Anime & Manga > Bleach
Segui la storia  |       
Autore: ValentinaRenji    07/10/2014    3 recensioni
Italia, Seconda Guerra Mondiale.
Dal testo:
È tremula come me in questo momento, pensa Rukia, lasciandosi sfuggire un' amara risata fra le labbra appena accennate , maggiormente simile ad un singhiozzo che a un tentativo di autocommiserazione. Ed in effetti il suo desiderio è realmente quello di sciogliersi in un pianto accorato, uno di quelli scomposti, scandito da singulti e parole confuse, un pianto che ti fa accasciare sfinito sul materasso vecchio facendoti scivolare in un sonno vuoto e tetro. Ma la parola dormire , per lei, è ormai un vocabolo lontano e sconosciuto.
(TEMPORANEAMENTE SOSPESA PER MOTIVI DI STUDIO)
Genere: Azione, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Espada, Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Sosuke Aizen, Un po' tutti
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Breve introduzione

Questa è una storia cruda, una storia che parla di uomini dall’animo intrepido che sperano di cambiare il mondo. Non di eroi, non di cavalieri o benefattori universali, bensì di giovani con un cuore coraggioso, di persone come noi che hanno aperto gli occhi e ciò che hanno visto li ha spaventati a morte: una realtà triste, una realtà che ha bisogno di qualcuno come loro, con la forza di cambiarla, o almeno provarci.
Gli eroi non commettono errori, loro si.
Gli eroi non hanno paura, loro si.
Gli eroi non amano le persone sbagliate, né si smarriscono nei propri sentimenti … loro si.
In questa storia la vita è un viaggio precario, nudo, gracile, sferzato dai timori e dall’angoscia della guerra, rinvigorito dai focolai di rivolta celati nei boschi montuosi dove una resistenza sempre più grande prende forma con lo scorrere del tempo. Non c’è spazio per paesaggi idilliaci coronati da rose e fiori, bensì a regnare è la violenza della battaglia, le notti insonni che precedono un assalto trascorse pensando alla persona amata abbandonata in un paese lontano, sfregando fra le mani la resa dei conti con i propri istinti, i desideri propri d’ogni essere umano, talmente forti da ledere, talvolta,  la morale ed il valore ostentati quando tutto pareva sicuro e chiaro nella mente.
 
Call me a judas, call me insane.
But I am what I am, I'm just a man..


 

CAPITOLO 1

 
A volte la paura ti cinge come un abbraccio infernale, ti divora lentamente partendo dalla punta delle dita infangate, leccandole piano, assaporando il sapore della vita umana nelle sue fauci di avido ghiaccio. Ti morde con calma, con piacere, come un lurido gioco dove il più alto fine è crogiolarsi nel dolore altrui, dove ogni fitta di sofferenza è linfa, è sangue nelle vene, è un fuoco che arde e brucia, corrode, riduce a mera polvere tutto ciò che sfiora.
Paura, ansia, terrore.
Il cielo striato di rosso, gli echi lontani delle mitragliette e i boati delle mine.
Odore di morte, di orrore, di anime che spirano fra le macerie dei paesi devastati, delle ferrovie bucherellate dalle bombe precipitate dalla volta scura, la coltre di nubi spezzata dallo sfrecciare degli aerei con il loro strascicato suono inquietante.
Ed allora le voci si affollano le une sulle altre, le porte si chiudono a chiave, chi prima camminava lungo le vie deserte corre a perdifiato lanciandosi a terra, giungendo le mani in una preghiera silenziosa, le lacrime calde lungo le guance, pungenti negli occhi vitrei.
Ogni giorno che passa scava un solco più profondo, in bilico su un abisso profondo e spaventoso il cui filo traballa effimero, precario, logoro.
Due iridi blu come l’abisso lanciano uno sguardo tremante fuori dal vetro opaco della finestra sbarrata dai balconi chiusi, cercando di scrutare il paesaggio esterno attraverso le crepe di quel legno consumato e privo di colore, scheggiato in molteplici punti tanto da conficcarsi nelle dita se non si presta abbastanza attenzione; posa la mano affusolata sulla tenda bianca ricamata da intarsi di pizzo avorio, socchiudendo le palpebre stanche per bearsi di quel contatto tenue, candido, avvicinando il piccolo naso al tessuto chiaro per inspirarne ancora una volta il profumo di bucato, di pulito, di quel sapone con cui lei stessa aveva sfregato con vigore le lenzuola e le tende qualche settimana prima sotto un caldo sole settembrino. Le aveva strofinate ridendo, annusando piacevolmente quelle note linde fino all’ultima goccia, schiudendo le labbra sottili in un sorriso affettuoso ogni qual volta il vento s’insinuava fra i capelli nerissimi e lisci, scompigliandoli dolcemente, giocandovi, ghermendoli fra  i suoi respiri per farli ondeggiare come l’acqua salata del mare lungo il bagnasciuga.
Allora lei puntava in alto i suoi grandi occhi color notte, proiettandoli nel cielo terso delle due di pomeriggio, pregustando le prime foglie autunnali, giallastre, opache, rossicce, scosse da quella brezza ancora tiepida, le più deboli strappate dai rami stanchi e trasportate fino al suolo erboso in una danza placida, assaggio di quello che sarebbe ben presto diventato un ampio manto scricchiolante dalle tonalità ocra dei castagni, puntellato talvolta da qualche guscio acuminato e, perché no, da manciate a manciate di ghiande, precipitate dalle possenti chiome delle querce.
Sbatte le ciglia ebano, riscuotendosi dal torpore, sussultando al semplice contatto di quella mano gelida sulla sua spalla esile, coperta solamente dalla vestaglia da notte leggermente sgualcita.
 
“Rukia, va’ a dormire. È tardi.”
 
“Ma, fratello …”
 
“Va’ a dormire.”
 
La donna abbassa lo sguardo, non senza aver incrociato quello del ragazzo a nemmeno mezzo metro da lei. Sente le sue perle scure pungerla, conficcarsi nella pelle lattea trucidandola come quegli spari cantati in lontananza notte dopo notte, giorno dopo giorno.
Ne percepisce il peso, gravoso ed intenso, mascherato con una vile freddezza nel vano tentativo di celare una preoccupazione latente, ben superiore alla semplice apparenza.
L’uomo continua a guardarla in silenzio, pallido quanto lei, la chioma corvina mollemente adagiata lungo il collo magro, l’altra mano stretta ad una candela accesa dalla fiammella tremula.
 
È tremula come me in questo momento, pensa Rukia, lasciandosi sfuggire un' amara risata fra le labbra appena accennate , maggiormente simile ad un singhiozzo che a un tentativo di autocommiserazione. Ed in effetti il suo desiderio è realmente quello di sciogliersi in un pianto accorato, uno di quelli scomposti, scandito da singulti e parole confuse, un pianto che ti fa accasciare sfinito sul materasso vecchio facendoti scivolare in un sonno vuoto e tetro. Ma la parola dormire , per lei, è ormai un vocabolo lontano e sconosciuto.
 
“Fratello, come posso riposare sapendo che lui è là fuori? Che potrebbe tornare da un momento all’altro ed avere bisogno di noi? Magari è ferito, magari è rimasto bloccato e non può muoversi io non …”
 
“Smettila di comportarti da immatura. Sa ciò che fa, è stata una sua scelta. Perciò non possiamo fare altro che aspettare.”
 
“Dovremmo seguirlo.”
 
Byakuya sgrana impercettibilmente le iridi dalle sfumatura lapislazzuli, imprimendo maggior forza nella stretta sulla candela dalla cera scivolosa. Corruga appena le sopraciglia nere, conferendo un’aria maggiormente austera al volto già serio, coinciso, sferzato da un muto dolore.
 
“E’ troppo pericoloso. Sai quanto me cosa comporterebbe uscire allo scoperto ora, Rukia. Non possiamo permettercelo.”
 
“E quindi lasci andare Ichigo allo scoperto? Lasci che sia lui a rimetterci la pelle?”
 
Sembra sul punto di scoppiare in lacrime, ma si trattiene.
Morde il labbro inferiore, irrigidendosi, allontanandosi con uno scatto secco dal tocco del fratello e dalla finestra sbarrata, camminando verso il letto singolo addossato alla parete della cucina spoglia, scarna, illuminata solamente dall’alone dorato delle braci nel camino quasi spento e dalla fiammella rossastra. Si lascia cadere esausta sul materasso cigolante, afferrando con stizza le lenzuola spiegazzate, le gambe penzolanti data la statura minuta ed esile. Fissa le fughe del pavimento, assorta, percependo ugualmente la presenza del moro a lei vicino, tanto da sedersi su una sedia poco distante attento a non produrre alcun rumore, come se bastasse solo quello a farli scoprire, ad urlare al nemico che si trovano esattamente lì.
 
“Rukia, ho dato la mia parola giurando di proteggerti. Non posso permettere di farti correre altri pericoli … oltre a quelli che già ci gravano addosso.”
 
Lei annuisce, sfinita, portando una mano al ventre piatto improvvisamente dolorante, stretto in una morsa feroce come quella di una fiera che ti stringe fra le sue fauci fino alla morte. Mugola nervosamente, affranta, stritolando con forza il tessuto della vestaglia, assalita da una rabbia improvvisa mista alla paura, all’ansia, alla terribile sensazione di ritrovarsi all’improvviso senza alcuna certezza, privi di terreno sotto ai piedi nudi.
 
“Gliel’hai già detto?”
 
“No.”
 
“Immaginavo. Riposa, allora. Rimarrò sveglio io nel caso dovesse tornare anche se … come ti ho già spiegato è un’operazione che richiede pazienza e tempo.”
 
Gli rivolge un cenno d’assenso, come per confermargli d’aver capito, infilandosi lentamente sotto le lenzuola finchè la guancia chiara aderisce interamente al cuscino leggermente polveroso e il braccio sinistro ricade mollemente lungo il corpo gracile ma femminile coperto dal mantello biancastro. Lo scruta ammutolita mentre si alza dalla sedia di legno per afferrare una cartina geografica nascosta in un cassetto del tavolo massiccio, fra le assi più celate alla vista; ne delinea la figura snella, la schiena longilinea, il bacino stretto, gli arti rassicuranti, domandandosi intimamente se quella promessa non sia solamente uno strascico dettato dai rimorsi della morte di Hisana.
Scuote la testa, non vuole pensarci, non è il momento: non intende affollare la mente con altri pensieri tremendi, ha già troppa paura.
 
“Byakuya ….”
 
La voce esce flebile, incrinata da un velo di timore, simile a quella di una bambina spaventata dal mostro celato nell’armadio.
Il fratello si volta appena, quanto basta per incrociare il suo sguardo vitreo e le gote dolcemente arrossate.
 
“Cosa?”
 
“Secondo te avrei dovuto dirglielo?”
 
Un altro tuono, il rombo degli aerei nel cielo notturno, una raffica di proiettili lontani, questa volta talmente distanti da risultare appena percettibili.
Entrambi sospirano di sollievo, rimanendo ugualmente in allerta; il mozzicone di candela è destinato a spegnersi a breve, Rukia sa bene che ha a disposizione un minuscolo ritaglio di tempo nonostante le domande nel cuore siano troppe, troppe davvero, talmente tante e confuse da chiuderle la gola in un nodo arso e dolente.
Lo sente sospirare mentre le agili dita ripiegano la mappa in pochi secondi, abilmente, rapide come una lepre in fuga fra gli steli del grano maturo.
 
“Va bene così. Se tu gliene avessi parlato probabilmente sarebbe rimasto qui e non sarebbe stato affatto opportuno. Non mi fa piacere ammetterlo ma … abbiamo bisogno di lui, stavolta. E ora dormi, domani avremo da fare.”

La donna socchiude le palpebre, solleticata dalle lunghe ciglia. Stringe il ventre, carezzandolo dolcemente; un sorriso affiora fra le labbra, prima di addormentarsi respirando piano, l'ultimo pensiero dedicato a quel ragazzo dai capelli ramati e l'aria perennemente accigliata.
 
*  *  *
 
Il cinguettio delle cinciallegre risuona fra le chiome dei castagni e delle querce, accompagnato da quello più acuto dei pettirossi e dei passerotti, talvolta di qualche merlo passeggero dalle piume d’ebano. Fra le fronde  verdastre e corpose, striate di rosso ed ocra, filtrano i raggi di un sole tiepido, piacevole, carezzevole sulla pelle umida madida di freddo e sudore, reduce dalla bassa temperatura della notte appena trascorsa ancora avvinghiata su quel corpo inerme, trafitto dagli aghi di un freddo penetrato nelle ossa e nella carne.
Un flebile vento s’insinua fra le ciocche ramate, ispide, sparse sulla fronte sfregiata da un coagulo di sangue raffermo fra una chiazza di fango e l’altra; le scompiglia dolcemente, come un soffio del proprio amante in un gioco intimo, come una carezza materna, avvolgente, rassicurante.
Il ragazzo schiude piano le palpebre, sbattendole appena per adattarsi alla luce del giorno, percependo un fastidioso bruciore agli occhi stanchi trafitti dal chiarore di quella mattina autunnale. Un improvviso fastidio alla gola lo solletica malevolmente, costringendolo a tossire rovinosamente, ruggendo dalla scossa di dolore alla cassa toracica e all’addome intero, accompagnata da una corposa chiazza carminio vomitata dall’esofago bruciante.
Affonda le dita escoriate nel terreno fresco sotto il suo corpo immobile, insensibile a qualsiasi stimolo, le gambe talmente indolenzite da non riuscire a muovere nemmeno un passo; fa scorrere velocemente le iridi nocciola attorno a sé, carpendo gli alti fusti degli alberi affollati in quel bosco enorme in cui era fuggito due notti prima, scappando da un nemico invisibile sancito solamente dalle raffiche affamate e dal suono del suo respiro compresso nei polmoni, dai passi di una corsa senza fine culminata nell’afflosciarsi come un sacco vuoto in quello spiazzo di sottobosco erboso, fra le felci verdeggianti ed umide, quand’era abbastanza certo di aver seminato il persecutore quanto basta per abbandonarsi alla perdita dei sensi precipitando in uno stato di incoscienza graffiato dal dolore fisico.
Tenta di respirare piano, riempiendosi lentamente d’ossigeno, tentando invano di sollevarsi per scrutare quel maledettissimo proiettile conficcatosi nella coscia destra, le vesti completamente zuppe di limo e di porpora, i capelli ramati aderenti al collo e alle guance appiccicose di terriccio.
Fa male, fa male da morire.
Eppure, per chissà quale scherzo divino, è ancora vivo e consapevole, abbastanza sveglio da cogliere il più puro terrore attraverso la ragione, tramite la consapevolezza di essere completamente solo e ferito, incapace di difendersi, armato solamente di una pistola P. 38 priva di munizioni e mal funzionante.
Ride fra sé, riflettendo amaramente su quanto dev’essere apparso ridicolo ed impacciato mentre tentava maldestramente di caricare quell’oggetto sconosciuto, affidatogli in fretta dal Capitano Urahara sotto direttiva di Kuchiki.
Sospira, domandandosi di quali insidiose trame è appena divenuto pedina, marionetta, chiedendosi in silenzio (poiché forza di parlare non ne ha) come possa quel giovane bottegaio dai capelli biondi nascondere una simile fitta rete di imbrogli e sotterfugi interamente finalizzati a sovvertire il regime.
E Byakuya, suo attuale alleato, prima principale esponente di quel sistema contro cui ora lotta con tutto se stesso, simile ad un fantasma che estende le sue catene.
 
Evidentemente andava di fretta.
 
Tasta la pistola allacciata al suo fianco, carezzandone la superficie incrostata di fango secco con la punta delle dita, beandosi di poterle ancora muovere liberamente seppur con qualche iniziale difficoltà.
Eppure, improvvisamente, si sente indecentemente stupido.
Lui e la sua mania di dover salvare chiunque.
Lui che si lancia in qualsiasi avventura senza pensarci due volte, senza riflettervi, poiché gli basta sapere che c’è bisogno d’aiuto e non può sottrarsi a questo dovere.
Non ha mai desiderato essere un eroe, ha sempre solo ambito a proteggere le persone che ama.
Ma questa volta, forse, ha esagerato davvero: si è buttato in un’impresa più grande di lui, in una battaglia dove nemico ed alleato sono indistinti, dove non sai a chi sparare perché ogni volto è sconosciuto, anche quello del compagno, dove la pistola pesa come un masso di granito ed il grilletto è un monte invalicabile.
Alla fine non è riuscito: ha sparato a vuoto, colpendo le radici dei pini e delle querce nascoste nelle notte, più con l’intento di fare rumore e spaventare i persecutori che con l’intenzione di colpirli per davvero.
Altrimenti sarebbe diventato come loro, un assassino senza nome, uno che uccide infischiandosene di chi ha di fronte.
Ed Ichigo Kurosaki non intende affatto diventare colui contro cui sta combattendo.
Tossisce nuovamente, assaporando il retrogusto metallico del sangue che ora scorre lungo il mento glabro, percependolo ritornare indietro, scendere lungo la laringe, la gola, tanto da provocargli conati di disgusto incrementati dai crampi e dalle vertigini della fame trascurata per troppo tempo.
Solo quando un punta metallica ed algida si posa sulla tempia escoriata s’accorge di non essere più solo in quel ritaglio di bosco vivido di vegetazione, protetto dalle fronte delle felci e dei cespugli di bacche bluastre avvizzite prima del termine dell’estate.
Sussulta, facendo scorrere le iridi caramello per l’intera lunghezza della mitraglietta puntata esattamente contro di lui, adagiata alla sua fronte, accompagnata dal clic della sicura che si scioglie accorciando la distanza che lo separa da uno sparo e dalla morte certa.
Deglutisce, aggrottando le sopraciglia arancioni in una smorfia corrucciata, addirittura scocciata, seria, mentre gli occhi annacquati tentano con difficoltà di mettere a fuoco l’uomo ghignante stagliato sopra di lui nel chiaro tentativo di sovrastarlo.
Conta fino a tre nella propria mente, chiedendosi se farà male o se non sentirà nulla.
Domandandosi se Rukia, la sua Rukia, si metterà a piangere o gridare quando lo vedrà tornare in una cassa di legno scheggiato.
O forse verrà lasciato lì e nessuno lo troverà più?
Uno.
Due.
Tre.
Stringe le palpebre, il respiro compresso nel petto, aspettando il boato di uno sparo che non sembra arrivare.
Una risata sgangherata gli giunge alle orecchie, ovattata, seguita da una serie di frasi delle quali non riesce a coglierne il senso tant’è lo stato catatonico in cui è precipitato.
 
“Diamine pivello sei davvero messo male.”
 
Il ragazzo allunga il piede verso Ichigo, dandogli un brusco colpo alla spalla tanto per accertarsi che sia vivo o , quanto meno, cosciente.
Questi urla dal dolore, spalancando all’inverosimile gli occhi nocciola, il viso giovane estremamente pallido come quello di chi guarda la propria fine dritta in faccia.
 
“Tsk, sei vivo allora.”
 
“Pantera per favore ritira … ritira quell’arnese o finisci per colpirlo … N.. non sembra cattivo.”
 
“Taci Hanataro. Se è un cazzo di fascista o uno di quei brutti musi tedeschi vedrai come gli faccio saltare il cervello.”
 
Il ragazzino, nascosto dietro un grosso fusto scuro, si affaccia impaurito scrutando il corpo riverso a terra del povero Kurosaki. Lo fissa parecchio, constatando sgomento che il compagno dal manto azzurro non intende affatto riporre l’arma, ancora puntata sulla tempia del soldato ferito.
 
“Oi … dico a te pivello moribondo. Che cosa sei?”
 
Tutto ciò che Ichigo riesce a carpire sono due iridi azzurrissime puntate sulle sue, oltre che al gelido contatto del metallo sulla sua pelle. È un tocco profondo, talmente terribile e spaventoso da riempirlo di brividi e farlo divorare dalle vertigini.
Vede le sue labbra muoversi, il viso corrucciarsi in un’espressione alterata, ma non sente nulla ,alle sue orecchie non giunge alcuna parola proferita da quell’uomo imponente e massiccio, probabilmente pochi anni più vecchio di lui che ne ha appena venti, dalla corporatura muscolosa e l’aria feroce.
 
“Fanculo non mi risponde, è mezzo andato.”
 
Posa l’indice sul grilletto, pronto a chiudere ogni perplessità ed assopire ogni dubbio, congedando il malcapitato ad una fine degna di chi gioca a fare la guerra senza averne mai studiato le regole.
 
“Fermo! Senti p.. possiamo curarlo! Non mi sembra il caso di ucciderlo e.. ecco potrebbe diventare dei nostri magari …”
 
L’uomo armato lancia un’occhiata truce al più giovane, gelandolo all’istante con quelle iridi turchesi e glaciali.
 
“Cosa ce ne facciamo di uno conciato così ah? Se è ridotto in questo modo vuol dire che l’hanno preso a calci nel culo e a noi non serve un incapace. Lo sapevo che mi saresti stato solo d’intralcio a portarti dietro.”
 
“Ma … guardalo bene! Non è vestito come i nemici ed è ferito solo ad una gamba, possiamo aiutarlo.”
 
La sua voce è flebile, timida ma estremamente convinta. Si avvicina di qualche passo, contemplando meglio il corpo martoriato del ramato e le sue vesti lacere, estraendo una borraccia dalla tasca dei calzoni larghi.
La porge al compagno, la determinazione ardente negli occhi decisi.
Questi la afferra contro voglia, biascicando qualche insulto di bassa leva.
 
“Giuro Hanataro … se mi fai pentire di quello che stiamo facendo … prima di pensare a lui ammazzerò te.”
 
Ripone la mitraglia dietro la schiena, scostando una cintura di proiettili dalla spalla muscolosa. Si inginocchia verso il giovane privo di forze, portandogli alla bocca un rivolo d’acqua fresca, raccolta da un torrente poco distante.
Ripete l’operazione numerose volte, tenendo sollevato il capo del soldato con una mano dietro la sua nuca, permettendogli di bere quanto basta per rifocillarsi e riuscire a mormorare almeno qualche sillaba.
 
“Allora? Adesso ce lo vuoi dire come ti chiami?”
 
Lo squadra spazientito, cogliendo una terribile malinconia in quelle grandi perle castane, talmente profonde da scuotergli lo stomaco in una capriola.
Da quanto tempo non vedeva un’emozione così umana nello sguardo di qualcuno?
Forse aveva ragione il giovane Hanataro, quel tizio non è del tutto inutile o, almeno, non merita il trattamento che stava per riservargli pochi minuti prima.
Lo osserva perplesso, cercando di distaccarsi dalla fastidiosa sensazione di quelle iridi caramello puntate su di lui, tristi, spaurite, soggiogate da un fato temibile ed impervio.
 
“Ichigo …”
 
È solo un sussurro, un soffio di vento, ma entrambi i presenti lo colgono forte e chiaro.
 
“Ti chiami Ichigo, bene pivello. Ora, prima che ti trapassi la tempia con uno di questi bei proiettili e prima di farmi pentire d’averti aiutato, mi vuoi dire da che parte stai? Perché sai, anche a me piacerebbe stare qui a chiacchierare ma se non ci muoviamo potremmo fare tutti la tua stessa fine entro qualche ora.”
 
“Sono contro questa oppressione …”
 
Poche parole, ma così semplici da far arrivare il messaggio nitidamente.
Hanataro, i capelli lisci e scuri, salta di gioia in un eccesso d’entusiasmo, battendo le mani con uno schiocco felice:
 
“Hai visto Pantera? È dei nostri! Te l’avevo detto!”
 
Il ragazzone dalle ciocche azzurre e bizzarre annuisce, soppesando scrupolosamente il giovane di nome Kurosaki Ichigo: che sia davvero il caso di fidarsi di lui?
Oh beh, poco importa, conciato così non può di certo tradirli.
E al primo passo falso può stare certo di ricevere una raffica di proiettili fra le natiche che ci rimane in quella foresta per i secoli a venire perché con Grimmjow Jeagerjaques non si scherza, mai.
Grugnisce qualcosa di incomprensibile, caricandosi in spalla lo sventurato senza alcuna delicatezza, sentendo sbattere il suo corpo gelido contro la schiena non senza lamenti provocati dall’estremo dolore fisico.
 
“Stai zitto e buono ragazzo fragola, ora ti portiamo al rifugio e li decideremo cosa fare di te. Nel frattempo tieni chiusa quella bocca o dovrò pensarci io.”
 
Ichigo digrigna i denti dalla rabbia, privo della forza di controbattere.
Ok , lo sta salvando, ma diamine! Non per questo può concedersi di trattarlo come un marmocchio o comunque di minacciarlo e canzonarlo in quel modo!
Senza neppure essersi sprecato a dirgli chi diavolo è lui, che ora lo sta tranquillamente portando come un sacco di patate facendolo sobbalzare e urtare contro i rami più bassi.
Nonostante ciò, nonostante dovrebbe avere paura, si sente improvvisamente tranquillo.
La stanchezza scivola via come l’acqua di quel ruscello che ora riesce a scorgere poco più in là , ricco di massi lisci e levigati dalla corrente di quel liquido cristallino dal suono terso e vivido; scruta il sentiero sotto i suoi occhi vitrei, passo dopo passo sempre più annebbiato finchè la palpebre si serrano ed un abisso nero lo inghiotte in un baratro privo di sogni.
 
 

 
 
Note dell’autrice

Ciao lettori!
Vi chiedo di spendere due minuti per prestare attenzione a queste delucidazioni che vi saranno utili per comprendere la storia e vi ringrazio anticipatamente.

Innanzitutto, di cosa tratta?
Come avete potuto notare è ambientata nella Seconda Guerra Mondiale, in Italia, dove la resistenza popolare prende forma al fine di contrastare il regime fascista e l’infezione nazista. Non intendo esprimere alcun giudizio politico o di ideologia personale attraverso questo testo, sia chiaro, è solamente un periodo che mi appassiona e che mi è stato trasmesso attraverso le storie e i racconti di parenti che hanno vissuto certe esperienze in prima persona.
Siccome la storia non ama me (è una relazione a senso unico) non intendo bearmi di chiamare questo esperimento come ff storica poiché non oserò mettere alcuna data o riferimenti troppo esplicito in quanto temo enormi strafalcioni: perciò restiamo sul vago, l’importante è chiarire il contesto e poi vi regalo il dono della fantasia XD Osare è bene, non osare ed evitare figuracce è meglio.

Altra domanda: perché proprio questo tema? E perché proprio Bleach?
Perché, seguendo la cronaca, credo sia nuovamente attuale e sarebbe davvero bello se ognuno di noi prestasse qualche secondo della sua esistenza a riflettervi, uscendo dal menefreghismo che grava addosso, purtroppo, alla maggior parte di noi confinandoci in un individualismo senza eguali. Ho scelto Bleach e non un altro manga perché (oltre ad amarlo) offre una vasta gamma di personalità e modi di essere davvero perfetti per questa storia.
Non mi dilungo, spero vi sia piaciuta e …
Vi assicuro che troverete tutti, ma davvero tutti e molti di loro usciranno dalle vesti in cui li ho sempre raffigurati (avremo dei veri inediti).
Per quanto riguarda le altre storie, don’t worry! Ho pronto l’extra di Seasons ed a breve aggiornerò More Than Friends (parola d’autrice, che come passatempo dopo le ore sul Codice Civile cosa fa? Si mette a scrivere. Ho tanti problemi, lo so).
 
Grazie a tutti, vi mando un abbraccio (e giuro che nei prossimi capitoli non farò note così lunghe).
 
Valentina :***
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bleach / Vai alla pagina dell'autore: ValentinaRenji