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Autore: afrogueinabottle    07/10/2014    3 recensioni
"Sventurato è l'uomo che per tutta la vita vorrebbe essere immortale, e infine si trova a non poter fare a meno di morire... a non desiderare altro se non una tomba"
Un ciclo di morte interminabile e un guerriero senza nome che desidera solo porvi fine.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si era svegliato ancora.
Quanto avrebbe voluto che non fosse così. E invece si era svegliato di nuovo.
Era tutto un maledetto ciclo dal quale non esisteva alcuna via di fuga.
Sputò a terra, nervoso, e raccolse la lunga lancia dal terreno dove era conficcata. Poi
cercò lo
scudo in mezzo alla moltitudine di cadaveri dai quali era circondato.
La prima volta il puzzo di quei cadaveri l’aveva quasi asfissiato, tanto era forte e penetrante. Anche le mosche e i numerosi animali riuniti a far banchetto intorno alle carcasse non gli davano più fastidio, ed era diventato quasi abituale dover allontanare uccelli o insetti dal suo corpo.
 
La prima volta che si era risvegliato dopo una battaglia aveva pensato che fosse un miracolo. Stupidaggini.
Era l’inizio di un purgatorio senza speranza e senza fine.
 
Di volta in volta aveva preso l’abitudine di provare a riconoscere i volti dei compagni morti in mezzo alle montagne di cadaveri e armamenti.
Le prime volte qualche lacrima solcava il suo volto quando riconosceva chi aveva combattuto insieme a lui, schiena contro schiena, prima di dire addio alla propria vita.
Ora semplicemente riconosceva i loro volti, e pronunciava il loro nome ad alta voce.
Ogni volta che ricominciava, ogni volta che combatteva al fianco di un giovane guerriero o di un veterano pensava solo a tenere a mente il nome di quella persona per riconoscerla quando l’avrebbe ritrovata senza vita.
 
Risveglio dopo risveglio, non poteva più tornare dai compagni superstiti. Avrebbero visto il suo volto dopo il risveglio, e l’avrebbero perseguitato.
 
Ma la vera pena era più semplice e terribile: essere in vita in questo mondo e al contempo non poter morire, ma essere costretto a vagare in un limbo di continue morti senza fine.
Questa era la maledizione lanciata sul mondo dai negromanti, i Parti maligni dei Primi Tombali, coloro i quali per primi nacquero e per primi si legarono alla Morte.
 
Non aveva idea del perché i negromanti un giorno lontano avessero diffuso la maledizione come una sorta di orribile epidemia, ma provava grande rabbia.
Tutto ciò che voleva era porre fine alla sua pena e poter finalmente morire un’ultima, definitiva volta.
 
Combatteva negli eserciti mercenari, dove nessuno si sarebbe chiesto qualcosa di lui finchè non fosse morto.
Appena veniva massacrato, era costretto a fuggire lontano dai vecchi compagni di battaglia e cercare un altro gruppo di soldati.
 
A ogni modo la guerra contro i negromanti era la migliore possibilità per sconfiggere la maledizione che lo affliggeva.
 
Aveva scoperto col tempo che c’era bisogno di uccidere un negromante e abbeverarsi del suo sangue per riacquistare la forma umana, ma ciò non bastava a liberarsi della maledizione.
Qualcosa ancora gli sfuggiva.
Ancora una volta era morto senza scoprire nulla di utile, e questo lo faceva innervosire.
Le nuvole grigie del primo mattino iniziarono a diradarsi, aprendo piccoli spiragli da cui penetrarono i primi raggi del sole.
La luce illuminò la putrida moltitudine di cadaveri ammassata sulla grande piana macchiata di rosso.
I corpi dei negromanti, come loro consuetudine, si erano dissolti nell’etere prima che iniziasse la putrefazione.
Alcuni fasci di luce di tanto in tanto colpivano lo scudo tondo, che ne rifletteva i raggi.
L’enorme punta scintillante della lunga lancia non toccava il terreno ne i corpi senza vita dei valorosi combattenti caduti.
Bevve dalla fiaschetta un sorso del sangue non umano dei negromanti. Così la pelle resa putrida e puzzolente dalle tante morti tornò liscia, chiara e vigorosa, e i peli rispuntarono sugli arti e sul torace. Gli occhi bianchi incorniciarono nuovamente una grigia pupilla sfumata di blu e lunghi capelli corvini ricrebbero.
Le mani, invase di nuovo dalla forza, strinsero più forte l’impugnatura della lancia e il manico dello scudo.
Fremeva il corpo sotto la cotta di maglia e il logoro soprabito da viandante. Il vento faceva ondeggiare la cappa e l’abito che arrivava fino alle ginocchia, grigio come un vecchio lupo.
Allontanandosi sempre di più dal campo di morte, pensò a trovare un nuovo nome da darsi quando si sarebbe unito a un altro gruppo di mercenari.
Dopo tante morti la fantasia iniziava a mancare, e ultimamente usava i nomi dei vecchi compagni come ispirazione per inventare un nome che gli piacesse.
 
L’ultima volta che aveva combattuto si era trovato in prima linea insieme a un giovane mercenario di nome Jean. Diceva di non voler combattere per sempre, e che stava cercando di guadagnare dei soldi per tornare a casa e comprare un pezzo di terra per il suo vecchio padre.
Combatteva bene il ragazzo: i colpi della sua spada erano potenti e precisi. Ma aveva il problema di non passare subito all’offensiva.
E così, mentre combatteva, si era fatti intimidire da una rapida successione di attacchi e, indietreggiando con lo scudo alzato, era inciampato sui suoi stessi piedi ed era finito col ritrovarsi un’ascia in mezzo agli occhi.
Povero il suo vecchio padre, che lo  avrebbe creduto vivo e vegeto ancora per molto.
 
Ma si, Jean era un nome carino. Gli ricordava il suo vecchio nome… o almeno così credeva di ricordare.
 
Non pensò a cercare un cognome o un posto natio, dato che molti fra le fila mercenarie non conoscevano l’uno o l’altro.
Ma in generale, fra i mercenari meno si sapeva dei propri commilitoni, meglio era per una persona cauta.
 
Sistemò le ultime cose prima di partire, innanzitutto nascondendo per bene la bisaccia maledetta nella logora sacca che aveva depredato da un cadavere.
Sistemò il cappuccio sulla testa e nascose il volto dietro un velo nero.
Poi allacciò il cinturone del cappotto nero, e infine sistemò gli alti stivali infangati.
Dopo aver depredato altri cadaveri dei soldi che erano avanzati agli uomini che furono, riprese in mano le armi e si incamminò nelle terre desolate in cerca del villaggio più vicino.
 
C’era stato un tempo in cui sarebbe rabbrividito a causa del forte vento che quel giorno soffiava rabbioso scuotendo l’aria gelida, ma ora nulla lo poteva scalfire. Spostarsi, viaggiare, combattere, sopravvivere prima di sperare di morire definitivamente… erano diventati solo un automatismo.
Forse era questo il primo stadio della perdita della ragione?
 
Aveva visto con i suoi occhi uomini come lui: esseri che, morte dopo morte, avevano perso la volontà e avevano ceduto alla follia ed erano caduti una volta per tutte sotto il potere dei negromanti.
 
“Sventurato è l’uomo” si fece sfuggire in un sospiro “che per tutta la vita vorrebbe essere immortale, e infine si trova a non poter fare a meno di morire”
Era molto incerto su chi, durante una delle sue vite, gli avesse detto queste parole, nonostante rimembrasse che fosse stato molto tempo addietro.
 
Le nubi si erano ormai diradate dal cielo sulla grande piana, e i raggi del sole lambivano ormai tutto il deserto paesaggio.
A ovest, dietro Jean, il macabro campo di morte era ancora visibile grazie alle colonne di gas emanati dai corpi entrati in decomposizione.
A est le colline, ricche di alberi dal tronco robusto, iniziavano a prendere quota e, dietro di loro, le antiche montagne dominavano la fitta distesa boschiva con la loro secolare altezza.
Nelle montagne, scavate nella dura roccia, si trovavano le Prime Dimore: le tre città scavate nella pietra dai primi regni degli uomini.
Scelse di percorrere la strada lungo i boschi delle colline orientali, dirigendosi verso nord.
 
Ricordava che un vecchio, prima di una battaglia, gli disse di odiare marciare verso nord, perché in qualche modo era come camminare in salita.
Non sapeva se costui fosse morto o se fosse ancora in vita. Ma che importava?
Avrebbe potuto anche averlo visto morire davanti ai suoi occhi, non se lo sarebbe ricordato comunque.
 
La perdita di memoria era sicuramente uno stadio della perdita della ragione.
 
I primi tempi in cui aveva pensato a queste cose lo avevano riempito di  tristezza, ora il sentimento che lo pervadeva era la rabbia.
Una profonda rabbia per non essere ancora riuscito a trovare una soluzione.
Una profonda rabbia per essere morto ancora una volta.
Una profonda rabbia per essere vicino alla follia.
 
Rimanere solo con se stesso lo riempiva sempre di questi assordanti pensieri. La sua mente era invasa da sensazioni di smarrimento, di dolore, di ira, di impazienza.
Era come essere incatenato a una sedia, con una costante voglia di alzarsi: si sentiva esplodere dentro. E ogni momento che passava era una lancetta dell’orologio di una bomba pronta ad esplodere.
Ma quando sarebbe esplosa, sarebbe stata la fine: sarebbe arrivata la follia, e la sua mente e la sua volontà sarebbero scomparse.
 
Ragionando su queste macabre aspettative, scorse degli strani movimenti nella foresta. Due sagome erette si muovevano senza una precisa direzione fra i cespugli, zoppicando e incespicando.
Strinse le mani guantate attorno alla lancia da combattimento, già in pugno, ed entrò nella selva invasa dall’oscurità.
Ogni passo che faceva generava un rumore di foglie e di legnetti e frasche che si spezzavano; se fosse stato a caccia sarebbe tornato a mani vuote.
Dei suoni gutturali provenienti da destra catturarono l’attenzione di Jean, e questi si girò di scatto. Si chinò con le gambe pronte ad attaccare con uno scatto in avanti, la lancia pronta a colpire. Il grande scudo tondo era assicurato dietro la schiena.
Dall’ombra emerse allora una figura umana, emettendo suoni gutturali che esprimevano una sorta di dolore… o rabbia.
Camminava con una gamba storta, che costringeva la figura ad un’andatura lenta e incerta; come c’era da aspettarsi, zoppicando inciampò e si appoggiò al tronco di un albero. Sotto la luce di un raggio di sole che aveva attraversato il groviglio di rami, fu rivelata una pelle morta, secca e verdognola. Sangue raggrumato incorniciava fori cutanei e ferite piene di insetti attorno al quale svolazzavano moscerini.
 
Il morto camminante non ebbe il tempo di accorgersi di ciò che stava accadendo intorno a lui, che sessanta centimetri di acciaio della punta di una lancia da combattimento gli squarciarono il ventre putrefatto.
Sangue così secco da apparire semisolido uscì dalla ferita come uno sciame d’api, e macchiò il terreno circostante.
Il verso di dolore della creatura era raccapricciante: un gutturale, strozzato urlo di dolore che sembrava un eco di due voci uscite dall’oltretomba.
 
Veloce come aveva colpito, la lancia uscì dal buco che aveva aperto senza lasciare macchie su di se.
Jean però si mantenne attento: aveva visto due figure, e non aveva intenzione di farsi prendere alle spalle cercando di portare un cadavere fuori della foresta per bruciarlo.
Tese le orecchie, cercando di distinguere il verso di un morto fra i rumori della fauna boschiva.
Non passò molto che udì un forte rumore di foglie e ramoscelli rotti: l’altro essere stava correndo verso di lui!
Spuntò da un albero poco lontano dal luogo dove aveva incontrato la prima creatura, correndo con una spada lunga da combattimento alla mano.
Strinse la lancia tenendola in posizione obliqua davanti a se, osservando il non-morto avanzare furioso mulinando fendenti al vuoto: un colpo avrebbe potuto essere fatale.
Arrivò qualche secondo dopo vibrando un colpo dall’alto, deciso, diretto fra la spalla e il collo.
Un attimo, una veloce rotazione in senso orario della lancia, e l’estremità inferiore dell’arma –anch’essa studiata per colpire- cozzò potentemente contro la lama. La spada volò via, spezzandosi a terra.
Ancora scosso dal colpo, l’essere si accorse appena del secondo colpo dell’avversario: un’altra rotazione, accompagnata dal movimento del corpo, colpì di lato con la punta della lancia nello spazio alla base del collo.
La testa marcia della creatura senza senno volò via.
 
A Jean non restò altro da fare che raccogliere i lerci cadaveri e portarli fuori dal bosco. Dopo ciò allestì una pira e lì bruciò i corpi.
 
Gli rimase però impresso nella mente lo stemma che il secondo non-morto (probabilmente un cavaliere di basso rango) aveva sulla cotta di maglia: un falco rosso con le ali spiegate, che stringeva una rosa e una spada fra gli artigli.
Doveva averlo già visto, in una vita o in un’altra.
   
 
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