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Autore: Black Swan    06/10/2014    2 recensioni
E’ peggio l’assenza o la mancanza di una persona?
E quando si hanno entrambe insieme?
"Kim era la dannazione della mia vita. La casa era inondata di sue foto, anche in camera mia ce n’era una. Mia madre la cambiava quando mia sorella ne mandava una nuova.
Praticamente, era tutto quello che avevo di lei.
Gran fregatura nascere genio, lasciatemelo dire.
Poco prima che nascessi io, avevano scoperto un quoziente intellettivo spaventoso in mia sorella e l’avevano mandata, all’alba dei suoi tre anni se la matematica non era un’opinione, in questo mega collegio per menti superiori.
Personalmente ero convinto che fosse gestito da perfetti imbecilli, visto che, fra le altre stronzate, mia sorella poteva fare una sola chiamata al mese (fino a cinque anni prima poteva chiamare ogni quindici giorni, quando ero piccolo chiamava una volta alla settimana, tanto per dare l’idea) e solo la mattina, quando ero a scuola.
Neanche ricordavo quando avevo sentito la sua voce."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kim La Perfetta

Kim La Perfetta

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando i miei furono pronti ad andarsene, fu un sollievo.

Una volta l’anno, se ne andavano per un fine settimana a trovare Kim al collegio e lasciavano puntualmente me a casa. Se non altro, quell’anno, compiuti sedici anni da qualche mese, li avevo finalmente convinti che se avevo l’età utile per guidare una macchina, non avevo bisogno di una vicina rompiballe perennemente in casa a “farmi compagnia”.

Non so se l’ironia rende l’idea.

Mia madre mi abbracciò, «Ken, mi raccomando.»

«Cosa vuoi che succeda in due giorni? Non potrò neanche mettere il naso fuori di casa.»

Dannata bronchite. Ci mancava solo lei a completare il quadretto.

Per circa due ore, un paio di settimane prima, i miei avevano anche preso in considerazione l’ipotesi di rimandare la visita alla sorella perfetta. Giusto un paio d’ore. Poi avevo preso in mano la situazione e al solo pensiero di quanto quella decisione avrebbe potuto influire sulla mia vita futura, almeno fino all’anno successivo, mi aveva spinto quasi a buttarli fuori di casa nell’opera di persuasione che potevo tranquillamente sopravvivere anche a quella bronchite senza di loro in casa per due giorni.

Kim era la dannazione della mia vita. La casa era inondata di sue foto, anche in camera mia ce n’era una. Mia madre la cambiava quando mia sorella ne mandava una nuova.

Praticamente, era tutto quello che avevo di lei.

Gran fregatura nascere genio, lasciatemelo dire.

Poco prima che fossi concepito io, avevano scoperto un quoziente intellettivo spaventoso in mia sorella e l’avevano mandata, all’alba dei suoi tre anni se la matematica non era un’opinione, in questo mega collegio per menti superiori.

Personalmente ero convinto che fosse gestito da perfetti imbecilli, visto che, fra le altre stronzate, mia sorella poteva fare una sola chiamata al mese (fino a cinque anni prima poteva chiamare ogni quindici giorni, quando ero piccolo chiamava una volta alla settimana, tanto per dare l’idea) e solo la mattina, quando ero a scuola.

Neanche ricordavo quando avevo sentito la sua voce.

Ero, in mancanza di una definizione squisitamente scientifica, un figlio unico in differita.

Finalmente chiusi la porta di casa dietro i miei e respirai profondamente. Solo da una settimana quello era un gesto che non mi dava più fastidio. Mi ero preso una bella bronchite. Una di quelle che sembrano giocare a chi ha più forza di volontà: se te ad uscirne o lei a tirarti sempre più giù. Dopo qualche giorno addirittura afono, ne stavo uscendo.

A sentire mia madre, anche Kim era delicata di bronchi.

A quel punto, la mia unica preoccupazione era di organizzare il sabato e la domenica senza mettere il naso fuori di casa. Mamma mi aveva lasciato i soldi per la pizza se mi fosse andata e il frigo era pieno per un reggimento, più o meno, e visto che ero malato sembravano decadute tutte le regole circa quello che non devi mangiare perché ti fa male, quindi se non stavo attento entro lunedì sarebbe stato più facile scavalcarmi che girarmi intorno. Erano settimane che ero fermo anche con gli allenamenti.

L’unica cosa che mia madre non aveva messo in casa era un millefoglie, visto che mi sarei preso un’indigestione certa. Lo adoravo.

«Ciao Ken.»

Saltai letteralmente in aria.

Mi voltai di scatto e… la mascella mi arrivò ai piedi.

Non era possibile.

Quel sorriso, quel berretto viola. Era… era…

«Kim?» pigolai.

«In persona! Come sta il mio fratellino??»

Mi trovai fra le sue braccia.

Era più bassa di me di una quindicina di centimetri… forse anche qualcosina di più. Dalle foto questo non si vedeva bene, ma mia madre me lo aveva detto l’anno prima.

Cercai di emettere qualche suono di senso compiuto e la prima cosa che arrivò alla bocca fu «Come sei entrata?»

«Con le chiavi.»

Da quando avevo una tale forza di concentrazione da non sentire la porta di ingresso aprirsi? Mi stupivo di me stesso.

«Che ci fai qui? Voglio dire, mamma e papà sono usciti praticamente adesso per raggiungerti al collegio…»

In un lampo si delineò nella mia mente una tragedia: mio padre e mia madre sarebbero arrivati al collegio e Kim era a casa. Le comiche.

«Quest’anno abbiamo deciso di farti una sorpresa! In realtà gliel’ho chiesto io! Ti voglio un po’ tutto per me! Sei il mio fratellino e ti ho visto crescere in foto, accidenti‼»

La presi per le spalle e l’allontanai quel tanto che bastava per guardarla in faccia, «Fammi capire. Mamma e papà se ne sono andati un fine settimana per farci stare da soli?»

«Sei sveglio!»

Era radiosa.

Splendeva di luce propria, praticamente.

Mi dicevano tutti che le somigliavo e so di non essere esattamente un cesso… ma mia sorella era bellissima. Le foto non le rendevano giustizia.

«Ci vai anche a dormire con quel berretto? Dalle foto sono tre anni che non te lo togli.»

Rise divertita, «Il viola mi piace moltissimo e ti fosse sfuggito, nostra madre ha praticamente un’ossessione per questo colore!»

«Già, a me ha fatto una sciarpa di quel colore.»

«Lo so.»

C’era qualcosa che non quadrava.

Mi resi conto di fissarla in stato quasi ipnotico.

«Scu… scusa, ti sto fissando… è che non… non credevo che ti avrei mai vista apparire… voglio dire, è tutta la vita che sei un fantasma per me.»

Doveva tenere la testa rovesciata per guardarmi in faccia e i suoi occhi si socchiusero, «So anche questo. Sono qui per rimediare… almeno un po’. So che ti scoccia parecchio questa situazione.»

«Come fai a saperlo?»

«Quando mi vengono a trovare, mamma e papà mi parlano sempre di te.»

«Ah, quindi se ne sono accorti? Strano.»

«Mamma è molto attenta a te. Tu la definisci soffocante, in realtà è solo molto premurosa

Era irreale.

Mia sorella. Kim La Perfetta, come avevo iniziato a chiamarla da qualche anno, si era materializzata nell’ingresso di casa dopo praticamente diciassette anni che non la vedev…

Un pensiero mi fulminò.

Non l‘avevo mai vista! Quella era la prima volta, da che avevo memoria, che stavo in una stanza insieme a lei.

Voglio dire, magari era anche in sala attesa con i nonni e papà quando sono nato, ma non me lo ricordavo.

«Che c’è? Hai cambiato colore.»

«Ho appena realizzato che non ti ho mai vista. Hanno scoperto che sei un genio quando avevi tre anni giusto?»

«Giusto.»

«Dopo un anno sono nato io.»

«Esatto.»

«Io praticamente non ti ho mai vista. Credo di essere sotto shock. Neanche mi ricordo perché ce l’ho sempre avuta con te.»

Mi sarei morso la lingua, a quel punto. Quella aveva trovato direttamente la strada della bocca, non si era fatta neanche un giretto ricognitivo nel cervello.

Kim non fece una piega, «Non preoccuparti, sono pronta. Ci mancherebbe solo che non mi dicessi cosa pensi. Ti capisco sai? Mamma sa essere abbastanza pressante e la situazione è strana.» Si spostò di lato, sempre cingendomi la vita, e cominciò a muoversi verso il salotto, la seguì senza neanche rendermene conto «Ho sempre voluto un fratellino. Non una sorellina, ma proprio un fratellino. Ho scelto io il tuo nome, ancora prima di sapere che la mamma era incinta.»

«Sì, mi hanno informato che è a te che devo le battutine su quando troverò la mia Barbie o di quando mi deciderò a riaprire la scuola di Hokuto (*)»

Le risate ci accompagnarono fino al divano, uno davanti all’altra. «Il problema, sorellina, è che la tua presenza è pesante come un macigno, anche se non ci sei.»

Respirò profondamente, il sorriso si spense… e mi sentii in colpa per averlo cancellato da quel viso.

Era lo stesso sorriso della foto che ormai avevo imparato a memoria.

«Hai preso in considerazione l’ipotesi che mamma e papà mi idolatrano proprio perché non ci sono? Sei tu, loro figlio; sei tu, quello che hanno sotto il naso tutti i giorni… sei tu che li stai vivendo giorno per giorno. Pensi che per me sia facile?»

Qualcosa nella sua voce, fu una mano gelida che si serrò intorno al mio cuore.

Mi avesse preso a schiaffi, mi avrebbe fatto meno male. Ok, non ero un genio come lei, ma mi ha sfiorato il pensiero che magari anche lei sentisse la mia mancanza. E ammettevo solo in quel momento di sentire la mancanza di mia sorella, per inciso.

«Certo che sento la tua mancanza, deficiente.»

Distolsi lo sguardo, «Digli che non vuoi più stare al collegio e torna a casa, no?»

«Non è così facile.»

«Quindi dovrò aspettare altri sedici anni per rivederti, dopo questo fine settimana? O finalmente posso mettere piede anche io, in questo accidente di collegio? Una visita all’anno mi sembra una regola abbastanza idiota.»

Reclinò la testa da un lato, un’espressione dolce «Io sono sempre con te. Dal tuo primo vagito.»

Mi trovai a fissare quel sorriso, come se lo vedessi per la prima volta.

«E comunque, le regole vanno rispettate Ken, non importa quanto idiote ti sembrano. Alla tua età anche io le credevo inutili.»

Quella splendida sensazione fu immediatamente cancellata dal fastidio. «Hai solo tre anni in più di me e parli come se ne avessi venti. Sei pesante.»

Socchiuse gli occhi, «Sono più quattro che tre, se la matematica non è un’opinione, e sei un gran testardo.»

«Questo sono. Bentornata a casa.»

«Oh, grazie. Finalmente.»

Rimasi pietrificato. «Non… non te l’ho detto subito perché non mi aspettavo che…»

Kim scoppiò a ridere e mi abbracciò tirandomi verso di lei, «Lo so fratellino‼! Scherzavo!»

In un nano secondo me la trovai semi sdraiata addosso.

«Allora, raccontami: cosa fai di bello?»

«Al momento sono bloccato in casa con una bronchite da smaltire.»

«Già, giusto. Manca poco è saltato tutto per questo… sono stata malissimo quando l’ho saputo, ne ho sofferto anche io e ricordo bene la sensazione di oppressione ad ogni respiro. Ti stai riguardando? Come stai adesso?»

«Tutto sommato bene. Sembri nostra madre.»

«Ha sfiorato l’infarto quando ti sei svegliato perché non riuscivi a respirare bene, almeno hai avuto il buonsenso di svegliarli subito e chiedere aiuto. Tu e la tua indipendenza.»

Suonava vagamente come un rimprovero, a parte questo… mia sorella parlava come se fosse sempre fra quelle mura.

«Che ne dici di farmi fare il giro della casa? Cosa è cambiato?»

«Non so, dimmi tu cosa è cambiato.»

Mi alzai tirandola praticamente in piedi.

«Wow, sei forte fratellino!» esclamò con una risata.

«Sei tu che sei leggera come una piuma, ma che ti danno da mangiare??»

Quella leggerezza mi sembrava eccessiva, anche per una corporatura minuta ed esile come la sua.

«Tutte cose che non fanno male…»

La guardai… il tono era chiaramente allusivo.

Il suo sorriso mi disse che era effettivamente un chiaro riferimento a nostra madre.

Sbuffai, «Allora sei capitata nel fine settimana giusto: hai guardato in frigo?»

Scoppiò a ridere, «No, come avrei potuto? Ci pensiamo dopo alla cena, ora fammi da guida!»

Il giro fu abbastanza veloce, non doveva essere cambiato molto l’assetto della casa perché Kim ci si muoveva a suo agio.

«Impressionante. Esattamente come me lo ricordo» disse alla fine, mentre tornavamo al piano di sotto. «Anche la disposizione della camera è la stessa… non ci avrei scommesso un centesimo.»

«Mamma in realtà aveva cambiato l’orientamento del letto quando la stanza è passata a me, ma alla fine l’ho voluto come lo avevi messo tu… senza saperlo ovviamente, me lo ha detto papà. Per avere meno di tre anni avevi un buon orientamento.»

«Hai visto come si vede bene il cielo da lì?»

Rimasi senza parole, era esattamente quello il motivo che mi aveva spinto a chiedere ai miei di cambiare la disposizione della stanza: mi ero sdraiato a leggere in terra e, alzando lo sguardo, ero rimasto fulminato dalla vista.

«Il colore delle pareti lo hai scelto tu?» chiese Kim.

«Sì. Viola e blu. Eravamo d’accordo che il rosa non faceva più al caso nostro, ma la mamma ha comunque fatto fuoco e fiamme, diceva che erano colori troppo scuri. Allora li ho invertiti: blu le pareti e viola i disegni. Niente lucido, ma opaco.»

«Molto bello, complimenti. Li hai fatti tu i disegni, giusto?»

«Sì.» Un nuovo pensiero mi colpì. «Dove dormi, visto che in camera tua ci sono io adesso?»

«Pensavo al divano.»

«Perché non in camera dei nostri?»

«Dovrei rifare il letto poi.»

«Ti fa fatica rifare il letto?»

«E’ inutile disfarlo per una notte.»

«Già. Mi stavo quasi abituando all’idea che… lasciamo perdere.»

«Ken…»

«No no, va bene così. Regole idiote ma vanno rispettate.»

«Non ci voglio pensare, fratellino.»

«Maledizione Kim, ma se ci stai così male in quel collegio, perché non torni a casa?? Ti rendo la camera, qual è il problema? Possiamo fare dei lavori in casa e tirare fuori un’altra stanza! Quanto pensi che ci metterebbe papà a sistemare le cose? A parte le foto, questa è una casa dove vivono tre persone, ma le cose possono camb…»

Eccola. La rabbia. E la new entry, la frustrazione.

C’erano e non potevo ignorarle. Al di là dello shock di averla lì da un momento all’altro, di scoprire ogni secondo di più di quanto le volessi bene. Di quanto gliene avevo sempre voluto.

La mia sorella maggiore.

Gli occhi di Kim si riempirono di lacrime. «So che mi accetteresti senza pensarci due volte. Tu non ce l’hai con me, Ken. Sei arrabbiato perché io ci sono ma… non ci sono. E sono la prima ad ammettere che la situazione non è normale. Possiamo passare solo insieme questo tempo? Poi vedremo, ok?»

Era già qualcosa.

Scossi le spalle, «Ok.»

«Bene, programmi per la cena?»

«Direi una pizza. Mamma ha lasciato i soldi.»

«Nel barattolo del peperoncino, se non ha cambiato abitudini.»

«Esatto.»

«Ok, ma non la ordinare per me. Ho lo stomaco ancora in subbuglio per il viaggio, magari mi preparo qualcosa dopo attingendo dal frigo.»

«Beh, posso anche io…»

«Ma no, ti piace la pizza. E poi devi avere qualcosa davanti che ti fa gola, altrimenti sei capace di lasciarlo lì. Come vanno i bronchi?»

«Meglio. Decisamente. Ok, prendo la pizza stasera.»

Tornammo sul divano, solo in quel momento mi resi conto che le tende erano tirate.

Rimasi a fissarle perplesso, quando accidente…?

«La fidanzata ce l’hai?»

«Non riporterai niente a nostra madre di quanto ci diciamo.»

«Neanche una parola, lo giuro.»

«Ok. No, nessuna fissa.»

«Ma qualcuna che ti piace c’è.»

«Certo, ma non assomiglia per niente a Barbie.»

Kim rise di cuore, «Me lo voglio proprio augurare. Mamma ti ha detto che le decapitavo?»

Dovetti guardarla strano, perché ridacchiò. «Decapitavo le Barbie.»

Rimasi a fissarla a dir poco stralunato, «Se n’è guardata bene‼‼ Scherzi o fai sul serio??»

«Ne ho decapitate due, poi hanno smesso di regalarmele.»

«Al collegio non ti hanno fatto tenere bambole, giusto?»

«No, non sono permesse.»

Mi trovai ad annuire. «Come mai le decapitavi?»

«Volevo vedere cosa c’era dentro. Non mi dava l’idea di una molto intelligente. Non mi stupii affatto quando scoprii che aveva la testa vuota.»

No, ok… mia sorella è diventata la mia eroina in quel preciso momento.

«Hai appena guadagnato una caterva di punti» l’avvisai.

La vidi sorridere felice, «Ho tante di quelle domande da farti.»

«Anche io» ammisi. «Mamma e papà non mi parlano tanto di te. Quando arrivano le tue foto nuove o quando qualcosa si collega a te… come ti trovi in questo collegio? Fai sport?»

Rimase un attimo in silenzio, poi… «Poco.»

«Cosa fai lì dentro tutto il giorno?»

«Studio… diciamo che c’è la possibilità di apprendere tantissime cose. Il tempo non passa mai però.»

«Hai amiche?»

Un sorriso che era una smorfia le tirò la bocca, «Qualcuna, ma… non possiamo stare molto insieme.»

«Ah.»

«Tu invece hai molti amici?»

«Pochi amici, molti conoscenti. Se c’è qualcosa in cui ti assomiglio, dice sempre la mamma, è nel parlare tanto e non dire niente. C’è chi la chiama riservatezza. Anche quando i parenti mi fanno domande, praticamente non gli dico niente.»

«Quindi io sono la prima con la quale ammetti che ti piace qualcuna.»

«Esatto.»

«Come si chiama?»

«Karen.»

«Bello, un nome con la k.»

«Sono abbastanza sicuro che non la incontrerai facilmente, quindi non ci dovrebbero essere pericoli.»

«Molto spiritoso. Lei che pensa di te?»

«Ufficialmente o ufficiosamente?»

«Ufficialmente.»

«Che sono insopportabile.»

«E ufficiosamente?»

«Che sono simpatico.»

«Ok, da donna ti confermo che è cotta. Non fare l’idiota, intesi?»

«Intesi. Mi ha telefonato quando non mi ha visto a scuola per quattro giorni, ma ero afono dalla bronchite in quel momento e ci ha parlato…»

«La mamma???» chiese deliziata mia sorella.

«Ti pare che sarei qui a parlarne con te se l’avesse intercettata lei? Mi avrebbe sfinito di domande!»

Kim rise di nuovo, «Ti ha coperto papà‼! Se quella donna lo scopre siete due uomini morti!»

Stavolta scoppiai a ridere anche io, non riuscii proprio a trattenermi, anche se l’argomento era abbastanza spinoso… nonostante fosse facilissimo parlare con lei.

All’anima della riservatezza.

«Le ho fatto dire da papà di tenerci in contatto tramite sms e ci siamo scambiati i numeri di cellulare!»

«Bella mossa di aggiramento, complimenti! Senza contare che hai messo le mani sul suo numero! Però, fratellino!»

L’ammirazione nel tono di mia sorella dette un calcio d’impennata alla mia autostima che mi sarebbe bastato fino al Natale successivo, e mancavano ancora tre mesi alla fine dell’anno scolastico.

«Modestamente, me la sono cavata bene. Non sei l’unico genio in famiglia, io però mantengo il profilo basso, non mi sono fatto sgamare a tre anni.»

Ci sta che tornato a scuola avrei chiesto a Karen di uscire.

«Questa è buona Ken!»

Non avevo mai sentito il suono della risata di mia sorella. Era molto simile a quello della mamma, ma più cristallino.

A guardarla dal vivo capivo finalmente cosa mi aveva detto il nonno anni addietro: presi singolarmente io ero figlio di nostra madre e Kim figlia di nostro padre, ma insieme avevamo un senso. Era vero.

«A cosa pensi?» chiese Kim.

«Che è vero che tu assomigli a papà.»

«Tu sei la fotocopia al maschile della mamma. Da quando sei nato eh, non è una novità per me. Quando ho capito che avresti avuto i capelli mossi, ti ho odiato. Per una manciata di secondi.»

I capelli lisci sparivano dietro la schiena di mia sorella. Li aveva fatti crescere sin da piccola, le foto parlavano chiaro.

«Per tua informazione, mi piacciono lisci. Sembro perennemente spettinato, dice la mamma.»

«Stai benissimo, non darle retta. Quindi Karen li ha lisci?»

«Esatto. Più corti dei tuoi, ma le cadono sotto le spalle.»

Kim annuiva.

Guardando verso la finestra mi resi conto che era quasi buio.

«Ma che ore sono?» chiese più a me stesso che a lei.

«L’ora di chiamare la pizza» rispose Kim. «Mentre lo fai vado a bere.»

Ci dividemmo e quando riattaccai, me la trovai accanto.

«Bastano i soldi che ti ha lasciato mamma?» chiese.

«Sì, tranquilla. Doveva aspettarsi che tu non l’avresti presa, non ha lasciato i soldi anche per te. Che strano.»

«Mh, non vado pazza per la pizza. Preferisco il pollo in tutte le salse.»

Schioccai le dita, «Già! E’ vero!»

Scoppiammo a ridere.

«Devo aggiornarti eh! Rischi di scordarti che esisto!» esclamò Kim.

Percepii qualcosa nella sua voce che mi diede i brividi. «Non dire cazzate sorella.»

Con un braccio le cinsi il collo, «Se dovevo scordarmi di te, sarebbe successo in questi anni in cui sei stata solo una serie di foto. Adesso… adesso no. Non c’è verso. Per la prima volta, ho finalmente la sensazione di avere una sorella.»

La sentii fremere. «Allora non è troppo tardi. Sono arrivata in tempo.»

Abbassai lo sguardo su di lei e la vidi piangere. Mi tremò la terra sotto i piedi, «Ehi… Kim… ma dai…»

Completai l’abbraccio con tutte e due le braccia e quasi la inglobai, rendendomi conto di avere a mia volta le lacrime agli occhi. «Ma dove hai lasciato il tuo geniale cervello stamani? Sul cuscino?»

Mi rese l’abbraccio, «Mi sono sentita sola in questi anni» ammise.

Contai fino a cinque, poi fino a dieci. Ero un totale idiota.

Se io avevo sofferto per quella situazione, ero comunque con mamma e papà e avevo un paio di spostati che potevo definire amici. Lei era in un collegio chissà dove… perché porca puttana non sapevo dove fosse, e non aveva nessuno.

«Ascoltami sorella, e ascoltami bene. E’ arrivato il momento di tornare a casa, ok? Questa situazione deve finire.»

Il suo abbraccio si serrò fino all’incredibile. Se fossi stato leggermente meno piazzato bene, mi avrebbe spezzato la schiena.

Ma dove la teneva tutta quella forza??

«Non mi sentirò più sola Ken» mormorò. «Stai tranquillo. Avevo paura che dopo tutta questa distanza… tu non… non mi volessi come sorella, ecco.»

Era il colmo.

«Mai. Neanche per un istante ho pensato di non volerti. Ti mentirei se ti dicessi di aver avuto chiara la situazione, Kim. Mi dava sui nervi questa tua… leggenda. Ma da quello che sento, le tue brave cazzate riesci a produrle…»

«Sei un bastardo‼!» esplose ridendo.

Il suono del campanello ci riscosse.

«Vai ad aprire, ne approfitto per andare in bagno» disse Kim, e sparì su per le scale.

Ritirai la pizza, scambiai due parole con il ragazzo che si occupava delle consegne in zona e richiusi la porta.

Accesi la luce esterna, come facevano sempre i miei quando faceva buio.

Tornai in cucina e Kim era già lì.

Aprii la pizza e iniziai a tagliarla, «Sei sicura che non ne vuoi?»

«Sicurissima.»

«Neanche un pezzetto? Questa è buonissima.»

Kim si arrese, «Ok. Piccolo però.»

Ne tagliai uno e, il tempo che ci misi a voltarmi e appoggiare la rotella nella lavastoviglie, era già sparito.

La guardai con tanto d’occhi, «Allora hai fame!»

«Sono semplicemente un aspirapolvere, tranquillo!»

Scoppiai a ridere, «Se te ne va altra, è lì! Hai dato un’occhiata al frigo?»

Kim annuì con un sorriso.

Mangiai tutto sommato di appetito, era una settimana e mezzo che mamma mi faceva a ripetizione i miei piatti preferiti, pur di farmi mangiare.

«Hai perso peso?» chiese improvvisamente Kim.

«Non lo so, non mi sono pesato. Perché?»

«Perché io ne persi parecchio quando mi prese la bronchite. Mamma si spaventò a morte.»

«Non che abbia fatto eccezione con me. Non credo però di aver perso peso. Almeno non a guardarmi.»

La vidi annuire pensierosa. «Hai già scelto che fare dopo il college?»

La domanda mi prese un po’ in contropiede. «Ancora no» ammisi. «Mi piace molto il rugby, credo di poter aspirare ad una borsa di studio… ma non ho deciso cosa fare.»

«Ma giochi ancora? Accidenti Ken, ti sei fatto male diverse volte!»

«Quante storie, mi è uscita la spalla un paio di volte…»

«Facciamo quattro volte in un paio di mesi. Senza contare che tutte le volte che esci dal campo c’è qualche livido che prima non c’era. Io non posso cambiare fratello, ma tu puoi cambiare sport.»

Rimasi talmente sorpreso che anche lo scoppiare a ridere richiese più tempo del solito.

«Questa me la scrivo‼!»

Kim sbuffò con un sorriso, «Ken, per favore. Pensaci ok? Puoi riuscire in qualsiasi sport, che tu debba proprio farne uno spacca ossa…»

«E’ stata la mamma a chiederti di farmi questo discorsino?»

«No. Ma la sento preoccupata quando parla di questo. Farsi male seriamente alla tua età ti segnerebbe per tutta la vita.»

Era vero, inutile girarci intorno. Ci pensavo da un po’. E il fatto di essere rimasto fermo settimane a causa della bronchite mi aveva dimostrato che non sentivo la mancanza del rugby.

«Mi piace far parte di una squadra.»

«Tolto il rugby ti restano calcio, pallavolo, pallacanestro, pallanuoto…»

«Pallanuoto?»

«Sì, giocare a palla in acqua.»

«Ah.»

«Ci ho giocato per un po’.»

«Davvero? Poi hai smesso, perché? Non te lo permettono al collegio?»

Kim fece una smorfia, «Ho perso interesse, credo.»

«Mh.»

Un improvviso rumore mi fece sobbalzare.

Kim non fece una piega.

«Ma che è?» chiesi a mezza voce.

«Non ho sentito niente» disse Kim.

«E me ne sono accorto: io mi sono quasi attaccato al lampadario, tu non hai fatto una piega.»

«Resti spesso da solo in casa?»

«Scherzi? Se mamma e papà lavorano con i turni sovrapposti, il pomeriggio può accadere, ma di notte, una volta l’anno. Quando possono vedere te. E questo è il primo anno che la vicina non dorme qui o io vado da lei.»

Kim annuì visibilmente sollevata.

«Sorella, ho sedici anni. Se posso guidare la macchina, appena posso ricominciare a prendere lezioni, dannata bronchite, posso restare da solo in casa per due giorni. Ti avverto che ho convinto anche mamma con questa teoria.» Sbuffai, «E poi ho capito perché ha ceduto: non sono solo. Ci sei tu.»

Stavolta Kim sorrise a tutta bocca, «Hai ragione. E ci sarò sempre.»

«E vorrei anche vedere!» Mi tornò in mente il caffè del dopo cena, «Ti va un caffè?»

«Meglio di no.»

Cominciai a preoccuparmi: aveva solo bevuto un po’ di acqua e ingurgitato un boccone di pizza.

«Kim, ma ti fa male lo stomaco?»

«No, ho lo stomaco che mal tollera i viaggi.»

«Sicura?»

«Sicura. Ma fallo per te. Magari ne prendo un sorso se mi va.»

Mi convinse.

Mentre l’acqua per il caffè bolliva toccò a me andare in bagno. La presenza di Kim aveva come bloccato tutto il resto. Roba da pazzi.

Tornammo sul divano, stavolta invertimmo le posizioni e fui io a semi sdraiarmi su di lei.

«Ah, ricordami di chiudere le finestre, comprese le serrande e azionare l’allarme. Mamma mi uccide se non lo faccio.»

Kim sorrise, «Tranquillo. Già fatto.»

«Ah, perfetto.»

Mi rilassai.

Parlammo ancora un po’ del più e del meno, Kim si informò circa i parenti e in particolare dei nonni. Sapeva della morte della madre di nostra madre.

«Perché non eri al funerale?» chiesi ancora prima di pensarla.

«C’ero. Ma sono potuta stare così poco che non aveva senso farmi vedere e poi andarmene. Ti vidi piangere Ken. Eri così piccolo. Come potevo spiegarti che ci saremmo a malapena abbracciati?»

Il discorso filava. Kim aveva solo nove anni quando morì la nonna, ma era evidente che capiva molto più di quello che doveva.

Nessuno aveva commentato la sua assenza. Ovvio: sapevano che c’era. Io non l’avevo vista.

«Ah Kim, dormi tu in camera, il divano tocca a me» la informai per cambiare argomento.

Funzionò anche troppo bene, il diversivo.

«Non se ne parla neanche.»

«Scommettiamo che sono in grado di portarti di peso?»

«Ti credo sulla parola, ma fidati che tu sul divano non ci dormi. Esci da una brutta bronchite.»

«Sei quella che mi ha dato del testardo, vero? Che coraggio.»

Sbuffò per nascondere una risatina, «Te lo sottoscrivo anche.»

«Testona.»

«Parliamo di cose importanti, devi prendere medicine?»

«Ho finito l’antibiotico stamani. Lunedì pomeriggio passa il dottore a visitarmi. Se non rientro a scuola presto, sarà un disastro. Ho già perso più di due settimane. Joe e Ryan mi portano i compiti, ma le spiegazioni mi mancano.»

«Il tuo respiro mi sembra regolare. Dovresti essere guarito.»

«Lo credo anche io. Se penso a come stavo quando mi sono svegliato, non c’è paragone.»

«Pensa, pallanuoto e pallavolo si giocano al coperto d’inverno…»

Mi venne da ridere. Signori, il DNA non era un’opinione.

«Perché sei cosciente di essertela presa in campo, vero?» continuò Kim imperterrita.

Sospirai, «Sì Kim, ne sono cosciente. Non credo riprenderò a giocare a rugby. Non ne sento la mancanza.»

«Bravo.»

«Grazie. Non ho mai realizzato quanto invece sentivo la tua, di mancanza. Forse è perché non ti avevo mai vista.»

«Ti sei concentrato sull’assenza per dimenticare la mancanza.»

Rimasi a fissarla sbalordito.

All’anima. Mia sorella era proprio un genio.

«Sì, credo di sì» ammisi.

Kim annuì, fissandomi seria. «Io ho fatto il contrario. Mi sono concentrata su quanto mi mancavi per cercare di mettere in secondo piano che non potevo starti vicino. Almeno non come avrei voluto.»

«Parleremo insieme a mamma e papà. Sono sicuro che non vedono l’ora di riaverti qui. Devono solo sapere che tu lo vuoi. Fanculo il collegio ok? Resti un genio anche fuori di lì, Kim. Ci penso io.»

Gli occhi di Kim si riempirono di nuovo di lacrime, si chinò su di me e mi posò un bacio sulla fronte.

Prese la tazza ormai vuota e la posò sul tavolino accanto a lei, poi mi abbracciò.

Ecco, quella era la sorella che avevo sempre immaginato dovesse avere un fratello.

Risposi all’abbraccio e non so dire quando mi addormentai. Ma sprofondai nel sonno.

 

E mi svegliai con il collo completamente intorpidito.

Problema risolto in partenza: ci eravamo addormentati sul divano tutti e due.

Kim era in piedi davanti a me, si stava sistemando il rossetto rosa con due dita.

Dovevo proprio dormire profondamente per permetterle di alzarsi senza sentirla.

«Ma quel rossetto non te lo togli mai? Fa pendant con quel berretto.»

«Buongiorno eh, ti suggerisco che se mi sono fatta una foto ritratto con queste due cose, sono quelle che preferisco.»

«Ottimo suggerimento. Ci facciamo una foto insieme prima della tua partenza? Sarebbe uno scoop vedere i fratelli Greson immortalati insieme. Se non altro ho sempre avuto foto recenti di te.»

«Ho controllato… mamma ti ha messo in camera l’ultima che ho fatto.»

Sorrisi, neanche io sapevo il perché.

«Chi ha affermato che non avrei dormito sul divano?» la punzecchiai.

«Ho cambiato idea quando mi sono accorta che ci avrei dormito anche io. Hai sentito freddo?»

«Assolutamente no.»

Una breve occhiata in giro mi confermò che le finestre erano ancora perfettamente sigillate.

«Dai, la colazione è pronta.»

«Davvero? E cosa mi hai fatto?»

«Cornetti, bomboloni e crepes

«Kim, a parte il fatto che avresti svaligiato la pasticceria che oggi è chiusa, essendo domenica, l’unica cosa dolce che tollero è il millefoglie.»

«C’è anche quello.»

«Come no.»

«Perché invece di lamentarti non vai a controllare?»

Mi sfiorò il pensiero che facesse sul serio. Mi imposi di andare in bagno, prima. Giusto per non darle la soddisfazione di vedermi correre in cucina con la bavetta alla bocca a fare la parte dell’idiota.

Quando misi piede in cucina, rimasi senza parole.

Non c’era anche il millefoglie. C’era solo il millefoglie. La fetta più grossa che avessi mai visto.

«Ma come cazzo hai fatto??»

«So comprare un dolce.»

«E dove lo avevi messo? Sotto il berretto? Non ho neanche visto una tua valigia, ora che ci penso.»

«Direi che possiamo ragionevolmente escluderlo. Mangia e falla finita.»

Ci stavamo guardando, sorridendo entrambi.

Mi trovai a pensare che le scaramucce con una sorella al di sopra della media erano proprio uno spasso.

Feci colazione.

Quando la lavastoviglie fu pronta, la chiusi e la feci partire.

Di Kim, nessuna traccia.

«Kim?» chiamai a voce alta.

«Sono di sopra!»

La raggiunsi e la trovai sulla soglia della camera che era stata sua.

«Non usi candele?» mi chiese pensierosa.

«Ci ho provato, perché mi piacciono, ma la mamma ha avuto una specie di crisi di panico e mi ha detto che sono pericolose

«Ma tu le hai ancora in casa, vero?»

Rimasi un attimo basito, «Sì. Di solito le accendo quando loro non ci sono. La tua apparizione mi ha distratto.»

«Neanche io ci ho pensato. Che cosa usi per farle bruciare?»

«Mh, quello che capita.»

«Me lo immaginavo. Allora ascolta. In garage c’è una scatola, ben nascosta dietro gli attrezzi di papà. C’è scritto il mio nome sopra. Appena puoi vai a prenderla, aprila e serviti, ok?»

«Ok… ma perché la mamma…

«Ken, siamo a casa‼!»

La voce di mio padre fece saltare entrambi in aria.

Vidi mia sorella come interdetta, diventare il ritratto della sorpresa «Oh cazzo, sono in anticipo.»

Cercai con lo sguardo l’orologio e… sì, la sveglia sul comodino mi confermò che effettivamente tornavano molto più tardi quando andavano a far visita a Kim.

Ovviamente, però, se ci pensavo un attimo… era logico che fossero tornati prima. Ci avevano lasciato del tempo per stare soli, per allacciare il contatto, se così si poteva dire, ma avevano voglia di vederla e… e… fu in quel momento che mi fulminò la domanda com’è che non li ho sentiti neanche una volta quando mia madre mi chiama ad intervalli di dieci minuti quando esce anche a fare la spesa?

«Tesoro, il telefono funziona!» esclamò mia madre dal piano di sotto.

Li sentivo muoversi per casa con… foga. I tacchi di mia madre sembravano un tip-tap impazzito

«Io non capisco…» disse mio padre. E sentii pura confusione nel suo tono.

«Ken?» chiamò mia madre «Dov’è Ken??»

«Oh Ken, dovresti vederti: hai due punti interrogativi al posto degli occhi!»

«Ma…»

Kim mi abbracciò facendomi piegare. Stretto. Sentii le sue labbra sulla mia guancia.

«Mi vado a nascondere, dammi qualche secondo ok?»

Una sorella genio che regrediva all’età di quattro anni era una novità assoluta.

Risposi all’abbraccio, «Va bene, ma sanno che ci sei, che ti nascondi a fare?»

«Comportati come se non ci fossi.»

«KEN????» esplose mia madre dal piano di sotto.

L’allontanai da me per guardarla in faccia, «Perché?»

«Fai come ti dico. Capirai. Ti voglio bene Ken. Non scordarlo mai.»

«Anch’io ti voglio bene Kim, ma…»

Mi poggiò un dito sulle labbra e mi fece l’occhiolino.

«Aspetta tesoro, proviamo al piano di sopra!» la voce di mio padre era molto tesa.

Girò su se stessa e uscì dalla stanza.

Le corsi dietro prima di deciderlo ma nel disimpegno che si apriva sulle scale non vidi nessuno.

Mia madre apparve nel mezzo della seconda rampa come partorita dalla Terra.

Potevo smettere di domandarmi da chi avesse ripreso mia sorella. Evidentemente la smaterializzazione era preclusa alla discendenza maschile dei Greson.

«Ah, eccoti qua! Rispondi no?? Mi hai fatto prendere un colpo!»

«Siete… in anticipo o sbaglio?»

Mia madre cambiò immediatamente espressione. «Beh, sì. Il telefono non funzionava, neanche il tuo cellulare, accidenti. Alla fine siamo tornati perché ero troppo preoccupata e adesso funziona tutto.»

«Perché non hai chiamato la signora Mackenzie?»

«L’ho fatto. Mi ha detto che era tutto chiuso, ha suonato ma non hai risposto! Siamo partiti appena me lo ha riferito!»

Era spaventata a morte, altro che preoccupata.

«Non ha suonato nessuno tranne il ragazzo della pizza ieri sera che ho sentito e quindi ho aperto.»

Partì la suoneria del mio cellulare, la sentii anche da lì, ricordavo di averlo appoggiato nell’ingresso mentre li accompagnavo alla porta il giorno prima e non lo avevo più ripreso in mano.

Non aveva mai squillato.

Neanche Joe e Ryan si erano fatti sentire… ed era strano, ora che ci pensavo.

«Tesoro, adesso funziona anche il cellulare di Ken!»

La voce di mio padre era sempre più perplessa.

Mia madre alzò gli occhi al cielo, «Io non capisco!» esplose.

«Provi a spiegarmi?»

«Telefono di casa: irraggiungibile. Il tuo cellulare: irraggiungibile. Il campanello: funziona solo con il ragazzo della pizza? E’ da ieri che provo a mettermi in contatto con te e non c’è stato verso‼! Stai bene???»

«Sì mamma, sto bene. Come sta Kim? E’ sempre in piedi quel collegio?»

Visto che mia sorella non aveva ancora risposto a molte domande, e a quanto pare le stranezze non finivano lì, il testimone passava a mia madre. Ero proprio curioso di sapere cosa avrebbe risposto, visto che la figlia era stata lì con me.

Mia madre si toccò nervosamente una guancia, poi i capelli, poi dette uno strattone alla borsa… «Ken, tesoro, puoi scendere giù per favore? Io e papà dobbiamo parlarti.»

Sorrisi. Oh, finalmente.

La prima riunione familiare dei Greson da che respiravo, praticamente.

Mi avviai verso le scale per seguire al piano di sotto mia madre, chiedendomi sempre quando accidente Kim si sarebbe decisa a saltar fuori (a meno che papà non la stesse cazziando al piano di sotto per non essersi fatta sentire non sentendoli a sua volta, ma i decibel dei cazziatoni di papà erano difficili da ignorare e non volava una mosca in casa)… e anche perché la mamma non mi chiedesse di lei, visto che da che avevo memoria per la prima volta l’intera famiglia era in casa… il nervosismo era forse dettato dal fatto che… che cosa? Forse la spiegazione più ovvia era che, semplicemente, non c’era spazio per le cose normali in quella casa.

Arrivato alle scale, vidi una busta bianca quattro o cinque gradini più in basso… cioè dove si era fermata mia madre.

La raccolsi. Era un cartoncino spesso e rigido. Non era chiusa.

L’aprii e tirai fuori il biglietto che era all’interno. Era doppio in realtà e dovetti aprire anche quello.

Mi si mozzò il respiro. Mi si fermò il cuore.

Improvvisamente seppi cosa volevano dirmi i miei.

Le gambe mi si piegarono e mi trovai a sedere sul gradino.

Il sorriso di Kim, nella foto ormai emblema di mia sorella che spadroneggiava anche nel cassettone di camera mia, era sempre lo stesso.

Sempre gli stessi anche quel rossetto rosa e quel berretto.

“23 marzo 1994 ~ 23 marzo 2014

Nel ventesimo anniversario della morte di Kimberly Greson,

i genitori, il fratello e i familiari tutti

la ricordano con infinito amore.

Troppo presto ci sei stata portata via,

ma sei nei nostri cuori e lì resterai per sempre.”

Mi coprii gli occhi con una mano mentre ciò che mi circondava iniziò a vorticare e l’unica cosa che riuscii a fare, fu cominciare a piangere.

Credo di non aver mai singhiozzato in quella maniera e mi auguro di non aver mai altri motivi per farlo di nuovo in futuro.

«Oh Ken… no…»

La voce di mio padre mi arrivò da chilometri di distanza.

Sentii le braccia di mia madre avvolgermi, «Maledizione…‼! Ken, no ti prego…»

«Fratellino…»

Alzai di botto lo sguardo e Kim era accanto a nostro padre, in fondo alle scale del pianerottolo intermedio. Notai immediatamente la differenza: se avessi provato ad abbracciarla in quel momento, mi sarei trovato aria fra le braccia.

«Perché?» le chiesi in un soffio «Perché?»

La voce di mio padre fu sovrastata dalla sua, mi rimbombava direttamente dentro la testa. «Dovevo stare un po’ con te, fratellino, dovevo prima di andarmene. Ho dovuto aspettare anni perché il mio aspetto quando sono morta combaciasse con l’età che avrei dovuto avere ai tuoi occhi. Mamma ha tirato fuori le mie foto facendomi crescere praticamente con te, quando ho visto quella foto, ho capito che era arrivato finalmente il momento. Papà me l’ha scattata tre giorni prima che morissi. Vedi… sono diversi anni ormai che discutono di quando dirtelo, sono coscienti che dovevi saperlo, e due anni fa hanno deciso di farlo quando non avrebbero avuto più foto per farmi… vivere. Non odiarli Ken, la tua nascita li ha salvati dalla pazzia per il dolore della mia morte e hanno cercato di farti crescere proteggendoti da quel dolore. Perdona il mio egoismo.» Quel sorriso tornò a piegarle le labbra, anche se i suoi occhi erano pieni di lacrime, «Come vedi, sono tutto fuorché perfetta.»

Rimasi in silenzio, non sapevo che dire.

«Ken, ti prego dimmi qualcosa.»

Non riuscivo a staccare gli occhi da mia sorella, neanche l’angoscia nella voce di mia madre ci riuscì.

Sapevo che se avessi distolto lo sguardo, l’avrei persa per sempre.

Kim rise, «Allora ho parlato con il muro dietro di te in questi giorni!» Si asciugò le lacrime con un gesto della mano, «Non mi perderai mai Ken. Mai. Non potrai più vedermi così, mi ci sono voluti venti anni per mettere insieme abbastanza energia da rendermi fisica per così tante ore, ma ci sono sempre stata e ci sarò sempre. Sempre. Te lo prometto.» Raccolse un’altra lacrima con un dito, poi si indicò il berretto sulla testa, «Vorrei che lo indossassi anche tu. Lo ha fatto la mamma e lo ha rifatto pari pari. Chiedile di dartelo. Ah, scordavo, la sciarpa di questo completo già la usi e forse i guanti ti staranno un po’ stretti, ma mamma può allargarli. Non li indossavo quando sono morta.»

L’ascoltavo incredulo.

Aprii bocca e mia sorella scosse la testa, «Non mi vedono Ken, ricordalo sempre. Metterti a parlare da solo adesso li ucciderebbe.»

Richiusi la bocca e puntai mio padre, sperando che Kim non mi sparisse com’era apparsa nell’ingresso di casa solo il giorno prima.

Il cervello lavorava alla velocità della luce.

«Papà… non ho capito un accidente di quello che mi hai detto. Dovrai ricominciare da capo. Lentamente. Adesso vado a lavarmi la faccia. Poi parliamo e… e mi raccontate tutto, ok? Aspettatemi in cucina.»

I miei genitori, forse per la prima volta da che respiravo, mi diedero retta senza discutere.

«Posso tenerlo?» chiesi a mia madre sollevando il biglietto «Grazie per avermi incluso.»

Gli occhi di mia madre si riempirono immediatamente di lacrime, «Certo che puoi tenerlo. Ti aspettiamo giù.»

Tornai a guardare accanto a mio padre e Kim non c’era più.

Soffocai un singhiozzo, mi sforzai di tornare sulle mie gambe e abbassai la testa per il sorriso di commiato a mia sorella.

Ciao Kim, grazie. Non hai idea del regalo che mi hai fatto… e non sto parlando del berretto, sorellina.

Un improvviso alito di vento si alzò in un punto della casa in cui non c’erano finestre.

Annuii brevemente, e regalai l’ennesimo sorriso a mia sorella avviandomi in bagno.

 

 

 

______________________________________________

 

NOTE:

 

(*) Hokuto, vedi Kenshiro.

 

 

 

Salve a tutti, prima ff in questa sezione!

 

Quando sogni una trama che ti butta giù dal letto alle 7 la mattina, è tanta roba.

 

Spero di aver reso il perché non sono riuscita a riprendere sonno.

   
 
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