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Autore: Melian    08/10/2014    10 recensioni
"Il sangue di Dafne impregnò i suoi vestiti e sgorgò come un rivolo cremisi dalla ferita.
Il sangue sublimò ogni cosa. Con il sangue tutto acquistò senso.
La linfa rossa incontrò la linfa arborea, il profumo della resina d'alloro si mescolò a quello ferruginoso e intenso del sangue umano."
Genere: Azione, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DAFNE

 

 

Dashuria possedeva decisamente del talento. Da umano aveva intrapreso una carriera d'atleta professionista: nessuno aveva una mira come la sua. Riusciva a utilizzare l'arco come se fosse la cosa più facile del mondo, un prolungamento del proprio braccio.
Aveva sempre amato allenarsi all'aria aperta nei pomeriggi d'estate, nei campi d'erba verde e fissare il bersaglio dritto davanti a sé.
I suoi gesti, in quei momenti, avevano la cadenza di un rituale: accarezzava la penna della freccia e poi la incoccava lentamente; sollevava l'arco e prendeva la mira. Appena tendeva la corda, sentiva tutti i muscoli del braccio in tensione, vivi. Scoccava e, assieme al dardo, anche una parte di sé volava e fendeva il bersaglio perfettamente al centro.
Da quando era stato Abbracciato e aveva ricevuto il Sangue Oscuro, Dashuria aveva scoperto un mondo completamente diverso e puro nelle sue fosche tinte cremisi e nere.
La sua passione, quando aveva riaperto gli occhi come Bevitore di Sangue, si era trasformata in una vera ossessione: montava e smontava archi, dai modelli più antichi in legno a quelli più moderni in leghe di metallo leggere come piume. Il suo sangue vampiresco gli rendeva tutto ciò facilissimo, un gioco da bambini.
Passava giorni interi ad allineare la sua vastissima collezione di frecce sul pavimento di una stanza e, alla fine, rimaneva immobile a contemplarle per ore, come perso in un incantesimo; spesso si attardava fino a che l'alba era troppo vicina e rischiava di inondarlo con i suoi raggi attraverso le ampie finestre.
Il suo Creatore aveva provato a spiegarglielo, ma Dashuria non aveva ascoltato con poi tanta attenzione. Gli aveva detto che l'Abbraccio poteva avere risvolti imprevisti, strani, e a certi Vampiri capitava di vivere in uno stato di perenne meraviglia e di estraneazione, come se la trasformazione operasse una strana “magia” sulla loro psiche: la mente del neo Vampiro cercava un modo per abituarsi alla nuova condizione e, per farlo, si fissava su un ricordo particolarmente caro della perduta umanità.
Il talento di Dashuria col tiro con l'arco, così, era persino accresciuto: i suoi sensi preternaturali gli donavano una vista incredibilmente acuta e il Sangue Oscuro gli concedeva una potenza fuori dal comune. Poteva mirare a un bersaglio lontano cento metri nel buio più assoluto e colpirlo senza alcuna fatica. Le sue frecce schizzavano a velocità folle ogni volta che lasciava la corda tesa e lui, da sopra i tetti delle case, abbandonava al fischio del vento la propria risata compiaciuta.
Quando si allenava, si dimenticava persino della bruciante Sete che gli attanagliava le viscere e del ruggito della Bestia annidata nel fondo della sua anima che chiedeva sangue e schiumava feroce.
Se non fosse stato per il suo Creatore, insomma, Dashuria sarebbe divenuto da tempo un mucchietto di cenere fumante o un mero cadavere rinsecchito scivolato nel torpore dei Vampiri e intrappolato nel suo stesso corpo.
Dipendeva da lui, lo sapeva bene. Era troppo giovane e troppo ossessionato dal suo hobby per saper davvero badare a se stesso e sopravvivere nel mondo tenebroso e spietato dei Vampiri.

«Dashuria, adesso basta. Hai contato e ordinato quelle frecce per tre ore di seguito. Devi andare a caccia e, anzi, ci andremo insieme.», Febo si affacciò sulla soglia della stanza di Dashuria e lo osservò: indossava gli stessi vestiti delle due notti precedenti, era sciatto e assorbito da tutto, tranne che dai bisogni primari che gli avrebbero garantito la sopravvivenza.
Aveva solo vent'anni quando era stato scelto da Febo che gli aveva dato il Sangue e sembrava che, da Vampiro, Dashuria esprimesse tutta la ribellione tipica degli adolescenti umani.
Dashuria lo guardò con espressione vacua, come se nemmeno lo vedesse e poi, ciondolando e strascicando i piedi, lo raggiunse, le mani nelle tasche dei jeans sdruciti.

«Mai possibile che debba costringerti a venire a caccia per impedire che tu ti riduca a una belva allo stato brado per i morsi della Sete?», gli chiese aspramente Febo.
Aveva il cipiglio del padre spazientito, mentre gli circondava le spalle con il braccio: voleva portarlo nel salotto arredato con indubbio gusto.
Quella casa era il rifugio perfetto: moderna, sicura, attrezzata per ospitare dei Vampiri ed evitare che chiunque, in pieno giorno, vi piombasse e li sorprendesse riversi nei letti come cadaveri. Sarebbe stato disdicevole ritrovarsi in obitorio allo scoccare del tramonto con un cartellino appeso al pollice e dover spiegare agli inservienti terrorizzati che c'era stato un errore, in fondo.
Febo, comunque, adorava quella casa, l'aveva progettata e fatta costruire secondo i suoi desideri e vi aveva accumulato tutto ciò che, nei secoli della sua esistenza, era riuscito a conquistare, sopratutto oggetti d'arte: pezzi unici, strappati dall'oblio del tempo e fatti rivivere accanto alla tecnologia più all'avanguardia.
«Non senti la Sete aggrovigliarti le viscere?», chiese ancora il Vampiro più anziano, in tono retorico e arrochito.
Dashuria non rispose.
«Devi smetterla con questa tua fissazione, Dashuria. L'ultima volta ho dovuto tirarti dentro casa poco prima dell'alba: saresti rimasto a bruciare sul tetto, come una torcia, se non mi fossi accorto che non eri nella tua stanza, ma a giocare al tiro al bersaglio!», Febo non alzò la voce, ma il suo tono era una staffilata.
Dashuria continuò a restare in silenzio, apparentemente perso in un sogno a occhi aperti. Per tutta risposta, dai ganci appesi al muro, raccolse il suo arco preferito, quello con cui aveva vinto la sua prima gara da umano.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso e Febo si infuriò: «Devi recuperare il senno. Basta con gli archi e le frecce!», gli strappò l'arco dalle mani e con la sua forza sovrumana lo spezzò nemmeno fosse stato un fuscello.
Per Dashuria fu come se fosse stato colpito al cuore. Fremette, per un lungo momento tremò da capo a piedi e un sordo ringhio di frustrazione gli gorgogliò in gola. Fissò il suo Creatore con un odio che travalicava qualsiasi scibile umano e il Sangue Oscuro gli colorò gli occhi, rendendolo simile a una bestia feroce pronta al balzo.
Febo lasciò cadere le due metà dell'arco su un tavolo, avvilito, sconfitto. Allungò la mano e infilò le dita tra i capelli castani del figlio in una carezza che sapeva di tormento. «Dashuria, ti prego... lo faccio solo per te.», una pausa e poi si arrese: «Ora andiamo a caccia. Puoi portare uno dei tuoi archi, quello che preferisci.»

Uscirono nella pungente aria notturna, mentre il cielo di marzo era tinto di uno sfavillante violetto contro cui spiccava lo skyline della città soffusa di luci elettriche.
Lontano, il suono delle voci mortali si innalzava in una marea che saturava i sensi preternaturali dei due Vampiri, il richiamo di una sirena.
Sembrava come essere immersi in un giardino selvaggio, dove gli alberi erano in realtà i lunghi lampioni disposti in fila ad intervalli regolari, e i prati avevano lasciato spazio a tappeti di asfalto; gli occhi degli animali notturni erano fari di auto che passavano ad andatura moderata senza fermarsi.
La vita brulicante della città era l'immensa attrattiva per chi quella vita era destinato a succhiarla, spremerla, divorarla.
Febo era un Vampiro antico, alto oltre un metro e ottanta e dalle spalle larghe, la carnagione chiara come il marmo levigato delle statue di Canova e i capelli biondi e mossi che gli conferivano un'aura quasi luminosa, apollinea, a dispetto degli occhi azzurri che brillavano di ferocia e di una crudeltà congenita che il Sangue Oscuro faceva emergere oltre le apparenze pacate e metodiche di un uomo di classe, affabulatore.
Il suo giovane apprendista, quel figlio che da poco meno di un anno addestrava perché divenisse un abile Bevitore di Sangue avvezzo alla vita tra i mortali tra cui confondersi, era il suo cruccio. L'Abbraccio aveva avuto il potere di sconvolgere la sua mente, forse troppo fragile – molto più del previsto –.
Dashuria allora finiva per aggrapparsi ai dettagli di una vita umana che ormai sarebbe scivolata via sempre più fino a divenire un ricordo sfocato, questo Febo poteva comprenderlo. Eppure era certo che si sarebbe ripreso e sarebbe tornato lo splendido ragazzo energico che aveva scelto come erede: occorreva solo del tempo.
Si immersero nelle strade gremite di una città che non dormiva mai, tra i turisti e gli immigrati, i ragazzi che facevano le ore piccole in fila davanti ai night club, i taxi fermi sui cigli delle strade e le coppiette che uscivano dai cinema o dai ristoranti, i barboni accucciati nei vicoli su letti di cartone e stracci, una sirena che ululava in lontananza e l'abbaiare di qualche cane. Anche di notte la città parlava, si muoveva, respirava.
Fendere la folla e assaporare il tepore e la morbidezza delle membra umane contro il proprio corpo solido come il granito era un piacere sempre nuovo; tuffarsi in quel marasma di profumi sanguigni era una tortura per i sensi a cui esporsi con gratitudine.
Individuare la vittima, sceglierla accuratamente e poi seguirla, attirarla in un luogo riparato, tra le ombre che si aprivano come ventagli pronti ad inghiottire ogni segreto; e poi mordere, abbandonarsi all'estasi: la caccia era una danza sul filo di un sottilissimo baratro che separava, con la sua bocca vorace, la vita e la morte. Per Febo era arte. E voleva trasmettere quell'arte anche al suo apprendista.
Alla fermata dell'autobus, tra le volute dei gas di scarico che si condensavano nell'aria fredda e alla fioca luce di un lampione, la videro: nemmeno troppo alta, persino rotondetta, una ragazza dai capelli bruni e mossi raccolti in un lasso chignon si stringeva il bavero dell'impermeabile attorno al collo e si sistemava una voluminosa borsa da lavoro a tracolla, mentre scendeva dal bus e le porte a soffietto si richiudevano alle sue spalle. Dal finestrino le sue amiche la salutarono entusiaste: «A domani, Dafne. Non scordarti il nostro l'appuntamento!»
La donna non dimostrava più di venticinque anni e Febo la osservò incamminarsi incurante del traffico e delle luci abbaglianti: attraversò sulle strisce pedonali e raggiunse la strada che costeggiava il letto del fiume che tagliava in due la città.
«È bella.», mormorò il Vampiro con l'accenno di un desiderio insano, morboso. «Dafne.»
Dashuria, però, non sembrava dell'umore. Era muto e preda di un profondo risentimento che lo spingeva a guardare al suo Creatore con odio. A lui non importava di quella preda, lui non voleva essere nemmeno lì, non sentiva il bisogno di scegliere il pasto seguendo un certo rituale, per lui la Sete era solo una distrazione, un bisogno da assolvere quanto più velocemente possibile per tornare alla sua vera passione. Febo, però, non voleva permetterglielo. Perché non capiva che il tiro con l'arco era tutto ciò che lo rendeva felice, se la felicità per un Vampiro fosse ancora possibile provarla?
Il sangue, per Dashuria, non aveva la stessa poesia che Febo decantava, ma era solo un mero mezzo per sopravvivere.
Se avesse dovuto rinunciare al tiro con l'arco, non avrebbe più avuto motivo di continuare quell'esistenza notturna che non aveva mai desiderato davvero. Avrebbe preferito immolarsi al sole in una ruggente fiammata con cui ascendere nel cielo rosato dell'alba.
Febo però lo condusse con sé, a passeggiare sulle orme di Dafne.
Il fiume faceva sentire la sua voce con insistenza, quasi volesse opporsi a quella più chiassosa e confusa della città. Le sue acque scure e profonde correvano senza sosta e il vento ne increspava la superficie.
C'era un ponte di pietra, ornato di statue raffiguranti divinità della mitologia classica, che portava direttamente ai cancelli del parco, il polmone verde della città.
Appena la ragazza imboccò il ponte, i due Vampiri la seguirono a debita distanza.
Febo ne era molto attratto, sentiva che c'era qualcosa di particolare in quella donna e avrebbe voluto averla per sé. Forse, pensava, sarebbe servita anche a risvegliare gli istinti del suo pupillo.

«Sarebbe un peccato sciuparla, non credi? Non la uccideremo, prenderemo solo il minimo indispensabile.», si raccomandò.
Dashuria continuò a camminare, irrigidito, l'arco nella custodia a tracolla. Ogni volta che Febo parlava, provava un istintivo moto di ribellione e rabbia.
Per giunta il suo Creatore si faceva così tanti scrupoli per una donna mortale intravista per caso in strada. Non voleva sciupare lei, ma aveva spezzato il suo arco migliore. Come poteva esserci una simile ingiustizia?
Il giovane Vampiro si fermò di colpo e si voltò verso Febo con gli occhi che scintillavano di malizia.
«Padre, forse non è il sangue umano ciò di cui ho bisogno.», gli sussurrò, con voce di colpo arrochita. Si allungò contro il corpo statuario del suo Creatore e lo spinse dolcemente contro il parapetto del ponte. «Dammi il Sangue, il tuo Sangue.»
Febo lo lasciò fare come un genitore indulgente e lo osservò con cura, come se cercasse di discernerne la matassa dei pensieri che vedeva agitarsi nel fondo dei suoi occhi. Gettò uno sguardo pensieroso alla ragazza che continuava, incurante, la sua passeggiata. Infine, sorrise e strinse suo figlio a sé, chinandosi quanto bastava ad offrirgli il collo: «Avresti dovuto dirmelo subito, Dashuria. Bevi.»
Dashuria socchiuse gli occhi e si umettò le labbra: una belva con l'acquolina in bocca. Premette il naso contro la pelle di Febo, perfetta e liscia, sotto cui spiccava l'arteria bluastra in cui scorreva il Sangue Tenebroso. Indugiò pochi secondi e poi, con una crudeltà sorda e viscerale, Dashuria snudò le zanne e le affondò nella gola che gli veniva offerta.
Il Sangue Tenebroso sprizzò come da una macabra fonte eterna e gli riempì la bocca del suo sapore paradisiaco, di tutta la sua potenza.
Dashuria bevve e bevve e spalancò gli occhi, fissando il volto di Febo contratto in una smorfia di piacere ferino, il piacere vibrante e squassante che – in quel gesto – ricordava dell'atto stesso della creazione dei Vampiri: donare sangue e ricevere sangue, in un cerchio che si chiude.
Il giovane Vampiro continuò a bere con una foga spropositata anche quando l'altro tentò di scostarlo gentilmente.

«Dashuria, basta.», ingiunse Febo in tono severo, mentre di colpo sentiva la sua forza venire meno e il suo Sangue sempre più scarso, il suo corpo sempre più affamato. Poggiò le mani sulle spalle del giovane Vampiro e, con più decisione, facendo appello alle sue energie, lo staccò da sé.
Il suo pupillo lo fissava avido e incattivito, con un sorriso sardonico sporco di sangue.
Febo premette le dita contro la gola dilaniata, mentre immediatamente la sua ferita si rimarginava a vista d'occhio, ed emise un ansito di frustrazione. Si sentì preso in giro e tradito: Dashuria lo aveva quasi prosciugato di proposito e ora la sua Sete cresceva, la Bestia che si annidava nella sua anima aveva spezzato le catene e ruggiva il suo bisogno di nutrirsi.

«Dashuria, perché... ?», Febo aveva la voce rotta, non riuscì a terminare la frase e barcollò in avanti di un paio di passi quasi fosse un ubriaco. Fiutò l'aria e rintracciò la scia di sangue della sua preda mai dimenticata.
La ragazza che stavano seguendo, ormai, aveva attraversato il ponte e stava per infilarsi nel parco.
Febo la desiderò come si può volere l'acqua nel deserto. Il suo istinto decise per lui: bastò uno scatto e si gettò all'inseguimento. Corse, una corsa folle, mentre il fiume continuava incurante a scorrere sotto il ponte che calpestava con quei passi leggeri, come Apollo che correva all'inseguimento della sua Ninfa tra i boschi di Grecia, pazzo d'amore.
Anche Febo era pazzo, ma di Sete di Sangue.


Dafne, ignara, si inoltrò tra i sentieri lastricati che si snodavano in mezzo agli alberi sempreverdi e formavano archi sul suo capo con i loro rami protesi.
Si voltò e lo vide: un uomo pallido come la luna e dai capelli biondi, gli occhi color cremisi da belva famelica e la falcata veloce, troppo veloce per un mero essere umano, la rincorreva e l'aveva quasi raggiunta.
Braccata, fuggì senza pensarci, ubbidendo all'istinto atavico di tutte le creature che lottano per la propria sopravvivenza.
Perse la borsa per strada e rischiò di cadere, ma continuò a correre con tutto il fiato che aveva; avrebbe voluto urlare per cercare aiuto, però non ci riusciva.
Il suo istinto le diceva solo di scappare e di guardarsi le spalle per assicurarsi di essere riuscita a seminare l'inseguitore. Aveva il cuore che le batteva furioso, il respiro ansante e sentiva – lo sapeva! – che sarebbe crollata da un momento all'altro, che i piedi si sarebbero rifiutati di macinare un solo altro passo e i suoi polmoni di incamerare aria con violenza fin quasi a sentirseli bruciare.
Chi era l'uomo che la inseguiva? Perché la rincorreva? La testa le girava per il panico e le mille domande, le tempie le pulsavano ossessivamente, gli occhi frugavano freneticamente il buio...
Di colpo, Dafne si sentì afferrare e strillò e scalciò.
La sua voce si mescolò al rumore dell'acqua del fiume in lontananza e allo scricchiolio sinistro delle foglie e dei sassolini sotto suoi piedi mentre lottava per divincolarsi. Il suo urlo si spense in una sommessa preghiera e in pianto terrorizzato.
L'uomo che l'aveva catturata non aveva nulla di umano, la sua stretta era troppo poderosa e il suo aspetto troppo terrificante: era un mostro, una bestia che voleva divorarla!
Fece un ultimo tentativo e, inaspettatamente, sentì la presa dell'aggressore cedere: Dafne ne approfittò per divincolarsi e riprendere la sua corsa.
Febo rimase qualche istante immobile, come se la sua adorata preda – prima stretta tra le sue braccia come un'amante – fosse stata solo un miraggio. Tuttavia, aveva appena colto, al limite del suo campo visivo, il rapido movimento di una figura agilissima e veloce che lo aveva allarmato.
Dashuria balzò fuori tra gli alberi un secondo dopo e tagliò la strada alla ragazza che si fermò di colpo, pietrificata. Il Vampiro teneva il proprio arco sollevato, la corda tesa e la freccia incoccata. Fissò la ragazza e poi Febo e rise mentre scoccava e la freccia volava e centrava il bersaglio con una precisione sovrumana.
Dafne venne colpita al petto, poco sotto lo sterno, e la potenza di quel tiro la inchiodò contro l'albero alle sue spalle, un alloro. La punta metallica e affilata si infilzò nella corteccia dopo aver trapassato carne e ossa umane, e la ragazza rimase incastrata contro il tronco e, per un attimo, sembrò divenire tutt'uno con esso: i suoi piedi furono come radici; il suo corpo un sinuoso tronco; le sue braccia apparvero come rami e i suoi capelli castani furono simili a foglie.
Il sangue di Dafne impregnò i suoi vestiti e sgorgò come un rivolo cremisi dalla ferita.
Il sangue sublimò ogni cosa. Con il sangue tutto acquistò senso.
La linfa rossa incontrò la linfa arborea, il profumo della resina d'alloro si mescolò a quello ferruginoso e intenso del sangue umano.
Febo rimase immobile: come in un sogno, come l'antico Apollo al cospetto della sua Ninfa tanto amata e improvvisamente perduta, si chinò sulla ragazza e le cinse il capo con le braccia, cullandola. Leccò tutto ciò che il corpo di Dafne gli donava, si abbeverò del suo sangue. Lui, però, l'aveva ardentemente desiderata viva e palpitante: non voleva recidere la sua esistenza, eppure la stava rapidamente perdendo.
Febo la sentì esalare il suo ultimo respiro e si disperò, inginocchiato davanti a lei, morta.
Dashuria allora sorrise, il sorriso di un demonio sul volto di un cherubino: «Adesso lo sai anche tu, padre: sono un vero asso con l'arco.»

 

 

 

 

 

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Note dell'autrice

Questa storia è stata scritta per il contest: “Dal passato al presente” indetto da Shinkari sul forum di EFP ed è ispirata al mito di Dafne.
Partecipa anche al ~Contest of Passions~ di ellacowgirl in Madame_Butterfly.

Nel mito, dopo una contesa con Apollo sull'uso dell'arco (Apollo lo prendeva in giro perché, diceva, l'arco non era un'arma adatta a lui), Eros fa innamorare con le sue frecce il dio del Sole della Ninfa Dafne che, invece, gli sfugge terrorizzata e prega il padre, il fiume Peneo, di trasformarla in un albero. Così Dafne divenne un albero di alloro e Apollo, disperato, proclamò che Dafne potesse essere sua almeno in quelle forme, consacrando a se stesso l'alloro.

 

Dashuria, in albanese, significa “amore” e l'ho scelto come nome proprio per richiamare la figura di Eros. Mi suonava bene.
Febo, invece, è un nome che rimanda chiaramente ad Apollo, uno degli epiteti con cui veniva indicato.
Dafne, qui nella storia, ha lo stesso nome delle Ninfa del mito.

La dinamica della storia rimarca la trama del mito, ma con motivazioni diverse e con un leit motiv che riguarda molto più da vicino il mondo dei Vampiri che non il mito classico da cui il racconto prende le mosse, nonché con protagonisti dalla caratterizzazione, si spera, peculiare.
Ho voluto mantenere la presenza del fiume, ma la “trasformazione” in albero di Dafne si avvicina, forse, più ad una sfumatura vagamente orrorifica (anche se molto soft), che ad un evento reale come nel mito.

Non so come mai, ma quando ho scelto il mito di Dafne per il contest ho subito pensato a una storia con dei Vampiri! XD



Melian

   
 
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