a fare?
Anne si rabbuiò improvvisamente. Si torturava le dita, le allacciava e
le slacciava con fare frenetico, nervoso e insopportabile. Alzò gli occhi su
suo figlio. Valeva la pena raccontargli la verità? C’era davvero bisogno di
parlargli di... quello?
Scosse
il capo, mentre – Dov’è tuo padre?- chiedeva, aprendo la porta d’ingresso e
restando lì immobile per un istante, lo sguardo basso pieno di rancore
nascosto.
–Ha appena lasciato il pranzo a Jack ma...
–Ecco- decretò Anne, uscendo definitivamente dal campo visivo del
biondo.
Harry, per fortuna, non sentì il suo sospiro di frustrazione al pensiero
di Peter e Jack.
Nella stalla.
Insieme.
Tiboo aveva trascorso
una settimana – un’intera, maledetta settimana- a torturarsi col pensiero del
suo secondo padrone.
Cercava di
scacciare quell’immagine che, nonostante i giorni passati, restava sempre
nitida e ben impressa negli occhi, nella mente, nella memoria.
Cercava di escluderlo dai suo pensieri, ma col buio della stalla ad
avvolgerlo, linee e colori non ci mettevano molto a fondersi formando un Harry
sorridente e rassicurante proprio lì, al suo fianco, un vassoio di cibo fra le
mani bianche. Si
infuriò oltre ogni limite e strinse i pugni con rabbia perché adesso, oltre
alla continua lotta nei campi, c’era un’altra battaglia che pian piano lo stava
risucchiando da dentro internamente, corrodendogli
non i muscoli, non le ossa... qualcosa di peggio; qualcosa che, sapeva, non potesse
ammalarsi né essere curata. Stava impazzendo? Sì. Sì, sicuramente.
Doveva ammetterlo a se stesso: Harry Harondale, diciassette anni, pelle
nivea e –avrebbe scommesso- liscissima, era un ragazzo non poco
trascurabile.
Possedeva quella che sua madre definiva ‘bellezza fisica’, un tipo di
bellezza che mai, nel suo villaggio in Sierra Leone, aveva visto prima: Harry il ragazzo alto e snello.
Harry il ragazzo dagli occhi di cielo. Harry il ragazzo dai capelli d’oro.
Harry l’angioletto... travestito da diavolo, però. Si pizzicò un braccio,
ancora più infuriato di prima: ma che gli saltava in testa? Perché aveva
elogiato in quel modo un tipo tanto ipocrita?
Se lo ripeté ancora, in silenzio: “Stai impazzendo, Tiboo. Qui ti faranno
impazzire tutti...”
Prese un bel respiro, si alzò afferrando la zappa che Peter gli
aveva consegnato la notte prima, poggiandola con cura sulla paglia, e si
diresse all’esterno aprendo la porta a passo di carica e... –Tiboo!
-
Harry! Cadde
con tonfo così forte che non credere di essersi rotto l’osso sacro fu quasi impossibile.
Si
portò subito una mano sul fondoschiena, massaggiandosi piano il punto dolorante
con una smorfia mentre Harry, quel piccolo ragazzo bianco che si era rivelato
stabile come un macigno, lo guardava dall’alto tra il divertito e il
dispiaciuto, un mezzo sorriso stampato sul viso luminoso, la brocca d’acqua che
reggeva ancora in mano per miracolo piena a metà, il contenuto versato
disastrosamente sulla maglia bianca e sottile del biondo.
Tiboo si rialzò in fretta: per un attimo –non più di un attimo, giusto?-
quella figura che gli aveva teso una mano che lui, prontamente, aveva respinto
malamente, l’aveva messo in difficoltà.
Tiboo aveva appena imparato ad
odiarlo,
ed Harry era piombato lì, senza alcun preavviso, con l’evidente
intenzione di fargli cambiare idea.
A quella reazione, il
biondo non fece una piega.
Non osò battere ciglio e non osò neppure continuare a guardarlo come se,
in realtà, Tiboo fosse il padrone e lui lo schiavo.
Harry si stupì di non provare odio per il vecchio ‘Jack’, né per il
nuovo Tiboo, decisamente più impudente e
disattento, pronto persino a rifiutare un suo aiuto, pur di non vedere
infangato l’orgoglio. E si stupì ancora di più, constatando che non era stato
il gesto di impudenza ad infastidirlo,
quanto il fatto che Tiboo l’avesse ignorato. Prese
un respiro profondo fissando la brocca malferma nella sua mano. Tiboo
era coraggioso, ma restava pur sempre uno schiavo: necessitava di un permesso,
per congedarsi dal suo (secondo) padrone. E adesso restava lì, immobile, a
studiarlo con avidità nell’attesa.
–Ti ho portato...- Harry sorrise, -...ti avevo portato dell’acqua. Non... non devi lavorare per forza se mio
padre non c’è...
–Già- esclamò Tiboo. Lo infastidiva, dannazione. Quel tentativo
malriuscito di dimostrarsi debole e di buon cuore gli metteva i nervi, lo
faceva inferocire... l’aveva preso per stupido?
Davvero credeva che, in quella trappola, ci sarebbe cascato? -Solo
che il mio padrone mi ha ordinato di
lavorare e devo farlo.- Allora Harry alzò gli occhi. E fu un colpo basso per l’orgoglio e
la sfacciataggine che Tiboo stava dimostrando in quel momento. Si disse di
no... si convinse che in quegli occhi non aveva letto dolore. Non aveva letto delusione. Ci aveva letto falsità. Furbizia.
E non doveva cercare di leggerci
altro.
–Posso
andare?- c’era incertezza, nella sua voce. Ma Tiboo ingoiò a vuoto pensando di
risucchiarla tutta, e si mosse non appena il lieve cenno di assenso di Harry
glielo permise.
Doveva pensare a lavorare.
Doveva pensare a guadagnarsi la libertà.
E smetterla...smetterla con quella storia del perdono...
“Scappa, Tiboo. Scappa...”
***
Era buio. Nero e bianco
indistinguibili, quella notte.
Nessuna stella ad osservarlo, nessuna luna a proteggerlo.
Era solo e aveva paura, tremava nascosto nella paglia sporca,
puzzolente, senza dar segno di voler cedere e venirne fuori, senza la minima
intenzione di farsi usare. Ancora.
Era morbida, quella paglia. E il ragazzo ci sguazzava dentro con
facilità, ne afferrava una manciata spargendo i fili dorati sul ventre, sul
viso, sull’intero corpo...
Aveva imparato a rendersi invisibile, la notte. Doveva
farlo per proteggersi da solo, per ribadire il possesso di ciò che era suo e
suo soltanto. Sentì
il cigolio distinto della porta e spense la lanterna con un soffio, una piccola
nuvola di fumo a strappargli quel po’ di ossigeno rimasto.
Si impose di non tossire e strinse i denti, si tappò il naso, restando
immobile. I passi si
avvicinavano e qualcuno lo chiamava con insistenza, sentiva chiaramente quel
‘Jack’ basso e gutturale cercarlo, tentare di farlo sbucar fuori per
condannarlo a qualcosa di orrendo... –Lo sai che ti trovo, piccolo Jack...
“Oh Cristo,Cristo, Cristo...!” si ripeteva, le mani incatenate sulla
bocca umida di lacrime, gli occhi pungenti per la disperazione: nonostante
tutto sapeva, era sicuro che l’avrebbe trovato...
...E così fu.
Ancora
tremo al ricordo di quanto successe quella notte, al ricordo di quelle urla
soffocate con la violenza, all’immagine che ancora oggi, nonostante la miseria
e la rabbia che ho l’abitudine di contemplare, mi attanaglia.
Rivedo l’alto e possente Peter Harondale che, armato di frusta, avvicina
una lanterna alla paglia, ci passa una mano con delicatezza... ne afferra una
manciata con impeto improvviso scoprendo il viso del giovane schiavo, umido di
disperazione, contorto dalla rassegnazione.
Rivedo Peter strattonarlo per un braccio e abbracciarlo con rabbia,
facendo scivolare le grandi mani avide su quelle spalle larghe e nere, sulla
schiena, ovunque...
Li rivedo... rivedo gli abiti strappati e la pelle nuda, due corpi uniti
contro natura, con ferocia, contro la fragile volontà dello schiavo che si
lascia andare, smette di combattere una battaglia che ha già perso.
E
si lascia usare, si lascia trasformare nel giocattolo di un uomo perverso e
senza orgoglio, un uomo per cui una sola umiliazione non è sufficiente: lo
rivedo ancora, un braccio teso e sollevato, calare con uno schiocco la frusta
sulle natiche massacrate di Tiboo, del suo falso e miserabile ‘Jack’...
Lascio
immaginare al lettore quante volte l’impulso di prenderlo con me sia stato
forte, troppo forte... insopportabile.
Volevo
evitargli un dolore inutile... come Morte, il mio compito è esattamente questo:
salvare vite sul lastrico, vite che la Vita stessa non è in grado di
proteggere, di custodire e guidare alla felicità o, almeno, a qualcosa di
giusto e meritato...
Rivedo il giovane nero
ficcarsi le unghie nell’avambraccio per infliggersi un’ ulteriore punizione...
e
quasi mi pento... per non averlo semplicemente preso con me.
***
Rivide suo padre solo
la mattina seguente a quello che lui stesso definiva l’incontro ‘speciale’ con
Jack, quello in cui, all’interno della stalla, Peter Harondale riuniva anche il
suo collega di lavoro John e i suoi due schiavi per chiarire alcuni punti della
questione ‘mietitura’. Era l’ultimo
giorno di marzo, ormai, e i padroni di tutta Petersburg si radunavano nelle
piazze per scambiare i propri schiavi –ammazzati dalla fatica, sciupati dalla
fame- con schiavi nuovi di zecca importati direttamente dall’Africa, pronti ad
essere sfruttati al meglio per la mietitura, per poi tornare ad essere
barattati. Solo
tre settimane prima, Harry era il primo ad uscire di casa in tutta fretta
dirigendosi con alcuni compagni nella piazza del marcato nero, eccitato all’idea
di seguire con i propri occhi la compravendita di schiavi, di poter giudicare
l’aspetto fisico e le prestazioni di ognuno facendo decine di scommesse mentre,
adesso, l’idea di guardare un nero passare da un destino orribile ad un altro
ancora peggio, sembrava quasi turbarlo.
Non riusciva a spiegarsene il perché, ma in qualche modo temeva che suo
padre potesse aver venduto Tiboo già all’alba, magari al signor Church che da
quando l’aveva notato aveva fatto pressioni su pressioni... Basta! Si diede una scrollata e uscì di
casa, il sole prossimo a tramontare ad accarezzargli il viso ricordandogli che
erano passate ben dieci ore da quando aveva visto Tiboo allontanarsi dalla stalla
in compagnia di suo padre.
Che fosse stato venduto? Che qualcuno, vedendone le ampie spalle e il
fisico prestante, avesse offerto per lui un’ottima cifra? Ok,
non poteva andare avanti così... con un Harry quasi disperato alla sola idea di
perdere uno schiavetto da quattro soldi, uno che, se ricordava bene, aveva
odiato sin dal primo giorno. Ma c’era qualcosa di
diverso, adesso. Qualcosa che lo spingeva a riconoscere nello schiavo una
specie di... amico? Forse. O forse
no.
Il fatto che fosse stato il
primo a parlargli con sincera
arroganza –gli altri lo rispettavano solo per convenienza- non significava
nulla, giusto?
-Ehi Harry!- si sentì chiamare all’improvviso, notando un viso
famigliare sbucare dalla strada e affacciarsi alla staccionata, lo sguardo
strafottente e l’atteggiamento snob inconfondibili. –Philip! –urlò, andandogli
incontro. Si strinsero la mano, si sorrisero a vicenda: Harry era contento,
contentissimo di rivedere quel Philip che non vedeva da tempo, quello stesso
Philip che faceva scommesse con lui, che disprezzava i neri quanto lui...
Improvvisamente, si incupì.
In un certo senso si sentiva un traditore di se stesso, del nuovo se stesso... l’Harry che mai e poi
mai avrebbe ripreso ad insultare gente nera e a maltrattarla solo per
gioco...
–Harry?- Philip gli pose una mano sulla spalla, scuotendolo, mentre con
un cenno del mento indicava un punto preciso alle sue spalle. –E’ il tuo
schiavo, quello?
Tuo. Schiavo...
Harry si voltò e non poté fare a meno di sorridere alla vista di un
Tiboo leggermente più curvo e cupo cha avanzava lento, solo e silenzioso fra
gli ortaggi del campo, afferrava un enorme secchio d’acqua spargendone un po’
ovunque, lo sguardo rigorosamente basso e sofferente. Doveva essere rimasto
a guardarlo un po’ troppo, forse, perché Philip inarcò un sopracciglio,
scuotendolo nuovamente e –Beh?- chiedendo, uno strano sorriso a tagliarli il
volto. Harry
annuì e Philip batté le mani, eccitato.
–E’ carino! Che ne dici se... ci divertiamo un po’ come ai vecchi tempi,
mm? Tu, io, Al...
– NO.
C’era un divieto, nella voce di Harry. Un divieto che suonava più come
una minaccia, per Philip: il moro avrebbe fatto meglio a levare le tende perché
quella rabbia e quella intransigenza che gli mostrava
il viso di Harry gli avrebbero causato problemi. Grandi problemi.
Ma la stupidità del
mondo non ha limiti e Philip, di stupidità, ne dimostrava anche troppa. –Andiamo, amico, non lo
picchiamo mica...- lo punzecchiò col gomito mancandolo: Harry si era
allontanato e, adesso, l’idea di ciò che Philip intendeva sembrava
spaventarlo... –Ho detto no. Vattene, Phil. Ci vediamo.
–Ma...
–Ho
detto..- prese un bel respiro prima di urlare: -..Ci vediamo!
Prese a gironzolare per
i campi, circumnavigando quella figura che sembrava non accorgersi della sua
presenza opprimente, sempre con lo sguardo fisso al suo lavoro, sempre con
movimenti rigidi e ben calcolati...
Alla fine, Harry non poteva resistere. Doveva
scoprire perché gli faceva quell’effetto strano ogni volta che gli gironzolava
intorno e doveva scoprirlo subito, altrimenti temeva davvero che sarebbe
impazzito.
Rimediò una brocca d’acqua in cucina e gli si avvicinò, silenzioso,
osservandolo lavorare per un altro po’ prima che l’altro si accorgesse della
sua presenza, poggiando a terra uno strano strumento metallico che lui non
conosceva.
Tiboo era strano, quel pomeriggio. Gli abiti coperti di sudore gli
aderivano con tale perfezione sul torace, che Harry dovette pizzicarsi un braccio
per smettere di fissarlo. E poi
c’era qualcosa di surreale, di impossibile sul suo viso... qualcosa che, ne era
certo, aveva semplicemente sognato: un sorriso.
Sentì il cuore fare un capriola nel petto mentre i neuroni scandivano la
situazione:
“Tiboo. Sorride. A me..!” Emozionato,
si sentiva emozionato a quella vista e al pensiero di averlo provocato lui,
quel sorriso. In un attimo si ritrovò ad elogiarne la bellezza senza provarne
una minima invidia; si sorprese a pensare che avrebbe voluto farlo sorridere
ancora e ancora. Sempre. Tutti quei
complessi sul perché si sentiva più leggero al solo guardarlo sparirono: stava
bene, era questo l’importante.
Ancora tremante per la sorpresa gli porse la brocca che, stavolta, Tiboo
accolse molto volentieri, portandosela alle labbra carnose e sorseggiandone
l’interno contenuto mentre qualche goccia gli rigava il mento, il collo...
All’improvviso anche il comando“Smettila
di guardarlo” si era messo a tacere. Tiboo
gli riconsegnò la brocca, concedendogli un secondo, luminoso sorriso, mentre
per un attimo Harry desiderò un misero contatto fra le loto dita. Contatto
che, con evidente disappunto di entrambi, non avvenne.
Osservò lo schiavo chinare il capo in un ringraziamento silenzioso, per
poi afferrare una piccola falce ai suoi piedi, pronto a tornare a rimettersi
all’opera e ad ignorarlo, almeno finché suo padre non fosse tornato concedendogli
il permesso per il riposo notturno. Un
brivido lo attraversò al pensiero: Harry non voleva essere ignorato. Harry non poteva. Non adesso che Tiboo
gli aveva regalato quei sorrisi così sinceri...
Gli avrebbe proposto una passeggiata, magari. O... o gliel’avrebbe
ordinato! “No, non lo faresti, Harry.”
Si era già rassegnato all’idea di rivederlo il giorno seguente quando
Tiboo, scagliando la falce nel terreno, posò gli occhi nei suoi e gli si
avvicinò, lentamente.
Harry si irrigidì all’istante, si maledisse per sembrare così debole e
per esserne quasi felice al tempo stesso, felice che ormai il ragazzo non lo
vedeva più come un padrone severo da accomodare, ma come qualcuno con cui
potersi comportare normalmente, sinceramente. Come
fosse un... amico? Sorrise allo
stesso pensiero di qualche ora prima, assorbendo tranquillamente le parole di
Tiboo, quasi sussurrate al suo orecchio: -Mio zio dovrebbe... dovrebbe essere
venduto oggi. Al mercato degli schiavi.- Harry deglutì a vuoto. Sapeva a cosa
quel discorso avrebbe portato...
–Mi
ci porta, padrone?
Ah ah...! Avreste
dovuto vedere la faccia di Harry: imporporata all’ inverosimile, una pellicola
trasparente attraverso cui Tiboo non leggeva che imbarazzo e una rabbia di cui
non capiva il motivo. Ma noi la ragione
la conosciamo, giusto?
“Come fosse... un amico?”
***
In meno di mezz’ora
erano al mercato di neri più grande della Virginia e Tiboo non ne era rimasto
affatto sorpreso.
Durante la notte, da quando Peter Harondale l’aveva lasciato solo con i
suoi pensieri suicidi e le sue ferite, lo schiavo aveva avuto sette ore per
riflettere...arrivando ad un’unica, precisa conclusione: la fuga.
Doveva
scappare e lo sapeva...l’aveva saputo sin dal primo giorno. Ma se all’inizio
l’idea della schiavitù sembrava quasi sopportabile, qualcosa che, nel bene o
nel male, sarebbe facilmente riuscito ad accettare, adesso il solo pensiero di
essere... di lasciarsi toccare ancora... Si era raschiato la
pelle per l’ennesima volta di sua spontanea volontà, tornando a raggomitolarsi
nella paglia e a frignare per quasi due ore... finché due occhi azzurri gli si
disegnarono sotto le palpebre. Lo guardavano con pietà, con compassione... cose che lui non aveva mai chiesto... ma
di cui adesso sentiva l’immenso e innegabile bisogno. Harry.
Un pensiero veloce come un lampo, la speranza che quella luce improvvisa
portava con sé ancora impressa negli occhi, in quell’immagine lontana in cui
Harry lo aiutava a fuggire...
Si ritrovò a chiedersi se Harry non l’avrebbe fatto davvero. Infondo,
pensò, quel ragazzo non faceva altro che raccattare il suo perdono, portandogli
di continuo acqua e cibo, provando a parlargli il più possibile, a scoprire
sempre più cose sul suo conto... Era evidente, ormai: Tiboo gli avrebbe chiesto
la luna, ed Harry gliel’avrebbe portata. Il dubbio che, forse, quel
ragazzo non voleva altro che diventare suo amico non lo sfiorò neanche.
Harry era ipocrita. Viziato.
Sadico. Stronzo...
e aveva la coscienza sporca.
Davvero credeva che
Tiboo gli avrebbe creduto?
Tutta quella gentilezza, quei sorrisi... erano semplici tentativi di
compiacere se stesso, il solito stupido comportamento di un padrone troppo
violento che, però, non accetta di esserlo. L’unico vantaggio,
appunto, era che quella coscienza sporca Tiboo l’avrebbe sfruttata a
dovere. Harry fingeva?
Bene. Avrebbe finto anche lui. L’avrebbe... compiaciuto.
Per questo quel pomeriggio, mentre il giovane bianco gli veniva
incontro, lui gli aveva sorriso, gli aveva dato quell’assaggio di perdono che
credeva, sapeva quanto Harry
bramasse. Aveva
appena piazzato una trappola fra loro, e il biondo ci era cascato senza batter
ciglio.
Harry gli camminava
davanti, tenendo stretta nel pugno la corda che, per legge, cingeva il collo
dello schiavo per evitare che fuggisse. Il labbro inferiore gli tremava e lui,
per non darlo a vedere, ci affondò i denti facendolo sanguinare appena, lo sguardo
che scorreva su quelle donne e quegli uomini mezzi nudi, la pelle nera
luccicante di sudore.
Era terrorizzato al pensiero che Tiboo potesse leggergli nella mente,
scoprendo quanta cattiveria lui e Philip erano soliti riversare su quella
povera gente solo un anno prima. A quel pensiero,
prese a mordersi l’interno guancia finché Tiboo, alle sue spalle, si
bloccò. –Ehi-
il biondo si voltò, trattenendo il respiro: Tiboo, a petto scoperto e con lo
sguardo smarrito, spaventato... non era poi così diverso dagli schiavi curvi e
scialbi che li circondavano. Era
triste ammetterlo, ma in parte era stato lui a ridurlo in quello stato. Tiboo gli si avvicinò,
sollevando l’indice davanti a sé e sussurrando:-E’ lì.
Harry non se lo fece ripetere due volte: lasciò che la corda gli
sfuggisse dalle mani e lo guardò per un po’, prima di permettergli di correre
da suo zio e abbracciarlo, abbracciarlo per l’ultima volta prima di essere
nuovamente divisi...per sempre.
Distogliere lo sguardo da quei due neri che, con le lacrime agli occhi,
si venivano incontro abbracciandosi e urlando in quella lingua magnifica che
Harry non conosceva era impossibile.
Erano troppo belli, insieme. Troppo felici, troppo...
–Ehi!- un
negriero si avvicinò loro staccando Tiboo a forza dallo zio, sollevò la frusta
in aria pronto a colpirlo ed Harry gli corse incontro, corse senza neppure aver
preso fiato, corse veloce nonostante il suo maledetto problema alle gambe e si
pose in mezzo, esattamente fra Tiboo e la frusta.
Sentì uno schiocco
fortissimo.
Poi, il fuoco.
***
Doveva proteggerlo, non
importava come.
Si era accorto con rabbia che non era lui l’unico da cui Tiboo avrebbe
dovuto scappare... c’erano anche gli altri, gli altri stronzi razzisti, gli altri che ancora non avevano capito quanto
sbagliata fosse la violenza, quanto stupida, inutile...
Tiboo. Dov’era Tiboo? Era davvero lì, al suo fianco, una mano fresca
premuta sullo zigomo in fiamme o era solo un sogno?
Provò a staccarsi dal muro su cui lo schiavo l’aveva steso, in piedi,
dandogli almeno la possibilità di riprendersi dal colpo subito proprio lì,
sullo zigomo che Harry gli aveva sfregiato tre settimane prima, lo stesso punto
che il biondo ricordava di aver accarezzato per ore pensando allo schiavo...
Strano, no? Troppe coincidenze per non essere un sogno... –Harry? Harry!- Però la sua voce era
quella, solo... carica di preoccupazione e singhiozzante...– Harry... s-se lo
scopre tuo padre... mi ammazza!-
“NO!”
Harry urlava. La sua mente e il suo corpo urlavano... il ragazzo si riscuoteva
al pensiero di Tiboo steso nel nulla, coperto di polvere, senza più volto...
senza più vita.
Tese le braccia in avanti e lo afferrò, lo strinse a sé con tanta forza
che quello, non poteva negarlo, era stato il miglior abbraccio della sua vita.
Tiboo oppose resistenza solo per un secondo, prima di abbandonarsi e stringerlo
al petto, prima di sfiorargli il viso e ringraziarlo, ringraziarlo
silenziosamente per non averlo abbandonato, per aver dimostrato che...
“Che Harry non ha mai recitato.”
E forse pianse anche per questo, quella sera. Per la consapevolezza che,
adesso, sfruttare quel ragazzo sarebbe stato più difficile, più inammissibile e
inaccettabile... ma doveva farlo. Ancora non gli era troppo
legato, per cambiare idea.
Si sentì improvvisamente più leggero notando che Harry si era
allontanato lasciandogli il petto infreddolito, scoperto...No, non poteva
abbracciarlo ancora.
–Vieni.- ordinò Harry, indicando con un mezzo sorriso una taverna lì
vicino, la scritta scintillante che recitava: “Vietato l’ingresso ai cani e ai
neri”.
Tiboo gli lanciò un’occhiata preoccupata mentre Harry, noncurante, entrò
nel locale portandoselo dietro.
Troppi occhi puntati su
di loro.
Era inevitabile, ma Harry aveva la situazione sotto controllo: raggiunse
barcollando un vecchio uomo che, con sguardo truce, stillava uno strano liquido
scuro da enormi botti legnose e gli si fermò davanti, sedendosi ad uno sgabello
mentre Tiboo si nascondeva alle sue spalle. –Salve Mike. –lo salutò.
L’altro annuì mentre –Il nero deve uscire- disse, indicandolo in malo modo e tornando
a fissare Harry, decisamente più degno della sua considerazione. –Pagherò il triplo e
mio padre farà in modo che tua moglie non cambi...località. Il nero può
restare, adesso?- strizzò un occhio a Tiboo voltandosi per un istante mentre
Mike, combattuto, faceva loro strada verso un tavolo piccolo e appartato in un
angoletto buio: almeno lì, Tiboo sarebbe passato più o meno inosservato.
Appena seduti, Mike portò loro personalmente tre brocche di quel liquido
scuro che Tiboo osservava e annusava con curiosità da circa cinque minuti,
facendo nascere finalmente un sorriso sul viso ancora gonfio e bruciante di
Harry. Tiboo lo
guardò malissimo. –Che c’è?- bofonchiò, imbarazzato.
–Si chiama vino. A me non piace... ma provalo, dai!- Harry si alzò
appena dalla sedia avvicinandogli la brocca alle labbra e, senza ammettere
repliche, la sollevò costringendo l’altro a bere quasi soffocandosi. Era buono,
il vino. Dolce e aspro allo stesso tempo... e poi lo faceva sentire più
leggero, più...sereno? Non sapeva come ma all’improvviso aveva una voglia
irrefrenabile di parlare. Afferrò un’altra brocca bevendone l’intero contenuto,
per poi pulirsi la bocca con un braccio sotto lo sguardo attento del
biondo.
–Ehi, Tiboo, vacci piano per la miseria!
-Perché? È buonissimo! Prova, dai!
-Ti ho già detto che..-
Tiboo lo interruppe ficcandogli la brocca tra le labbra col suo stesso brusco
movimento, sentendosi quasi sollevato nel vedere Harry tossire e, finalmente,
staccare una mano dallo zigomo leso e dimenticarsene... almeno per un po’.
Tiboo decise che il suo compito, per quella sera, consisteva nel far
felice Harry, nel fargli dimenticare il dolore e farlo divertire. Sì, era
proprio un bel compito. Harry, dal canto suo, del suo
zigomo si era già dimenticato. Semplicemente era orgoglioso di ciò che aveva
fatto, del coraggio dimostrato che non sapeva di avere... di quel coraggio che mostrava solo in compagnia di Tiboo. Accettò
l’ennesima brocca che Mike portava al loro tavolo e bevve, bevve fino quasi a
dimenticare il suo nome e il perché si trovava lì, ormai completamente brillo
in compagnia di un ragazzo dalla pelle nera, lucida... bellissima.
Non capì come, ma lui e Tiboo avevano finito col confidarsi segreti
talvolta anche imbarazzanti: il primo amore non ricambiato di Harry, quella
volta in cui un pesce vivo schiaffeggiò Tiboo per poi tornarsene nel
fiume...
E poi, qualcosa che lasciò Harry completamente immobile, paralizzato,
mentre Tiboo sgranava gli occhi accorgendosi di quanto oltre era andato, di
quanto il limite dei segreti, quella sera, fosse stato oltrepassato...
–Cosa... cosa ti fa... mio
padre..- tremava, la voce ridotta a monosillabi sussurrati, gli occhi sbarrati
e l’espressione incredula, delusa, ferita.
Tiboo cercò di rimediare. Agitò le mani davanti a sé negando tutto,
affermando che no, Peter Harondale, suo
padre... non aveva mai abusato di lui e che no, non l’aveva mai violentato e
frustato a sangue le cosce...Era il vino! Era il vino a parlare inventandosi
storie, non lui! Doveva dirglielo! “Coraggio,
Tiboo, diglielo!”
- Harry non...
–LO AMMAZZO! Giuro che lo
uccido con le mie mani! Gli strappo il cuore! Io non.. io non... -
Aveva cominciato ad urlare talmente tanto che la gente, all’esterno del
locale, poteva udirlo distintamente, e Mike fu costretto a cacciarli entrambi,
ribadendo che i neri, in un locale pubblico, non fanno che portare scompiglio e
far impazzire le brave persone come Harry...
...Harry che intanto
piangeva. Odiava. Si odiava.
Faceva combaciare i pezzi del puzzle: notte. Stalla. Peter. Tiboo... Harry che esigeva giustizia.
Vendetta.
Ed Harry
nella cui mente la strada della sua vita, quella che aveva
percorso arrivando fin lì, giungeva ad un bivio, ad una scelta che, sapeva,
avrebbe dovuto presto affrontare.
Per
Tiboo.
***
-Dove stai andando, Harry?
Suo
padre lo raggiunse, come sempre, nel piccolo nascondiglio che aveva creato per
sé e in cui si rifugiava spesso, ogni volta che nascondeva qualcosa, ogni volta
che era triste e insicuro. –Tanto lo sai che ti trovo...
E lo aveva trovato, in effetti. Ed Harry non poteva che esserne
contento: Peter era unico, fenomenale. Lo aiutava sempre, gli insegnava ad
afferrare la vita così com’è, con i suoi pregi e difetti. E lo faceva ridere,
lo faceva ridere tantissimo...
–Tanto
ti prendo! Ma dove scappi Harry!? Harry!...
- Harry?- suo padre gli
sorrise dalla scrivania mentre lui ne evitava lo sguardo, rannicchiato su
quella sedia da quattro soldi che da bambino adorava... Strinse i pugni sul
petto, si impose di sembrare il più naturale possibile.
Quella notte, tornando a casa, aveva urlato per ogni vicolo a
squarciagola, rimanendo del tutto senza voce, non riuscendo a sillabare neanche
un semplice concetto. Ma era riuscito a tenersi stretto Tiboo,
saltando rabbioso davanti ad un Peter altrettanto infuriato e ad una Anne
impassibile, un filo sollevata, forse. Aveva fatto i capricci e Peter l’aveva
accontentato ma, ne era certo, il giorno seguente sarebbe tornato alla carica
reclamando il suo schiavo...
Alzò
gli occhi di scatto, incontrando quelli cristallini di un nuovo Peter, un Peter
che lui non conosceva e non aveva intenzione di conoscere, un Peter falso e
ipocrita, uno schifoso traditore, un verme, uno che non era suo padre... uno
che per lui era morto, lasciandolo orfano.
–Vuoi sapere la grande novità?- chiese quello sconosciuto porgendogli
una mano che Harry osservò disgustato, prima di stringere i denti e agguantarla
lasciandosi guidare da Peter all’esterno, fino al piccolo orto a cui l’ufficio
immigrazione si affacciava. C’era
terra, in Virginia. Tanta terra. Ovunque. E, ovviamente, il numero degli schiavi
aumentava in relazione a quei terreni e al denaro del padrone.
Peter Harondale doveva essere ancor più ricco di quanto Harry
immaginava, visti i quattro uomini a torso nudo, la pelle nera ridotta in
poltiglia in punti ben precisi, che gli gironzolavano intorno armati di falce e
sacchi pieni di semi.
Suo padre Peter aprì le braccia, indicando con fierezza quello
scempio mentre –Li vedi?- chiese, -Ora non potranno più scappare. Nessuno di loro potrà più farlo...
Non dimenticherò mai la reazione
che quelle parole provocarono in Harry. Non lo dimenticherò perché so
di non poterci riuscire, so che quegli occhi improvvisamente sbarrati, qualche
lacrima pungente pronta a incorniciarli... mi perseguiteranno sempre. Era
bloccato, gelido. Tutto il suo corpo lo era: immobile come una statua di marmo,
silenzioso come una stanza vuota, buia... E la sensazione provata era proprio
quella del soffocamento, sentiva l’aria immagazzinata nei polmoni lasciarlo
velocemente , farlo entrare in uno stato di panico quasi paranoico, in
un’agitazione mai provata prima.
Conoscevo Harry, lo conoscevo forse meglio di chiunque altro: impulsivo,
orgoglioso e...a volte terribilmente cieco.
Harry non poteva, non voleva vedere ciò che gli si agitava nello stomaco, ciò che gli frullava in mente
e che era la causa di tutta quell’ansia.
In compenso, io potevo.
E
ciò che ho visto è un Harry combattuto, un Harry a cui la fortuna si ritorceva
contro proprio nel momento della scelta...
Gli aveva chiesto di
che diavolo stesse parlando e adesso si ritrovava nella sua stanza, chiuso a chiave
dall’interno, il necessario e innegabile bisogno di restare un po’ solo con se
stesso. Non si era mostrato sorpreso
neanche un po’ quando suo padre Peter gli aveva posto con un gesto
secco, quasi vittorioso, un foglio tra le mani immobili, congelate dal
terrore.
Quel loro pronunciato
dall’uomo con tanto disprezzo non poteva promettere nulla di buono, certo. Ma
con questo... con questo anche quella piccola parte di sé che urlava per venir
fuori, urlava per poter uscire e combattere al fianco di Tiboo, del suo
amico... era tutto finito. Tutto. Rimase carponi per un po’, tastando il
suolo e cercando quel foglio che lesse col fiato sospeso, ogni parola una
stilettata al petto...
Nell’aprile
corrente anno, 1793, si dichiara l’approvazione del Congresso Federale sulla
legge denominata Fugitive Slave Act
(Legge sullo schiavo fuggitivo), in seguito ai numerosi tentativi di fuga
registrati nel continente e, in fattispecie, in Virginia. Col suddetto trattato
si regola la restituzione degli schiavi fuggitivi ai loro rispettivi
proprietari. Chiunque venga sorpreso ad
aiutare un fuggitivo sarà considerato colpevole di reato federale e, pertanto,
verrà giudicato in tribunale da una corte di magistrati.
...Era tutto così...
INGIUSTO DANNAZIONE!!!
Ecco perché Peter Harondale passava tanto tempo nei suoi uffici! Stava
complottando, giusto? Anche questa era una sua colpa, giusto!? Doveva
ammazzarlo. Voleva farlo e l’avrebbe fatto, prima o poi. Gli avrebbe fatto
inghiottire polvere a vita, l’avrebbe umiliato davanti a Tiboo e... Tiboo.
Eccolo di nuovo lì, un puntino luminoso che lo aiutava a non impazzire,
una piccola vocina che gli ricordava di nuotare con tutte le sue forze per non
affogare nella rabbia, nella frustrazione, nella disperazione... Doveva molto,
a quel ragazzo: in meno di un mese l’aveva distrutto, per poi ricostruirlo
partendo dalle fondamenta, spazzando via stupide convinzioni razziste e inutili
atteggiamenti violenti, ostili sempre e comunque... Era cambiato. Ed era tutto merito
suo. Tutto merito di quello schiavo coraggioso.
Harry ricordava che, anni prima, il suo insegnate ne aveva parlato, del
coraggio. Gli si
illuminavano gli occhi, quando diceva: -Coraggio deriva dal latino..- prendeva
un respiro profondo, gli sfiorava una spalla, -..e significa cuore, Harry.
“Cuore.
Devi avere cuore, Harry”
Sì, cuore. Quel cuore
che aveva sempre creduto fosse bianco come la sua pelle, e che adesso gli
sembrava pieno di colori, pieno di rosso, giallo e, soprattutto, di
nero...
Improvvisamente sentì l’impulso irrefrenabile di aprire le tende e
affacciarsi.
Aprì entrambe le finestre, senza prestare troppa attenzione a non farsi
notare e, anzi, desiderando di essere notato, di essere visto e osservato dal
ragazzo che, intanto, aveva posato una zappa sul terreno e lo guardava, lo
osservava con un’aria dolce e un sorriso accentuato, ben visibile, fiero. Non
seppe trattenersi e alzò una mano, scuotendola con foga. Tiboo ricambiò il
saluto con altrettanto entusiasmo e tornò al suo lavoro, lasciando il ragazzo a
bearsi di quella vista, lasciando che Harry disegnasse il contorno del suo
corpo robusto, forte, sentendo che di tutto l’odio e la gelosia provati
all’inizio per lo schiavo non era rimasta la minima traccia. Oh! Che idiota,
Harry. Corresse subito il pensiero appena formulato apportando una piccola
modifica:
...odio e gelosia provati per l’amico...
Sorrise
spontaneamente.
Sì, esatto, Tiboo era un suo amico, adesso. Si era messo in pericolo con
Peter, per lui.
Era tornato al mercato degli schiavi, per lui. Si era beccato una
frustata in faccia, per lui.
E adesso, nel silenzio di quella stanza, si convinse che c’era ancora
un’ultima cosa da fare, per lui: farlo scappare.
***
Tiboo era tornato nella
stalla, quella notte.
Era
frustrante, incredibilmente straziante non poter chiudere occhio restando
affacciato alla finestra per sette ore in attesa
che Peter ne uscisse ed era orrendo e impossibile tentare di fuggire al
pensiero... al pensiero di tutto, all’immagine di quello...
Dovevano essere le tre di notte quando una chioma bionda spettinata
venne fuori dalla stalla, dirigendosi a passo svelto in casa, la scia luminosa
di una lanterna alle spalle. Aveva avuto
una notte intera per riflettere, per prendere una decisione sensata... eppure
Harry si era ridotto all’ultimo momento, rannicchiandosi in un angolo della
stanza, i palmi aperti e le dita lunghe a tenere il conto delle probabilità
della riuscita del suo piano...
Sentiva l’ansia crescere insieme ad una strana euforia dovuta al fatto
che, inconsciamente, una scelta forse l’aveva già presa. Doveva
far fuggire Tiboo... o abbandonarlo?
Doveva pensarci bene e doveva farlo in fretta perché, non capiva come,
il sole era già sorto e il tempo scorreva velocemente, ricordandogli che ad
ogni minuto passato, mancava sempre meno alla notte successiva, alla notte in
cui Tiboo veniva inumanamente sfruttato... Si pizzicò un braccio con forza
trattenendo un gemito: non doveva pensare a quello, adesso. Probabilità. Occasioni.
Conseguenze... Ecco a cosa doveva pensare.
Se Harry l’avesse abbandonato, Peter avrebbe continuato il suo sporco
gioco, certo, ma lui si sarebbe messo l’anima in pace, avrebbe continuato ad
odiare lo schiavo e a provarne gelosia come ai primi tempi. Avrebbe cercato
Philip e insieme sarebbero andati al mercato dei neri, ne avrebbero picchiato
qualcuno solo per divertimento...tutto come prima, no? Harry storse
il naso perché semplicemente non poteva, non poteva ignorare Tiboo... non a
lungo, almeno. E poi... di tornare a comportarsi da perfetto bullo... non
riusciva neanche più ad immaginarsi, come prima. Figuriamoci a diventarlo
davvero! Il buon vecchio schifoso Harry... Scosse il capo con forse
troppa forza, per poi massaggiarsi il collo dolorante. D’accordo, la prima ipotesi
l’aveva scartata.
Era il momento della seconda...
Far
scappare Tiboo. Suonava bene, no? Ancora meglio se la pensava come “aiutare
Tiboo” o, meglio, “aiutare un amico”. Se una frase così semplice lo faceva sorridere...
sì, era giusto farlo. Per una buona volta Harry Harondale avrebbe ascoltato un consiglio del suo
insegnate, l’avrebbe reso fiero di sé, gli avrebbe mostrato quanto, in un mese,
quell’Harry menefreghista e irrispettoso di anni prima era cambiato, si era
‘rinnovato’ del tutto... La
piccola vocina della ragione, quella che gli intimava di non pensare col
cuore... era stata finalmente sconfitta.
***
L’uomo sui trenta che gli era
davanti, libro enorme rigorosamente fra le mani, strizzò gli occhi
stropicciandoseli un paio di volte, incredulo.
–H.. Harry? Credevo che il tuo ‘non studierò’ fosse categorico... –Infatti,
signore- lo interruppe il ragazzo, lasciandolo sorpreso per quell’educazione e
gentilezza che non aveva mai e poi mai dimostrato con l’insegnante...
–Sono qui...- Harry si torturò le dita, - sono qui per un altro motivo,
in realtà..
Non lo vedeva da due
giorni.
Era riuscito a salutarlo una sola volta, quella sera, scuotendo la mano
con un entusiasmo che non gli apparteneva, provando un sollievo così forte, nel
vederlo, che quasi non si riconosceva.
Insomma sì... che fine aveva fatto il ragazzo forte e fiero, quello convinto
che non sarebbe mai cascato nella trappola di uno come Harry? Si era nascosto,
o era semplicemente morto? Sorrise pensando alla
schiena di Harry davanti a sé, pronta a proteggerlo dal colpo di frusta. Beh, non c’era dubbio: quel
ragazzo era morto, morto davvero. E uno nuovo, più fiducioso e forte era nato,
cercando nel giovane Harry una figura quasi paterna, un... amico.
Era incredibile, ma era riuscito ad ammetterlo, finalmente e questo...
questo era un male. Un
terribile, enorme sbaglio. Aveva
pianificato la fuga in silenzio, in un modo non proprio perfetto,sì, ma che per
lui rappresentava comunque un chance, una strada alternativa per ritrovare la
libertà che gli era stata strappata con violenza e che era rimasta lì, in
Sierra Leone, accanto ai suoi fratelli più piccoli e a sua zia Wololoo. Suo
marito, lo zio che aveva incontrato al mercato dei neri, era un uomo furbo e
intelligente: per nessuna ragione, per nessuna al mondo si sarebbe mai fidato
dei negrieri, uomini comparsi dal nulla promettendo una bella vita in un mondo
di favole e zucchero filato... E, infatti, appena sbarcato in Virginia l’aveva
cercato, l’aveva trovato.
Un suo compagno aveva raggiunto Tiboo dandogli la notizia e lui, Harry
al seguito, si era precipitato dallo zio. Quell’abbraccio che, ne era certo,
Harry aveva osservato con attenzione non era un semplice abbraccio: era uno
scambio di informazioni.
Ci
sarebbe stato un traghetto, la settimana successiva; un viaggio di sola andata
costoso e pericoloso per l’Africa che suo zio avrebbe intrapreso scappando dal
padrone durante il turno notturno, quando, parole sue, ‘il padrone è troppo
rimbambito per accorgersene’. Gli aveva ficcato un
biglietto con l’orario della partenza in tasca e, subito dopo, il negriero
aveva tentato di dividerli...
Era
rischioso. La fuga, la partenza, il viaggio... anche se la libertà sembrava più
vicina, c’era ancora troppa strada fra loro e Tiboo aveva paura, paura di essere
catturato dai cacciatori di schiavi, paura di tornare da Peter e subirne le
punizioni... paura di lasciare Harry. Ecco, l’aveva
pensato ancora. Nella sua mente ripartì la solita cantilena di
autoconvinzione: “Non hai bisogno di Harry. Partirai. Lui
starà meglio senza di te. Starà con suo padre...” -Oh, Cristo.- si lasciò
sfuggire, sentendo distintamente la mano gelata del terrore sfiorargli la
schiena, percorrerlo da capo a piedi. Dopo ciò che aveva fatto, dopo averlo
riconosciuto lui stesso come amico –il suo primo, vero amico- poteva davvero
abbandonarlo? Poteva davvero lasciarlo... lasciarlo solo?
“Puoi, Tiboo. Puoi e lo farai.”
Si gettò sulla paglia, ripetendo la stessa cantilena con più rabbia, con
più determinazione...le parole gli frullavano in testa talmente veloci che alla
fine gli sembrarono estranee, totalmente lontane dalla realtà, mischiate a
quella figura esile comparsa all’improvviso al suo fianco, un sorriso più
determinato del suo sul volto, i pugni
stretti lungo i fianchi... –Tiboo?- stava immaginando. Stava
impazzendo, finalmente.
Harry si fece più vicino, prendendogli il viso fra le mani e
carezzandolo piano, disegnando piccoli cerchi sugli zigomi, sul mento... era a
un millimetro dal suo naso e Tiboo si sentiva avvampare, sentiva i muscoli
tendersi e riscaldarsi senza motivo, le narici aprirsi per assorbire il profumo
di fresco dell’altro, così dolce e buono e... così vero...
–Harry..- fu un sussurro lieve, qualcosa che il biondo non percepì
neppure mentre, arricciando le labbra, le posò piano sulla sua fronte. La
pelle a contatto bruciava, ma era una sensazione piacevole...era come se Harry
avesse risucchiato parte dei suoi problemi rendendolo più leggero con
quell’unico, semplice gesto... Notò l’espressione felice del biondo solo
quando si scostò, lasciandogli tornare aria pulita nei polmoni mentre –Devi
scappare- affermava, tornando a cercare un contatto fisico trovandolo nella sua
mano, che strinse e si portò al petto. –Dobbiamo
scappare.
E in quel momento non so se fu più
la paura, a farlo scoppiare in lacrime, o la felicità di veder confermata,in
quell’amico trovato per caso,un’ancora che l’avrebbe sempre sostenuto, che
l’avrebbe seguito ovunque, persino in Africa se questo significava stare
insieme.
Saranno pensieri troppo smielati? Forse.
Ma cosa volete che
pensino due ragazzi così giovani, così dannatamente legati in una simile circostanza?
Comunque beh, adesso che
ricordo bene... sì, quella era proprio felicità...
***
Che cosa strana, il
destino.
A scuola insegnavano
che chi crede nel destino, alla fine non crede in Dio perché, in un certo
senso, affidarsi al destino è come affidarsi alla sorte.
Ma cosa c’era di male, in tutto questo? Harry e Tiboo si erano trovati
per destino, e il destino ringraziavano se, quella sera, Peter Harondale era
troppo impegnato in ufficio per segregare Tiboo nella stalla; ringraziavano il
destino se, Anne Harondale aveva finalmente deciso di venire allo scoperto con
suo figlio, confessando che sì, tradiva Peter col dottor William e quella sera,
anziché a casa, sarebbe stata da lui.
E, in silenzio, ringraziavano il destino perché aveva concesso loro la
possibilità di una vita insieme, lontano da quel posto arido che ormai Harry
non considerava più la sua casa perché, ormai, aveva imparato a chiamare ‘casa’
non il luogo, ma la persona con cui si vive. E per Harry, ‘casa’ era
sinonimo di Tiboo.
‘Casa’ era sinonimo di amico.
E si era dato dell’idiota se, per un istante, tre giorni prima, era
stato assalito dal desiderio di baciarlo sulle labbra, anziché sulla
fronte. ‘Casa’
non poteva significare amore, non
ancora.
E anche se durante il tragitto verso il molo Tiboo gli aveva afferrato
la mano, stringendola possessivamente sorridendogli ad ogni passo... anche se
si era fatto coraggio baciandolo a sua volta sullo zigomo livido... Tiboo non
era ancora pronto, per questo.
Non era ancora
pronto per l’affetto che Harry avrebbe voluto donargli, per qualcosa che
avrebbe anche potuto traumatizzarlo, nel peggiore dei casi.
Per il momento si accontentava di vederlo sorridere, correndo con lui
verso l’imbarcazione avvolta nell’oscurità, l’ancora levata, già affollatissima
e pronta a partire verso una nuova famiglia, quella che Tiboo gli aveva
descritto come la famiglia perfetta che l’avrebbe accolto e trattato come uno
di loro, come un ragazzo migliore.
Sì, correvano, correvano con le ali ai piedi, correvano rischiando di
cadere ad ogni metro senza mai guardarsi indietro, senza mai un attimo di
esitazione.
Tiboo guardava di sottecchi Harry, di tanto in tanto, per assicurarsi
che non avesse ripensamenti, che non scegliesse la via più breve lasciandolo
solo, lasciandosi solo. Ma
Harry sorrideva ogni volta. Sempre più convinto, in un’immagine sempre più
surreale.
Era vero? Tutto quello... lo era davvero!? Erano
talmente presi dalla visione dell’imbarcazione che, ad un passo da questa, non
si accorsero dei passi veloci alle loro spalle. E non sentirono neanche il
suono metallico di un’arma da fuoco raggiungerli mentre Tiboo era già sulla
barca e tirava su Harry a fatica, ancora appeso sul bordo, le gambe penzolanti
all’esterno.
E quando Tiboo si accorse che qualcosa non andava, che Harry non tentava
neppure di arrampicarsi, lasciandosi tirare da lui a peso morto mentre qualcuno
strillava accendendo il motore... quando Tiboo capì tutto questo... era già troppo tardi.
...
...O...
-Ti senti bene, Harry?
Il ragazzo annuisce,
abbassando lo sguardo sul vetro tornando a disegnarci cerchi con le dita. Apre
una mano e ce la preme contro.
Sta indicando qualcosa o, meglio, qualcuno...
–Tiboo
se la caverà, Harry. La Vita ha ancora tante cose in serbo per lui.- cerco di
rassicurarlo, ma lui non mi ascolta nemmeno. Sembra che il salto lo abbia reso
sordo e muto: non sta neppure piangendo mentre, aldilà del vetro, segue con lo
sguardo il suo Tiboo, ne guida i gesti mentre l’amico gli piange sul petto, gli
preme entrambe le mani sul collo dove due fori violacei gli hanno strappato il
respiro.
Dovrebbe
voler tornare, dovrebbe essere in ginocchio a pregarmi di farlo.
E invece, alza lo
sguardo azzurro ancora acceso, me lo punta addosso.
Una richiesta silenziosa che accolgo subito. Gli
sfioro il capo e lui è già lì, sulla nave.
Ci
resterà solo per pochi minuti, il tempo necessario per baciare Tiboo un’ultima
volta, magari sulle labbra... il tempo necessario per dirgli di non abbattersi,
di tener duro anche senza di lui. Ecco,
ci siamo: mi affaccio al vetro e lo vedo riacquistare un pallido colore. La
sabbia nella mia clessidra comincia a scorrere.
Sono
certo che l’ultima cosa che gli dirà, sarà che, nonostante tutto, non si è
ancora pentito della sua scelta.
*^*Angolo
autrice *^*
Salve,
ringrazio tutti coloro che leggeranno lasciando un piccolo commento ma anche
chi legge in silenzio. Grazie, siete tutti importanti per me (un parere me lo
lasciate comunque?)J
La storia è in revisione, quindi
correggerò gli errori di grammatica e sintassi quando avrò tempo (e voglia).
Baci- Yaji.