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Autore: TheElementalist    10/10/2014    0 recensioni
Raffaele è un ragazzo di diciotto anni, alla ricerca di se stesso. E' diverso dai suoi famigliari e da chiunque conosca e non ne ha mai saputo la causa.
La sua vita cambierà dopo l'ennesimo trasferimento, in un paese sperduto della Toscana, dove lo attenderanno le risposte ambite e un nuovo mondo da scoprire, in modo da evitare la più grande catastrofe che la Terra abbia mai visto.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo tanto tempo passato a rimuginare sul fatto di pubblicare o meno questa storia, sono arrivata alla fatidica decisione di provare a dare ad un pubblico più; ampio la mia opera in fase di scrittura (tutto ciò dopo vari commenti positivi sul lavoro generale appena svolto, sennò non l'avrei mai fatto!). L'unico avvertimento che posso dare è che questa storia non è stata pensata come fiction, ma come romanzo, quindi voglio scusarmi in anticipo se i primi capitoli saranno troppo lunghi/noiosi, ma non posso evitarlo. Intaccare la storia a questo punto mi sembrerebbe un sacrilegio di non poco conto.
Spero che una volta tanto caschi qualche critica spietata e costruttiva, in modo da aiutarmi a migliorare.
Grazie per l'attenzione e buona lettura.
-TheElementalist


Stavamo per partire, un’altra volta. Ero stufo di dover fare i bagagli dopo pochi mesi che eravamo in una città. La prossima fermata era un paesino toscano di cui non mi ricordavo nemmeno il nome. Era stancante, spostarsi ogni poco. Davvero tanto. Solo chi lo ha vissuto può capire esattamente quello che voglio dire. E di queste, solo chi è come me è in grado di condividere la mia irritazione per queste partenze. Se c’era ancora qualcuno come me non lo sapevo, ma speravo di sì. Cosa sono io? Qualcosa in grado di controllare gli elementi. Lo fareste anche voi: quando sei diverso dagli altri è sempre meglio essere nell’ombra. Se venissi allo scoperto, gli scienziati mi assalterebbero e mi utilizzerebbero da cavia per i loro studi sull’umanità e sull’evoluzione.
Non so perché ho questi poteri, e non lo voglio sapere, fatto sta che io sono umano come tutti gli altri, con desideri ed emozioni, ambizioni, sentimenti.
Ho anche una famiglia. Mia madre si chiama Rachele; mio padre Dario; ho un fratello minore, adorabile per quel che mi riguarda, di nome Flavio, e una sorella maggiore, Martina.
Naturalmente, il viaggio rigorosamente in macchina. Erano quattro ore da Roma al paesino dove dovevamo andare.
Martina si lamentò del fatto che non poteva portare tutti i suoi vestiti. Quattro valigie non le bastavano? E una intera fungeva da beauty case. Roba da brividi!
Indovinate a chi toccò portare quella valigia? Se avete pensato a me, avete azzeccato in pieno. Ed era molto, molto pesante. Ma dentro c’erano smalti o mattoni?!    
Di mia spontanea volontà, portai la valigia di Flavio. Almeno quella non pesava tre quintali e mezzo. I miei genitori se la portarono da soli, fortunatamente. Poi presi la mia. Non fate piaceri a quello strano, tanto può fare tutto da solo!
Dopo aver fatto l’inventario due volte, partimmo. Ebbi un attimo di indecisione, prima di salire. Stavo lasciando tutto un’altra volta e mi faceva stare male. L’unica cosa intelligente che mi era venuta in mente di fare fu quella di non avere amici, ma soprattutto amiche. Non era il momento giusto per innamorarsi.
Mi misi a sedere accanto a Flavio e presi l’iPod. Non avevo voglia di sentire il solito discorso delle scuse. Magari ero io che dovevo chiedere scusa: avevo ascoltato una conversazione dei miei genitori. Il motivo dei trasferimenti era che avevano paura che qualcuno potesse sospettare della mia natura.
Dopo poco mi addormentai e sognai volti che non conoscevo e posti ignoti.
Mi svegliò mio fratello saltandomi addosso e sfondandomi la bocca dello stomaco.
-Raffi, Raffi! Ci siamo! Siamo arrivati!-. Perché io non ero eccitato come lui? Ah, giusto! Le valigie di Martina spettavano a me.
-Ti do una mano?-, si offrì mio padre.
Annuii prendendo una delle sue valigie a caso. Naturalmente era quella con i cosmetici, accidenti!
-Almeno apri la porta-, la rimproverò mamma. Sorrisi.
La casa era molto grande, con l’unica pecca della cucina minuscola. Era una casa che usavamo quando io ero piccolo per le vacanze estive. L’ultima volta che l’avevo vista era quindici anni prima. Ossia quando ne avevo tre.
C’erano solo due stanze e io avrei dormito con Flavio. E chi voleva avere qualcosa a che fare con Martina?! E poi mi sarei divertito con il mio fratellino.
Sfacemmo i bagagli e gli scatoloni. Se non altro, avrei potuto avere un futuro nel reparto dei traslochi, da tanto che ero diventato bravo.
-Pizza?-, chiese mia madre, dato che era già ora di pranzo.
Io e Flavio esultammo subito. Mangiare pizza a casa nostra era raro quanto una fiction decente. Mia sorella si limitò a mugugnare una risposta a bassa voce.
-Mi raccomando, non sforzarti di essere felice-, la presi in giro.
-Chiudi il becco!-. Perché mi divertivo quando si arrabbiava?
Le feci una linguaccia, irritandola ancora di più.
Grugnì stufa.
-Smettetela voi due-, sospirò mamma.
-Tanto vinco io-, mormorai impertinente.
Si impettì e andò nella sua stanza. Ero fiero di me stesso, anche se non avrei dovuto.
Mentre aspettavo il pranzo mi misi a leggere qualcosa sul divano del salotto. Era comodo, ma preferivo di gran lunga il salotto della vecchia casa.
Quando mamma ci chiamò per mangiare, scattai in piedi e quasi corsi in cucina. Quelle pizze avevano un odore così invitante che mi facevano venire l’acquolina in bocca. Addentai un trancio della mia pizza ancor prima di sedermi, scottandomi la lingua. Quando gemetti di dolore si misero tutti a ridere, tranne mia sorella, che però aveva un sorriso compiaciuto.
Appena ci alzammo da tavola ritornammo a lavoro. Dovevamo sistemare poche cose, quindi i miei genitori sarebbero andati a fare compere.
Appena finimmo io uscii per dare un’occhiata alla corte. Eravamo gli unici ragazzi della zona, gli altri erano tutte persone anziane o di mezz’età.
Vidi un bosco in lontananza e decisi di andare da quella parte. Mi piaceva esplorare i posto nuovi perché dopo mi veniva uno strano senso di sicurezza.
Ero circa al centro di quel luogo incantato, quando vidi un piccolo laghetto, alimentato sa un fiumiciattolo che vedevo scorrere dall’altra parte. Il sole che si rifletteva sulla superficie dell’acqua rendeva tutto meravigliosamente colorato.
Mi sbottonai la camicia e mi sdraiai accanto al bordo del lago per godermi il sole. Poi cominciai a giocare con l’acqua creandoci delle forme. Mi misi con la pancia sull’erba fresca e mi concentrai per formare qualcosa di più complesso. La lavoravo delicatamente, con la mente rivolta a pensieri armoniosi e belli. Prima mi venne un gatto, ma non era quello che cercavo. Riprovai, concentrandomi di più. Mi veniva in mente solo una cosa più armoniosa e bella di un gatto: una ballerina.
Era complessa, ma ce la feci. Quando ebbi finito di darle forma, decisi di lasciarle un po’ di libertà. La ballerina, alta circa trenta centimetri, cominciò a guardarsi intorno, poi mi fece un inchino e incominciò a volteggiare. Era bellissima, la migliore creazione con l’acqua che avessi mai fatto.
Non so per quanto la guardai, ma la mia attenzione si distolse quando sentii un rumore. Mi voltai e mi accorsi che una ragazza stava guardando me e la ballerina alternando lo sguardo.
Mi alzai subito in piedi, fissando la ragazza nascosta. Non sembrava sorpresa o spaventata. Anzi, aveva uno strano sorriso sulle labbra. Per un attimo ebbi paura che volesse dirlo a qualcuno, ma come poteva dimostrarlo? L’avrebbero presa per matta. Teneva lo sguardo fisso sulla ballerina, finché questa, rendendosi conto di essere di troppo, sparì sotto la superficie dell’acqua.
La ragazza guardò di nuovo verso di me, perdendo il sorriso, e arrossì, per poi abbassare lo sguardo.
Mi abbottonai la camicia, in silenzio.
Scappare mi sembrava l’idea peggiore, dato che ormai quello che era fatto era fatto. Aveva visto e non ci potevo fare niente. Non potevo neanche dire che avesse avuto un’allucinazione, dato che la mia reazione quando l’avevo vista non era stata controllata. Quindi mi rimaneva solo la scelta di fare il ragazzo freddo e asociale. Come sempre, dopotutto.
-Era magnifico-, mormorò lei rompendo il silenzio. -Quello che hai fatto, intendo-, chiarì fraintendo la mia occhiataccia.
-Grazie-.
-Come hai… fatto?-, chiese senza credere a quello che aveva visto.
-Un giochetto da prestigiatori-, risposi con la solita freddezza.
-Okay. Lasciamo perdere-, si avvicinò e io feci di tutti per reprimere l’impulso di allontanarmi.
-Mi chiamo Alessandra, ma tutti mi chiamano Alex-.
Mi porse la mano. La strinsi e gli risposi: -Raffaele-.
La guardai meglio. Era vestita tutta di nero, tipo gothic lolita. Una dark?
-Non mi guardare così. Lo so, è strano come sono vestita, ma mi piace-, mormorò imbarazzata.
-Piace anche a me-, la rassicurai. -Solo che odio quando le gente mi guarda come se fossi un pazzo-.
Si mise a ridere, forse per una battuta che non avevo afferrato, ma poco importava. Non sembrava che volesse fare qualcosa di male.
Lasciò la mia mano e si guardò intorno. -Ti piace anche questo posto?-, chiese speranzosa.
-Sì, è bellissimo-.
-E’ mio sai? Però ci vengono sempre i miei amici o persone che si vogliono rilassare e che nemmeno conosco, come te adesso. Forse non è il posto migliore per… Be’, comunque sono contenta che ti piaccia-. Fui contento che si fosse fermata. Sapevo quello che stava per dire: non era il posto migliore per fare esperimenti con l’acqua. Buono a sapersi. Me lo sarei di sicuro tenuto a mente.
-Quindi in futuro potrei anche tornare? Oppure si arrabbia qualcuno perché è una proprietà privata?-, chiesi, sperando di poter tornare in quel posto magico.
-Puoi venire ogni volta che vuoi. Ogni tanto vienimi anche a trovare: io abito oltre quegli alberi, poco più lontano dalla fine del bosco. Quando vedi una grande casa bianca suona il campanello e chiedi di Alessandra-, disse in un sorriso indicando davanti a me, leggermente spostata a sinistra.
Dopotutto, era simpatica e non invadente. -Lo terrò a mente. Ti ringrazio-.
-Adesso sarà meglio che io vada, prima che i miei si arrabbino. Spero di rivederti presto-, e incominciò a correre verso casa sua.
Forse era meglio che anche io tornassi indietro. Chissà che avrebbero detto i miei genitori, se erano già tornati.
Più mi allontanavo dal bosco e più sentivo quel bruttissimo senso di perdita. Avevo bisogno del contatto della natura, era quella la mia casa. Non potevo vivere come Tarzan, ma avrei voluto farlo.
Entrai in casa, seguito dallo sguardo attento di una coppia di anziani su un terrazzino. Feci finta di non farci caso. Appena fui dentro e mia madre mi vide mi tirò uno scappellotto sulla nuca, rimproverandomi: -Dov’eri finito?!-, gridò quasi isterica.
-Ero nel bosco, là in fondo. Non sono andato lontano o ho fatto tutto quello che mi avevi chiesto-, le risposi mentre mi strusciavo la testa nel punto in cui mi aveva colpito.
Ahia.
-E il cellulare?-.
Oh, merda.
-L’ho dimenticato a casa-, ammisi. -Non pensavo di tornare dopo di voi-.
-E’ lo stesso! E se fosse successo qualcosa a Flavio?-.
-C’era Martina in casa!-.
-E neanche lei sapeva dove tu fossi!-.
Non ne dicevo una giusta, per la miseria! Ma che avevo fatto di male per avere una sorella antipatica e una madre troppo apprensiva!? Non me lo meritavo!
Mia madre sospirò e si calmò. -La prossima volta ricordatelo per favore. Non far preoccupare tutti per niente. Ti poteva succedere qualsiasi cosa-.
Sono uno in grado di controllare qualsiasi cosa mi capiti sottomano con la sola forza del pensiero, più forte a qualsiasi altra persona. Chi è quello in pericolo se mi minacciano?, pensai tra me e me. Non ero una persona come tutte. Almeno potevo difendermi da solo.
-Ok, mamma. Scusami-, mormorai per farla contenta.
-Non hai incontrato nessuno, vero?-.
Avrei voluto rispondere di no, ma la mia espressione mi tradì. Mamma mi lanciò un’occhiataccia e le dissi di Alex, ma su qualcosa riuscii a mentire: -Non ho usato nessuna “magia”, quindi puoi stare tranquilla-.
Ero stato così sicuro che era convinta che quello che avevo detto era la verità. Mi dispiaceva mentirle, ma non volevo andare via ora che ero arrivato.
L’ora di cena arrivò presto e appena fummo a tavola mia madre cominciò subito: -Che vi siete detti tu e Alex oggi? Sei stato zitto su questo-.
Diavolo, me lo poteva chiedere dopo?
-Nulla di che, mamma. Discorsi da ragazzi-.
-Alex? E’ un ragazzo che abita qui vicino?-, chiese mio padre ingenuo.
-Ragazza… E’ una ragazza, papà. Si chiamerebbe Alessandra-, lo corressi svogliatamente.
-Raffaele…-.
-Lo so-, lo interruppi. -Niente relazioni pericolose-, abbassai lo sguardo e mi alzai da tavola. -Non ho fame-. Non avevo toccato cibo, il piatto era ancora pieno, ma era il mio stomaco che si era stretto improvvisamente. Appena il mio cervello si era reso conto che dicendo quelle parola la mia voce aveva tremato aveva fatto scattare una reazione automatica nel mio corpo. Non volevo piangere. Non ancora una volta.
Stupidissime emozioni!, esclamai mentalmente mentre entravo in una stanza che non avevo ancora visto.
Tutti i mobili erano coperti da teli e c’era tantissima polvere. Chiusi la porta, impolverata anche quella, e mi guardai attorno. Il soffitto era basso e dovevo abbassare la testa per non batterla sulle travi di legno. Ero proprio sotto il tetto. Mi avvicinai alla scrivania e vidi che c’era un portagioie. Lo aprii e partì una melodia meravigliosa, quasi incantatrice. Era una ninna nanna. Presi uno dei gioielli che c’erano dentro, un braccialetto d’oro con incastonate pietre di ogni genere. Riconobbi rubini, lapislazzuli, topazi, zaffiri, ametiste e smeraldi. Le altre non le conoscevo o non mi ricordavo il nome. Decisi di lasciare lì i gioielli, ma tenni aperto il carillon mentre giravo per il resto della stanza. Spostai tutti i lenzuoli, piano, per non alzare la polvere. E sotto l’ultimo trovai una grande libreria, piena zeppa di libri vecchi. Erano messi ad incastro e per tirarne fuori uno mi feci male alle dita. Mi sedetti su una poltrona e lo aprii. Era scritto in inglese.
 
Scriverò questo libro con le mie memorie in inglese, in modo che il mio Signore, quando tornerà rincarnato tra gli umani, possa ricordare il suo passato, per cambiare, come aveva promesso. Spero che questa serie di scritti non caschi in mani sbagliate, come in quelle dei maghi, ma farò in modo che il Principe possa averli senza problemi da persone fidate. Che le dee Firula e Hiktae mi aiutino affinché questa missione abbia compimento. Possa la città di Ixnoor ritornare al suo vecchio splendore...
 
Chiusi il libro e sorrisi. Di sicuro era qualcuno a cui piaceva scrivere storia fantasy. Non era male come inizio. Se non fosse stato in inglese, lo avrei letto di sicuro. Ma, sinceramente, non avevo voglia di leggere quel tomo: era un libro grande, come erano i libri molto antichi, rilegato in pelle con degli strani disegni sopra, fatti con il fuoco.
Rimisi il libro a posto, anche se mi ci volle più rimetterlo che a toglierlo e tornai al carillon per chiuderlo. Mi accorsi che sul coperchio c’era una scritta a caratteri svolazzanti, un nome. Milnawey.
Che nome strano, pensai. Magari è straniero.
Andai in sala, dove c’erano in miei genitori che guardavano uno di quei Reality Show, concentrati su due ragazze che litigavano. Appena mio padre mi vide mi chiamò e mia madre spense la TV.
Mi sedetti in mezzo a loro, senza guardarli. Mi vergognavo come un ladro per come mi ero comportato a cena.
-Io e tua madre abbiamo parlato-, disse papà, anche lui senza guardarmi, -e abbiamo ragionato molto sulla tua situazione. Ci dispiace per quello che ti facciamo passare ogni giorno, ma crediamo che sia per il tuo bene-.
-Lo so-, fu l’unica risposta che fui capace di dare. Era sempre per il mio bene, ma mi faceva stare male. A quel punto che mi lasciassero solo per strada e che decidessi io il mio bene, così non mi avrebbero avuto sulla coscienza.
-Abbiamo anche deciso che sei abbastanza grande per cavartela da solo-, aggiunse poi. Cosa? E questa da dove esce fuori? -Quindi d’ora in avanti sceglierai tu cosa fare per te-, concluse.
-Posso avere degli amici?-, chiesi incredulo.
Annuirono.
-Ho il diritto di farmi piacere una ragazza senza farvi arrabbiare?-, chiesi ancora più incredulo.
-Sei libero, ma non fino a questo punto-, rispose mia madre.
Sbuffai. Mi era stata privata la parte migliore. Era tanto volere un po’ di amore che non fosse quello famigliare?
-E’ meglio che alle ragazze tu non pensi ancora. Ti potrebbe venire la tentazione di dirle tutto-.
Perché agli amici no?, pensai, ma evitai di dirlo. Non sia mai che cambino idea!
-Okay, mi accontenterò di avere degli amici-, sempre che riesca a farmene.
Continuammo a parlare e mi dissero che avrei frequentato un liceo scientifico, da dove avevo cominciato. Avrei iniziato il quarto anno per la seconda volta. Almeno sapevo gli argomenti. Però non conoscevo nessuno. Che fregatura.
Ecco, sempre la solita storia. Mi trovavo in un posto nuovo, dove non conoscevo neanche un’anima e mi toccava comportarmi in maniera assolutamente falsa. Bella vita, certo! Avere dei poteri superiori a qualunque altro umano e non poterli usare per aiutare le altre persone. Mi sentivo come Superman, con l’unica differenza che io non ero un alieno venuto con un astronave.
Mi chiesi come potevano essere i genitori di Alex. Be’, di certo i miei non mi avrebbero mai permesso di vestire dark…


Rieccomi a fine capitolo, dove nessuno probabilmente mi leggerà; (o perché non hanno voglia, o perché; hanno chiuso prima la storia, questo mi sarà per sempre estraneo), ma chiunque mi legga lo pregherei di lasciare una critica, anche solo per dirmi se posso fare capitolo più lunghi o basta così.
In secondo luogo mi scuso per come il capitolo venga troncato, ma non sapevo veramente dove mettere le mani. Essendo preso da un'idea di romanzo, dividerlo per un sito diventa faticoso e non voglio assolutamente che perdiate decimi per colpa mia.
Vi ringrazio di cuore se siete arrivati fino a qui, e vi aspetto al prossimo capitolo!
-TheElementalist
   
 
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