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Autore: ElenCelebrindal    08/10/2014    2 recensioni
La storia è il seguito di "Memorie". Dal testo:
"Lentamente, il volto di Ecthelion si sovrappose a quello di Erestor, e Glorfindel seppe cosa rispondere: “Sì… sì… sì!”, esclamò, prima di stringere le mani sulle spalle dell’elfo e di attirarlo a sé, per unire le loro labbra in un lungo bacio.
Era perfettamente consapevole che accettare una cosa simile era un atto di egoismo, che non avrebbe dovuto mai dire quella parola, ma se poteva riavere il suo compagno, anche solo per pochi istanti, in quel modo, avrebbe accettato qualunque punizione gli sarebbe stata inflitta."
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Erestor, Glorfindel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è il seguito di “Memorie”, di cui vi do il link in caso non l’abbiate letta http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2832868&i=1 . Può essere compresa anche da sola, ma onestamente vi consiglio di leggere il prequel perché ci sono alcuni riferimenti. I personaggi non sono miei, ma appartengono alla geniale mente del professore Jonh Ronald Reuel Tolkien. Buona lettura.
 
IL DONO
 

Il vento spirava da ovest, fresco e delicato sulla pelle, e accarezzava il volto dell’elfo che, in piedi davanti alla finestra spalancata, osservava il quieto passaggio dal giorno alla notte, il cielo che si scuriva, trasformandosi da azzurro a blu, le stelle che, timide, cominciavano a fare la loro comparsa sulla volta celeste.
Sospirò, cercando di svuotare la mente da ogni pensiero, di non vedere altro che ciò che aveva dinanzi, e serrò le mani sul davanzale, sentendo una fitta di dolore, intensa e improvvisa, attraversargli il cuore.
Un paio di lacrime scesero dai suoi occhi, e caddero sul legno chiaro che l’elfo stringeva, talmente forte che le nocche erano sbiancate.
Chinò la testa, scuotendola più volte per non farsi catturare dal passato, e fece dei lunghi sospiri, per calmarsi.
Quando il dolore svanì, rapido com’era arrivato, tornò a sollevare lo sguardo e a rivolgerlo all'’esterno, osservando ogni stella che splendeva argentea, osservando la bianca luna che tutti osservava dall’alto.
Un paio di lievi colpi alla porta lo fecero trasalire, ma fu la voce che sentì al di là di essa che fece tornare di nuovo quella terribile oppressione che l’assaliva, che rinchiudeva il suo cuore in una morsa di angoscia e dolore.
 
 
“Glorfindel? Posso entrare?”, domandò a voce bassa.
Quando non sentì risposta dall’esterno, aprì le dita serrate a pugno e posò il palmo della mano al legno istoriato che lo divideva da quella stanza: “Glorfindel? Ti prego, apri la porta”.
Ancora niente.
Riprovò a bussare: “Glorfindel? Lo so che sei lì dentro, apri per favore!”, disse di nuovo, stavolta a voce più alta, ma sempre controllata.
Silenzio.
Sospirò, dando le spalle alla porta e appoggiandovi la schiena: “Ma che cosa ti ho mai fatto?”, sussurrò, prima di andare via, senza voltarsi indietro.
 
 
Esisti, avrebbe voluto rispondergli.
L’unico torto che Erestor gli avesse mai fatto era semplicemente esistere.
Era avere gli stessi suoi lineamenti, gli stessi suoi capelli neri, gli stessi suoi occhi grigi.
La sua stessa voce.
O forse non aveva nessuna di quelle cose, forse era solo la sua mente che si ostinava a voler sovrapporre il suo aspetto a quello del consigliere.
Si allontanò di scatto dalla finestra, senza chiuderla, e si abbandonò sopra il morbido materasso, distendendosi sulle lenzuola senza togliersi gli abiti.
“Perché mi fate questo?”, sussurrò, a voce talmente bassa che le parole sembrarono solo deboli soffi, prima di chiudere gli occhi, scivolando nel mondo in cui i soli sovrani erano i sogni.
 
 
Si riempì di nuovo il calice, fino all'’orlo, prima di portarlo alle labbra.
Seduto al tavolo che di solito occupava durante i pasti assieme a Elrond e agli altri consiglieri, rifletteva, pensava e ripensava al motivo per cui Glorfindel si ostinava ad evitarlo, cercando di trovarne la ragione, se mai ne esisteva una.
Il vino scorse fresco e ristoratore lungo la sua gola, e in poco il calice fu vuoto, ma stavolta non lo riempì.
Lo lasciò lì, sul tavolo, e si alzò, dirigendosi alle proprie stanze.
Una volta all’interno, si lasciò cadere sul letto, prendendosi il giusto tempo per svestirsi e infilarsi sotto le morbide coperte, prima di addormentarsi, con il pensiero di Glorfindel che gli pesava nella mente.
 
 
Quando il giorno arrivò, si svegliò con gli occhi arrossati e le guance bagnate da numerose lacrime; di nuovo quel sogno, quel terribile incubo che lo affliggeva quasi ogni notte, fino a instillargli quasi il timore di chiudere gli occhi.
Si alzò in fretta e si gettò po’ d’acqua ghiacciata sul viso, per cercare di cancellare quelle terribili immagini, per cercare di cancellare l’espressione di terribile disperazione che aveva visto sul volto di Ecthelion, prima di osservarlo, impotente, sprofondare giù, nelle profonde acque della Fontana.
Ma quelle non se ne andarono.
Restarono lì, impresse nei suoi occhi chiusi, immobilizzate in tutto ciò che vedeva quando li apriva.
Quasi senza accorgersene, cominciò a piangere, dapprima silenziosamente, poi cominciando a singhiozzare, fino ad accasciarsi sul pavimento liscio della stanza, abbandonandosi ad un pianto disperato.
E non smise nemmeno quando sentì, ancora, dei colpi alla porta, e la sua voce che lo chiamava.
 
 
“Glorfindel? Fammi entrare, Glorfindel!”.
Ancora una volta, era fermo davanti alla porta delle sue stanze, ma quella volta non era intenzionato a farsi cacciare, non dal silenzio che lo accoglieva ogni volta che andava a bussare.
E fu allora, che sentì qualcosa che non avrebbe mai pensato di poter udire da quella stanza: perché Glorfindel, chiaro come il sole che splendeva alto nel cielo, stava piangendo, e mai l’elfo bruno avrebbe avuto il coraggio di credere che il valoroso Vanya avrebbe pianto.
 
 
“Vai via!”, gli urlò contro, con tutta la forza di cui era capace, con tutta la disperazione che poté infondere nella voce, e si strinse le braccia attorno al corpo, incapace di muoversi, incapace di resistere alla morsa dolorosa che stava di nuovo soffocando il suo cuore, quasi tentando di farlo smettere di battere.
 
 
Gli vennero le lacrime agli occhi: lacrime di dolore, certo, ma anche di rabbia.
Rabbia, perché non capiva cosa aveva mai fatto di male a quel’elfo, per essere odiato così tanto.
E la rabbia prese il sopravvento: incurante delle buone maniere e sapendo che la porta non era chiusa a chiave, abbassò la maniglia e la spalancò di colpo, sbattendosela poi alle spalle dopo averla oltrepassata.
Vide Glorfindel a terra, scosso dai singhiozzi di un pianto disperato, ma non demorse: “Ma che cosa ti ho mai fatto? Che cosa posso aver mai fatto per essere così odiato da te? Cosa?”.
Glielo gridò contro, sfogando finalmente tutti i dubbi  e la rabbia che lo avevano assalito ogni volta, ogni singola volta che il biondo gli voltava le spalle, si rifiutava di parlargli o anche solo di guardarlo negli occhi.
 
 
La collera montò, e si unì alla tristezza; scattò in piedi, incurante di avere gli occhi ancor più rossi di quando si era destato, di avere il volto rigato dalle lacrime, e si avvicinò a grandi passi a Erestor, dandogli una spinta sul petto con entrambe le mani, abbastanza forte da farlo arretrare: “Esisti! Ecco cosa mi hai fatto! È la tua stessa esistenza che io vorrei odiare! Tu sei… sei…”
Crollò a sedere sul letto, con la testa tra le mani: “Tu sei come lui”, concluse, riprendendo a piangere ancor più forte di prima, fino a farsi mancare il respiro.
“Tu sei come lui… ma lui non tornerà più. Mai più! Smettila di ricordarmelo, smettila di parlare come lui! Smettila di… smettila di essere te!”, gridò ancora, al colmo della disperazione, cominciando a tremare.
 
 
Lo stupore lo immobilizzò sul posto, lo stupore di aver sentito quelle parole, e di aver compreso il motivo della sua ostilità.
Non poteva vederlo piangere, non Glorfindel, perciò si avvicinò cautamente, ma senza toccarlo: “Non posso… come posso smettere di essere me?”, domandò a bassa voce, sedendosi accanto all'’elfo biondo: “Come posso smettere di ricordarti qualcuno? Come posso comprendere se non so chi è, quel qualcuno?”.
Sperò di non innescare un’altra reazione incollerita con quelle domande, ma aveva bisogno di sapere.
Chi era stato così importante per Glorfindel al punto da farlo soffrire in quel modo?
 
 
Nascose il volto tra le mani, e parlò contro di esse, cercando di soffocare i singhiozzi: “Non so come potrai fare… non so nulla di tutto questo. L’unica cosa che so è che ogni volta che ti vedo, o ti sento… ogni singola volta, il mio cuore comincia a battere come non dovrebbe, ed ogni volta che realizzo che tu non sei realmente la persona che vorrei accanto, lo sento quasi fermarsi. Ogni volta che capisco che è il volto di Erestor di Imladris che sto guardando, e non quello di Ecthelion della Fonte, il dolore arriva, rovente come una lama di ferro incandescente piantata tra le costole. Ogni volta… ogni volta desidero che sia lui, e non tu… lo rivoglio al mio fianco, rivoglio i suoi sorrisi, le sue parole, il calore della sua pelle… rivoglio i suoi baci e le sue carezze. Rivoglio lui”, disse, senza neanche sapere il motivo per cui lo stava rivelando.
Aveva giurato a se stesso di tenerlo nascosto fino alla fine, ma non ce l’aveva fatta.
Ed ora, con il volto premuto contro i  palmi delle mani e le lacrime che rifiutavano di fermare la loro incessante corsa, aspettava.
 
 
Ecthelion…
Sospirò, quando finalmente tutti i misteri gli furono svelati, e scosse la testa.
A Glorfindel mancava il suo compagno, e il bruno era talmente simile a lui che glielo ricordava sempre.
Una spiegazione così semplice, ma che non aveva mai capito.
Non aveva mai provato il dolore della separazione, oppure della morte; in tutta la sua lunga vita, mai aveva avuto una compagna o un compagno, e non aveva mai preso parte ad una battaglia, perciò tutto quello gli era quasi sconosciuto.
Voleva aiutarlo, ma aveva timore a farlo.
Perché, forse, sapeva come fare, ma temeva di chiederglielo.
Alla fine, furono le sue lacrime a convincerlo; allungò le mani e, con titubanza, chiuse le dita su quelle di Glorfindel, per fargliele scostare dal volto, delicatamente: “Non nascondere il tuo viso, non celare le tue emozioni”, disse.
Lo guardò negli occhi, occhi profondi, azzurri e senza tempo, e trovò il coraggio: “Desideri avere di nuovo Ecthelion… desideri accanto il tuo compagno, colui a cui donasti il cuore tempo fa. Ecco, io… io non posso ridarti lui. Ma posso restituirti il resto. Posso restituirti i suoi sorrisi, posso restituirti le sue carezze. E… d –  esitò, prima di concludere – posso restituirti i suoi baci”.
Deglutì a vuoto, abbassando lo sguardo: “Posso fingere di non essere più Erestor, posso lasciarmi alle spalle la mia vera identità. Io… voglio aiutarti. E questo sarebbe il mio dono a te”, aggiunse, senza osare alzare gli occhi.
Si aspettava un nuovo scoppio di collera, oppure l’ingiunzione di andar via.
Ma non arrivò.
 
 
Lentamente, il volto di Ecthelion si sovrappose a quello di Erestor, e Glorfindel seppe cosa rispondere: “Sì… sì… sì!”, esclamò, prima di stringere le mani sulle spalle dell’elfo e di attirarlo a sé, per unire le loro labbra in un lungo bacio.
Era perfettamente consapevole che accettare una cosa simile era un atto di egoismo, che non avrebbe dovuto mai dire quella parola, ma se poteva riavere il suo compagno, anche solo per pochi istanti, in quel modo, avrebbe accettato qualunque punizione gli sarebbe stata inflitta.
E all'’improvviso, non era più Erestor quello che ora stava stringendo tra le braccia, ma era il suo compagno.
Non era il consigliere di Imladris quello che stava baciando, togliendoli gli abiti, ma era Ecthelion.
Non era il nome del giovane elfo che le sue labbra sussurrarono, quando la fiamma del piacere li raggiunse, ma quello del più vecchio.
Ma fu il nome del vero elfo che aveva dinanzi che pronunciò, quando si rese conto di ciò che avevano compiuto, quando si rese conto di essersi risvegliato al fianco di qualcun altro: “Grazie… Erestor”.
 
 
Forse era stato avventato, forse tutto quello che era accaduto non sarebbe dovuto mai accadere.
Forse anche il solo presentarsi alla sua porta era stato un errore.
Ma una cosa era certa: ora sapeva cosa significava amare.
 
 
Piccolo Angolino Autrice
Sarò breve. Volevo scrivere questo seguito perché avevo davvero voglia di approfondire il dialogo tra Erestor e Glorfindel, punto. Non so come è uscito, non so nemmeno se ne è valsa la pena leggerlo. So solo che dovevo scriverlo.

Grazie per aver letto.

ElenCelebrindal
   
 
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