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Autore: Queen of Superficial    11/10/2014    2 recensioni
“E' Brian.”
“Brian?”
“Padre. Vorrebbe parlare con te.”
Mi alzai dal divano e presi il cellulare, senza capire.
“Belle? Posso dirti una parola?”
“Certo.”
“Brian è... strano, ultimamente.”
“Brian è strano ultimamente da oltre trent'anni, Papa.”
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un'orchestra di ritardati

 

Ho preso la chitarra e suono per te... Il tempo di imparare non l'ho, e non so suonare, ma suono per te.
Se gli chiedevate di me, loro vi rispondevano: canta sempre. Quando cucina, quando passeggia, quando fuma, quando nel salotto arrivano i vapori densi di una doccia troppo calda con dentro un essere umano chiaramente resistente alle alte temperature, quando risponde al telefono, sempre non prima del quarto squillo. Essendo europea, venivo da un posto in cui c'è il culto di dover imparare almeno due o tre lingue prima di essere ritenuti socialmente accettabili, dunque cantavo spesso e volentieri canzoni straniere che loro non capivano; nel caso specifico in esame, cantavo con voce suadente questa canzone italiana a Brian, appollaiato sul divano con l'aria di uno che aveva appena ammazzato una nidiata di passeri spezzandogli il collo e sapeva che la giornata era ancora lunga. Alzò gli occhi su di me.
“Che significa quello che stai cantando?”
“Oh, è una canzone su uno che suona la chitarra ma non la sa suonare.”
Mi colpì in pieno volto con il cuscino di un divano, facendomi finire la sigaretta a terra. “Ragazzina insubordinata.”, sibilò, ma sorrideva. Ci odiavamo con grande cordialità, oppure ci volevamo molto bene con una tremenda acredine. Chi lo sa? Che importa.
Mi alzai per appoggiare l'orecchio alla porta della cantina. Lì sotto, in un luogo che definivamo ottimisticamente garage, c'era il suono ovattato di una batteria.
“Va' da lui.”, mi esortò il demente. “Lo sai che vuoi andare da lui.”
“Brian, tutte le volte che parli mi colpisce con terrore la consapevolezza che sei ancora vivo. Parla meno, quando mi distraggo riesco quasi a non pensarci.”
Sbuffò e prese il mio pacchetto di sigarette, sfilandone una.
“Sei ridicola.”
“Silenzio, chitarrista cadavere.”
“Cadavere a tua sorella. Io sono ancora in ottima forma.”
“Sì. Una passata di formaldeide, e sei pronto per la bara.”
Michelle entrò in quel momento, aprendo la porta di casa di Jimmy con le chiavi di Valary. Il solito traffico indistricabile di appartenenze, vere o presunte, e di piccole libertà che uno si prende quando si conosce davvero, davvero bene.
“Ah, giusto in tempo.”, dissi, staccando l'orecchio dalla porta. “Fallo stare zitto.”
“Se sapessi come si fa, probabilmente saremmo ancora sposati. Vi devo ricordare le nozze di diamante dei nonni? Scendi a chiamare Jimmy, tesoro, ti dispiace?”, mi disse, stanca per principio insondabile di esistenza, sedendosi con grazia in punta al divano.
Guardai Brian, scostandomi una ciocca di capelli schiariti dal sole della California da un occhio.
“Che fai, vai tu?”, tentai. Detestavo interrompere Jimmy mentre suonava.
“Io? E perché devo andarci io?”
“Perché tu sei il suo migliore amico.”
Gonfiò il petto come un tacchino, sotto lo sguardo rassegnato della sua ex moglie.
“Appunto per affrancarmi dai compiti più noiosi uso te come Jimmy-sitter. Scendi e fai il tuo dovere.”
“Jimmy-sitter?”
Brian fece un gesto vago con la mano che reggeva la sigaretta, con l'altra si grattò un occhio.
“Ma sì, fai quelle cose lì... quelle cose tue. Gli fai quattro moine, gli sbatti le ciglia, te lo abbracci un po', gli parli dolcemente all'orecchio, rispetti i suoi spazi, non gli fai domande che non vuole sentire, gli porti il caffè. Tutto quello che io non faccio e non ho nessuna intenzione di fare.”
“Quindi io sarei il braccio lungo della legge?”, osservai, mettendomi davanti a lui a braccia conserte.
“No, tu sei il braccio della legge che sta bene in autoreggenti.”, ribatté, piccato, “Che non è un optional da sottovalutare, se vuoi far ragionare Jimbo senza che ti sbrocchi addosso come un'ufera.”
Michelle e io ci guardammo senza l'ombra di speranza negli occhi.
“Che fai, ci vieni in bermuda alle nozze di diamante dei nonni?”, gli fece lei, squadrandolo sconsolata.
Brian sbuffò, stanco di tutti. “Ma dei nonni di chi, poi?”

 

Indugiai sulla soglia, indecisa se aprire o no.
“Praticamente sono fidanzata con la porta di una cantina.”, sussurrai al legno laccato. Brian dietro di me rise, sentii il rumore dei cuscini del divano che si rassegnavano ad essere schiacciati mentre si alzava in piedi. Michelle lo stava esortando a vagare verso casa e darsi una ripulita. Ammiravo molto la rassegnata forza di volontà di questa donna, il modo in cui era riuscita a non diventare matta; a lasciarlo, di nuovo, e in via forse definitiva.
Aprii la porta e scesi le scale che mi separavano da quello che credevo fosse l'amore della mia vita. Era di spalle, un coacervo di nervi tesi e sudore, pestava sui piatti come se il suono di quello strumento, da solo, tenesse in piedi il mondo. Mi avvicinai cauta, ma tanto non si contava una sola volta in cui si fosse anche leggermente spaventato quando lo prendevo alle spalle. Appoggiai lieve una mano sul muscolo teso del suo braccio in movimento e, all'improvviso, si fermò. Alzò gli occhi verso di me, dietro occhiali da miopia che perdeva ogni dieci minuti; mi chinai sulla sua bocca giusto perché potevo farlo, sapeva di sale e di qualcos'altro, un'eccitazione elettrica che lo prendeva solo quando suonava. Mi morse il labbro inferiore e quasi mi sbilanciai in avanti, rischiando di andare a finirgli addosso e rompere il terzo sgabello da batteria in un mese. “E' tardi, ci sono le nozze di diamante dei nonni.”, gli sussurrai, con la bocca sulla sua. Mi guardò con mistero per un lungo istante, poi annuì pensieroso. “Si è capito di chi sono questi nonni, poi?”, mi chiese.

 

Riemergemmo dalla porta della cantina approdando nel salotto aggravato da una spessa nube di fumo di sigaretta. La nube era semovente, si spostava in base ai capricci dell'aria che filtrava dalle finestre aperte. Jimmy si aggiustò i pantaloni per motivi completamente indipendenti da me, ma Brian fece comunque una pessima battuta. Jimmy rise. Lo guardai male. Smise subito, ma gli restò negli occhi un velo di ironia nei miei confronti che mi avrebbe mandata su tutte le furie, se solo fossi stata più normale.
Michelle e Brian stavano uscendo, ci salutarono bisbigliando parole che non riuscimmo ad afferrare. Quando si furono chiusi la porta alle spalle, mi voltai e glielo chiesi: “Secondo te come fanno ad essere ancora in rapporti decenti?”
“Non sono in rapporti decenti, Belle. Semplicemente, non riescono a mettere davvero la parola fine. Anche Zacky e sua moglie sono andati avanti sotto una pioggia di recriminazioni e risentiti silenzi per un sacco di tempo, e ho il sospetto che ancora qualche volta si vedano. Non ce la fanno proprio ad accettare le naturali fini dei loro matrimoni. Non ce la fanno.”, disse, più a se stesso che a me.
“Sono inaspettatamente romantici.”, osservai.
“Sono un'orchestra di ritardati.” rettificò lui, e non ritenne di dovermi dare altre spiegazioni di carattere sociopsicologico.

 

 

Bevo molta camomilla

 

“Pronto?”
Stavo cercando di chiudermi la cerniera sul retro del vestito con una strana danza quando squillò il telefono. Risposi con Jimmy che, passando, la tirò su senza che io gli chiedessi niente e poi tornò davanti allo specchio.
“E ma cazzo!”, ribatté una voce dall'altra parte del ricevitore.
“Bene, grazie. Tu?”
“Scusa, B.”, disse Valary, affannando, “Parlavo con questo deficiente” (il marito) “Ti prego, non fargli mettere l'eyeliner.”
Alzai gli occhi su Jimmy e lo chiamai ad alta voce. Fermò la punta della matita Revlon a mezzo millimetro dall'occhio destro e mi guardò.
“Valary mi prega di non farti mettere l'eyeliner.”
“Solo se mi dite di chi sono i nonni.”
Coprii il ricevitore con una mano.
“Non lo so, di chi sono i nonni.”, sussurrai.
Si voltò di nuovo verso lo specchio e prese a mettersi la matita.
“Vuole sapere di chi sono i nonni.”, dissi nel telefono con un sorriso.
“I miei! Sono i miei maledettissimi cazzo di fottuti nonni!”
“Sono i maledettissimi nonni di Valary.”, lo informai, soave, al di sopra della mia spalla. Jimmy rise e si guardò nello specchio, infilandosi una lente a contatto con una forza non del tutto necessaria.
“Val, devo lasciarti”, dissi, occhieggiandolo preoccupata, “Si sta cavando un occhio.”
Corsi verso di lui piantando il cordless contro il muro in un unico, fluido movimento e cercai di porre rimedio.
“Lascia fare a me.”, dissi, appoggiandogli delicatamente il globo liquido e trasparente sulla pupilla, “Ultimamente sei un po' troppo violento, nel fare le cose.”
“Non mi sembra di averti sentita lamentarti, per lo meno in un certo settore.”, mi rispose, afferrandomi alla base della schiena per stringermi a lui. Sorrisi contro le sue labbra. “Facciamo tardi.”, sussurrai, ma non mi interessava.

 

Io e Michelle eravamo ferme davanti a un tavolo ingombro di pietanze delle quali ci preoccupava la composizione.
“Come va con Jimmy?”, cinguettò. La guardai, soppesandola. Che domanda era?
“Bene.”
Annuì con un po' troppa enfasi, guardando il buffet. Finalmente sollevò due calici di rosso. Me ne porse uno. Si voltò verso l'assiepamento in cortile: un'amica di sua nonna era seduta accanto a Jimmy e Brian e teneva una mano sulla coscia a entrambi, raccontandogli chissà cosa.
“Siete una coppia normale?”, mi chiese ancora.
Normale mi sembra una parola grossa.”
Sforzò una risata lieve. Era tesa e indecisa, mi chiesi come mai.
“Sì, certo... dicevo, in senso lato.”
L'amica di sua nonna sollevò la mano di un paio di centimetri verso il cavallo dei pantaloni del mio fidanzato, che sobbalzò. Ecco come si fa a farlo sobbalzare, pensai, bisogna farlo molestare da un'arzilla ottuagenaria.
“Beh, in senso lato sì. Parliamo, mangiamo, usciamo, facciamo l'amore... Sai, le solite cose.”
“Fate l'amore.”, ripeté, assorta.
Mi voltai di scatto.
“Sì, beh, scopiamo.”
“Bravi. Fa bene alla circolazione.”
Brian Haner Sr. ci sorrise paterno, introducendosi non richiesto in quella strana conversazione. Arrossii. Michelle biascicò qualcosa e si allontanò verso i nonni, agitando festosa le mani; Papa Gates prese il suo posto accanto a me, appoggiato al tavolo buffet. Per un paio di minuti guardammo in silenzio la scena di Jimmy, Brian e l'anziana predatrice sessuale. La vecchina aveva fatto spogliare Brian della giacca e gli accarezzava l'avambraccio, studiando i suoi tatuaggi.
“Che facciamo, interveniamo?”, domandai a un certo punto.
Papa sembrò rifletterci un secondo. “Mah, no. Se la cavano.”
Bevevo vino che mi andava leggermente in testa. Il mio vestito chiaro era miracolosamente sopravvissuto agli attacchi di una lunga litania di gente che mi era sbattuta addosso, nel tutto sommato gremito cortile dei nonni DiBenedetto.
“Senti, Belle, mio figlio dice che sei amica sua.”
Ero sorpresa quanto lui. Brian non avrebbe mai detto una cosa del genere. Almeno, non da sobrio e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali.
“Non fraintendermi, mio figlio ha avuto molte amiche nella vita, ma visto che sei la fidanzata di Jimmy non credo tu sia di quel tipo là.”
Gli scoccai un'occhiata che voleva essere una conferma.
“Dunque, sei veramente amica di Brian?”
“Immagino di sì.”
“Nel senso che ti parla, si confida, ti rende partecipe?”
Ci riflessi un attimo. “Non saprei. Possiamo dire di sì.”
“E come fai?”
La vecchia si scusò, si alzò e passò in maniera ostentatamente casuale il dorso della mano sul cavallo dei pantaloni di Jimmy.
“Bevo molta camomilla. Scusami.”, e mi allontanai verso quell'orrenda immagine.
“Molta camomilla...”, lo sentii ripetere alle mie spalle.

 

“Ah, ora arrivi? Non hai visto le oscene avances che ho subìto?”, mi chiese Jimmy, voltandomi di spalle e tirandomi addosso a lui. Mi venne l'atroce sospetto che volesse mettere uno scudo umano e invalicabile tra lui e qualunque cosa al di sopra dei sessant'anni manifestasse il desiderio di sentirsi di nuovo giovane.
“Papa ha detto che ve la cavavate anche da soli.”, mi giustificai.
“Non devi mai, mai, mai, per nessun motivo dare ascolto a mio padre. Qualunque cosa dica. È la regola numero uno.”
“Chi è questa bella signorina?”
La vecchia: il ritorno. Sorrisi cortese.
“E' la mia fidanzata.”, disse Jimmy, scandendo le parole come se stesse parlando con un essere lento di comprendonio.
“Ah. Come ti chiami, zuccherino?”
“Lidia. E lei?”, risponsi, giuliva.
“Marjorie. Lidia.”, mi sussurrò, cospiratrice, “Alla tua età io, con il mio fidanzato, facevo i numeri.”
Annuii, saggia, come se si trattasse di un consiglio.
Mi fece un osceno occhiolino e si diresse zampettando verso un ottuagenario capannello di storditi che ballavano una canzone vecchia come il Pleistocene, poco lontano.
Jimmy e Brian mi guardarono. “Che ti ha detto?”
“Che lei alla mia età con il fidanzato faceva i numeri.”
“Mi sembra che non abbia perso lo smalto.”, commentò Jimmy.
“Che numeri vuoi che faccia, ormai? I numeri del pronto soccorso dell'unità coronarica. È innocua.”, fece Brian, poco convinto.
“Sì?”, chiesi, sorniona, “Vai a chiederle un ballo, allora.”
“Un ballo?”
Mi voltai verso Jimmy. “Non lo farà. Cagasotto.”
“Non dire le parolacce, Belle, si vede che non sai dirle.”, mi rimbeccò Brian.
“Cagasotto.”, scandii lentamente, sporgendomi in avanti. Mi guardò risentito. “Va bene”, disse. Un paio di minuti dopo, sotto una pioggia di flash che neanche al matrimonio di Madonna, la cara Marjorie sta vivendo una nuova adolescenza, stretta tra le braccia di Brian sulle note di Embraceable you.
Io mi voltai verso Jimmy, sussurrandogli parole della canzone.
Embrace me, you, irreplaceable you.”


 

Brian è strano ultimamente da oltre trent'anni

 

 

In California piove molto bene, quando piove. È un rumore fitto, avvolgente, caldo come la sabbia arroventata dal sole. Sul divano, leggevo Great Expectations di Charles Dickens, ferma sulla stessa pagina da oltre venti minuti; guardavo lui sistemare musica scritta al tavolo nell'angolo della stanza, con le cuffie nelle orecchie e il cervello che andava a fuoco. Incantata, ne studiavo i movimenti delle mani: c'era, nel modo in cui teneva un tempo immaginario tamburellando sul legno, una magia capace di irretirmi i sensi più di qualunque droga esistente. Il suono delle sue dita su qualsivoglia superficie era un potente antidolorifico contro tutto quello che non sarei mai riuscita a dimenticare della mia vita. Lavoravo tre giorni alla settimana, in quel periodo; ero l'assistente del professore di Processi Cognitivi. Quando finalmente Jimmy alzò gli occhi, riuscii a cogliere quel momento che, per me, era la somma di tutti i momenti passati: senza difese, senza misura, un predatore nel suo elemento naturale. Non mi dispiaceva venire dopo una batteria. Si accorse che lo stavo guardando, chissà da quanto tempo; mi fece l'occhiolino e tornò a concentrarsi sui fogli.
Mi sono mossa nervosamente sul divano perché non c'era davvero altro al mondo che potessi fare, in quel momento, se non cambiare posizione e cercare di porre un freno ai pensieri; c'erano calcificazioni di gelo, dentro me, piramidi di ghiaccio così alte che a volte faticavo a trovare me stessa, in mezzo a tutto quel freddo. Ma poi, fuori, dentro uno specchio, c'era lui. Lui cancellava i miei errori con un gesto vago della mano, sapeva senza chiedere e perdonava senza dirlo: era casa mia, in tutti i modi in cui una persona possa essere la casa di qualcun altro.
“Stai pensando inutili romanticherie rivolte a me?”
Stornai lo sguardo dalla finestra e glielo avvolsi addosso con aria marziale. Jimmy sorrideva, scorrendo un foglio dopo l'altro.
“Inutili romanticherie.”, scandii, per essere certa di aver capito bene.
“Sì, quelle cose tue.”, spiegò lui, capendo (male) di essere stato chiamato in causa, “Quelle storie sulle case, le verande, gli amori della vita... Il perdono di tutti i peccati.”
Inarcai un sopracciglio. “Perché stai con me?”, chiesi, inquisitrice.
Si accese una sigaretta, mentre io sorridevo della nostra assurda complicità.
“Non le pensi anche tu di me le cose sulle verande, gli amori della vita e il perdono dei peccati?”
Scosse la testa con la Marlboro tra i denti. Non guardava me; guardava i fogli.
“Io misuro il mio sentimento per te nel fatto che non mi dia fastidio che mi vieni a interrompere mentre suono.”
Gli rivolsi un'espressione di cauta, divertita sorpresa.
“Penso sto qui, con la mia batteria, suono e non mi manca nulla. Poi arrivi tu, mi abbracci da dietro, rischiando ogni tanto pure qualche gomitata nei denti... Perché sei temeraria, devi ammetterlo, ad avvicinarti così quando sai che sto suonando, ho le cuffie e non ti sento... Ed è lì che penso che davvero non mi manca niente. Ho te, la grancassa, quelle quattro inefficaci teste di cazzo e sono contento. Molto contento.”
Caddi dalle nuvole quando squillò il suo cellulare. Lo afferrò con un gesto di stizza, lasciando cadere la matita sui fogli. “Pronto”. Ascoltava qualcuno parlare, assorto. Aggrottò le sopracciglia e mi tese il telefono.
“E' Brian.”
“Brian?”
“Padre. Vorrebbe parlare con te.”
Mi alzai dal divano e presi il cellulare, senza capire.
“Belle? Posso dirti una parola?”
“Certo.”
“Brian è... strano, ultimamente.”
“Brian è strano ultimamente da oltre trent'anni, Papa.”
Jimmy spostò i fogli per farmi un po' di spazio e io mi accomodai sul tavolo di fronte a lui, con le gambe che penzolavano oltre il bordo.
“Vorrei che tu parlassi con lui.”
“Io?”
“Sì. Tu.”
Nel momento in cui chiusi la conversazione, diversi minuti dopo, il campanello suonò spandendo il suo acre rumore per tutto lo stabile. Sobbalzai, rimuginando su quello che mi aveva detto Papa Gates. Jimmy non parlava, il che non era mai un buon segno.
Si alzò per andare ad aprire la porta e dietro c'era lui: il suo migliore amico, quello di un miliardo di lattine schiacciate e notti senza fine e senza inizio negli alberghi di mezzo mondo. Prima ancora, quello che suonava nel garage dei genitori di Shadows insieme a lui, quando fare quel che amavano per mestiere era un'assurda utopia.
“Avete birra?”, disse soltanto. Jimmy si scostò di lato per farlo passare, e io gli accennai un saluto con la mano. Spento, stanco, così sputtanato... talmente lontano dalla maschera di ghiaccio e testosterone che era sul palco. Brian, non Synyster. Brian. Si passò una mano tra i capelli, a disagio, e crollò sfinito sul mio divano, occupando il punto in cui fino a poco prima c'ero io. Gettò un'occhiata in tralice a Grandi Speranze e sorrise, triste.
“Allora, questa birra?”
Jimmy andò al frigo, ne estrasse una confezione da sei, la poggiò sul tavolino tra i divani e si sedette di fronte a lui con i gomiti sulle ginocchia, in attesa. Decisi che ero di troppo. Passai a prendere il libro dal divano e mi allontanai, con un sorriso timido, verso la camera da letto.
“No.”, mi bloccò la voce di Brian, “Resta. Per favore.”
Congelando sul posto, mi voltai a guardare Jimmy. Annuì leggermente. Tornai indietro e mi sedetti sul divano accanto a Brian.
Sospirò, ma il respiro gli franò in gola. Andò indietro, premendosi nella spalliera, e si afferrò i capelli. Sembrava una corda tesa allo spasimo, sul punto di esplodere con uno schiocco. Lo guardai, preoccupata. Che ci crediate o no, gli volevo bene.
“Non ci riesco, Jim.”, disse infine, in un torrente di lettere sofferenti, “Non riesco a togliermela dalla testa.”
Jimmy lo guardava, serio, senza aprire bocca.
“Mi sto rovinando la vita. Mi sento uno schifo, è la tua donna e io...”
Sussultai così forte che, per una frazione di secondo, si voltarono entrambi nella mia direzione. Pensavo parlasse di Michelle, non certo di me. Jimmy no, invece. Jimmy aveva capito subito.
“Più cerco di non pensarci, più ci penso. Penso a lei, ogni minuto di ogni giorno. Sempre.”
Non sapevo cosa fare, né dove andare. Me ne stavo lì come un pupazzo, una bambola, una marionetta. Misi febbrilmente insieme i pezzi, cercando un criterio in quell'assurda dichiarazione. Brian guardava Jimmy. Voleva che facesse qualcosa, qualunque cosa. E lui la fece. Si allungò verso il tavolo e aprì due lattine di birra. Io non esistevo, in quell'istante, ma andava bene così. Ne porse una all'amico che gli stava di fronte, e dall'altra prese un lungo sorso. “Io la amo, Brian.”, disse soltanto.
Cominciai a capire qualcosa, ma non il perché. Mi alzai dal divano con l'intenzione di bere un bicchiere di vino, o anche venti.
“Dove vai?”, mi chiese Brian, senza guardarmi.
“A prendere il vino.”
Tornai con un macigno sul cuore, una bottiglia di Merlot e un bicchiere già pieno. Misi una sigaretta tra le labbra, tornando a sedermi, e lui me la accese ma poi guardò Jimmy, chiedendosi qual era, in quel momento, il limite che non doveva oltrepassare con me.
“Cosa ti aspetti che faccia?”, gli chiese Jimmy, abbandonandosi contro lo schienale.
“Vorrei parlare con lei.”, rispose Brian, serio, “Da solo.”
Mi sentii orrendamente a disagio. Ci sono cancelli elettrificati, nella vita, che non dovresti mai voler sorpassare. Oltretutto, lo guardavo fisso ma senza farlo apposta: credevo di aver colto qualcosa, dettagli, spiegazioni, che mi rendevano comprensibile il motivo per cui qualcuno come Brian decidesse di correre un tale rischio.
Jimmy lo osservò per un lungo minuto, stornò lo sguardo su di me e poi tornò a lui. Era serissimo.
“E' tua amica.”, rispose infine, “Non devi chiedermi il permesso.”
Mi si gelò il sangue nelle vene. Brian si alzò dal divano, con mezzo sorriso stanco. “Grazie della birra”, disse, e se ne andò. Ero impietrita.
“Perché dirti una cosa del genere.”, sussurrai tra me e me, pensierosa.
“Perché dentro la sua testa di merda era la cosa più logica da fare.”, mi rispose. Sobbalzai, tornando bruscamente alla realtà. Non mi aspettavo di sentire la sua voce, ma lui è così. C'è sempre, anche quando non te lo aspetti.
“E' il tuo migliore amico.”
“Non vuol dire un cazzo.”
Si accese un'altra sigaretta, meditabondo.
“Esci con lui. Fallo parlare, vedi cos'ha che non va.”
Lo guardai con un certo mistero. “Non credo di essere io, la causa dei suoi mali.”
“Neanche io lo credo. Senza nulla togliere all'indubbio fascino che eserciti sul genere maschile.”, mi prese in giro. Sbuffai, spingendolo con un piede.
“Sono preoccupato per lui.”, aggiunse poi, mentre io mi versavo il quarto bicchiere di vino, “Ha sempre fatto così. I giri intorno al problema. Finiva in una lunga serie di questioni diverse, nel tentativo di dimenticarsi la cosa che lo affliggeva davvero. O forse nella speranza che si risolvesse da sé.”
Sospirai, bevendo. “Non era necessario questo teatrino.”
“Che tu lo creda o meno, trova meno umiliante questa messa in scena che ha ordito piuttosto che dirti direttamente che ha bisogno di te, perché si fida di te. Oltretutto, stava in una botte di ferro. Lo conosco così bene che non gli avrei mai creduto.”
Tacemmo, guardandoci.
“Perché non prova a parlare con Matt?”
Jimmy rise. “Matt fa il cantante, mica il parroco.”

 

 

E tua moglie è un soprammobile di troppo

 

 

Vilayanur S. Ramachandran era il più eminente neurologo che avessi avuto l'onore di conoscere in una vita. Sapeva entrare dentro i cervelli come voi o io entriamo in cucina appena svegli; con aria assente, ma competente. Questione di abitudine. Noi sappiamo dove si trova il latte, dove sta lo zucchero, in quale anta ci sono i biscotti; lui ha la stessa noncurante familiarità con i meandri della mente umana. Sa cosa accade, e dove. Lo sa così bene che ormai non ci fa neanche più caso. Mi sono chiesta più di una volta se la meraviglia a lungo andare non ti lascia; se stanca, dopo un po', restare a bocca aperta a bearsi degli spettacoli che la vita ci mette a disposizione. Prendevo appunti in disparte ad una sua lezione, quel giorno; non bisognerebbe tenere corsi ad un'ora così tarda della sera, perché a cavallo del tramonto le persone diventano strane. Ricettive, elettriche, inclini alla riflessione. Fuori dalla finestra della classe, che dava direttamente sul cortile principale, il cielo era nuvolo e di un colore indefinito tra l'arancio e il rosa; studenti e professori si attardavano nello spiazzo antistante l'edificio di Neuroscienze, in piccoli gruppi svagati e liberi dagli impegni della giornata. Come può una massa di gelatina grande sì e no quanto un pugno concepire gli angeli, sbrogliare galassie, questionarsi sulla sua stessa esistenza?, diceva il professore con gli occhi accesi davanti a una grande diapositiva del cervello. I miei occhi avevano una luce diversa, e indugiando al di là del vetro colsero la nota stonata senza neanche concentrarsi. Una Mustang rossa d'epoca parcheggiata nel cortile, con al volante un uomo che fumava. Gli spigoli nel viso, gli occhi assorti, le ragazze che gli passavano di fianco dandosi di gomito e lui che non dava segno di accorgersene nemmeno. Fumava, guardando dritto davanti a sé. A qualcuna particolarmente carina sorrideva, ma era un evento raro. Chiusi il quaderno con uno schiocco secco e uscii dall'aula.

“Cosa ci fai qui?”
Si strinse nelle spalle, perforandomi con due occhi taglienti.
“Jimmy mi ha detto che finivi verso le sette e mezza, ho pensato di passare a prenderti.”
Lo guardai in silenzio, soppesando la questione.
“Allora”, disse, lanciando via il mozzicone, “Ti va di cenare con me?”
Non ero in abiti da cena. Quella mattina, prima di uscire di casa, mi ero a stento messa un jeans e un maglione nero troppo lungo.
Come se mi leggesse nel pensiero, disse: “Stai benissimo, non preoccuparti. Tu stai sempre bene.”
“Fammi prima chiamare Jimmy.”
“D'accordo.”
Rispose al primo squillo, come se stesse aspettando quella telefonata.
“C'è Brian. Vado a mangiare qualcosa con lui.”
Silenzio.
“Non fare troppo tardi.”
“Non preoccuparti. Jim-”
Aveva già attaccato.
Brian aprì la portiera del passeggero e io mi accomodai rigida.
“Questa cosa non può funzionare?”
“Quale cosa?”
“Questa cosa che hai innescato. Gli fai una dichiarazione del genere e poi ti aspetti anche che gli stia bene che io venga a cena con te.”
Si strinse nelle spalle. “Lo ha detto lui: sei amica mia.”
“Lo hai detto tu: non hai amiche.”
“Ma tu hai detto anche a mio padre che sei mia amica.”
“Non sto dicendo che non sono tua amica. Sto dicendo che tu non sei amico mio.”
Mi accesi una sigaretta, stancamente.
“Oltretutto”, aggiunsi, “Sei prima di tutto amico suo.”
Guidava in silenzio e la statale che costeggiava il mare ci sfrecciava sotto le ruote, confondendoci i pensieri.
“Non si è ancora fatto togliere quel tatuaggio, vero?” disse, all'improvviso.
Non risposi.
“Sai di quale parlo. Quello all'anulare.”
“Guarda che non devi provocarmi, puoi anche... parlarmi e basta.”, gli risposi, con un sorriso risentito. L'aria tra noi era così densa che si poteva tagliare con un coltello.
“Io penso che tu abbia bisogno di un uomo che ti metta al centro di tutto.” lui, mellifluo.
“Io invece credevo che fossimo qui per parlare di te.”, io, secca.
“E cosa te l'ha fatto pensare?”, lui, sarcastico.
“Il fatto che gli hai espressamente chiesto il permesso di uscire con me.”, io, stanca.
“Magari volevo solo sincerarmi di alcune cose.”, lui, provocatore.
Sospirai e mi accesi una sigaretta.
“Cosa c'è che non va, Brian?”, gli chiesi, nel modo più semplice e affettuoso che esista.
Osservai con la coda dell'occhio la sua postura collaudata cambiare, crollare sotto il peso di qualcosa. Improvvisamente, mi sembrò stanco. E umano.
“Niente va, Belle. Niente va per il verso giusto.”
Mi guardò di sottecchi.
“Io smetto di fare il playboy se tu smetti di fare l'ingenua.”, disse, facendomi voltare sul sedile a guardarlo.
“D'accordo”, risposi, “Allora diciamo che hai detto quelle cose a Jimmy semplicemente perché non potevi ammettere direttamente di avere bisogno di me. Perché vivi in un microcosmo in cui esisti tu, la chitarra, gli amici, le donne che, senza speranza, cercano di rendersi indispensabili e di farsi dire da te che le ami oltre ogni cosa, e falliscono, perché non è mai così. Niente amiche, le fidanzate degli altri vengono tollerate, ma non di più, e tua moglie è un soprammobile di troppo.”
“Io provo davvero per te...”, provò a ribattere.
“Piantala. Sono palle. Se fosse vero, ti saresti scuoiato vivo da solo prima di andare a dirlo a Jimmy. Mi avresti dimenticata a testate nei muri, se necessario. Perché tu ami Jimmy, e solo Jimmy, e non avresti mai permesso a una cosa del genere di mettervi in discussione: come hai fatto quando piacevo a entrambi, ma ti sei accorto che a lui piacevo un po' di più. Un po' tanto di più.”
Mi guardò di sottecchi, senza rispondere.
“Quello che non riesci ad ammettere, neanche con te stesso”, continuai, “E' che io ti piaccio come persona. E che credi di aver bisogno di me.”
Parcheggiò sul retro di un piccolo ristorante fuori mano, sulla spiaggia, e si voltò a guardarmi malissimo.
“Ammettiamo per un attimo che sia vero.”
“Ecco. Facciamo finta che le cose stiano esattamente così. Facciamo un gioco. Tu parli con me, e io vedo se riesco ad esserti utile.” ci pensai un attimo “Diciamo che non siamo amici. Diciamo che siamo una coppia di amanti, alludiamo a mirabolanti performance sessuali che avranno luogo nel dopocena, nascondiamoci come due criminali, facciamo così. Nel frattempo, tu mi dici cosa c'è che non va e io ti ascolto. Ok?”
Mi fissò, intenso. “Ok.”

 

 

Il discorsetto

 

 

Il tavolo che ci avevano dato era nascosto e incredibilmente romantico. La luna, quella enorme palla rilucente, spandeva un chiarore argentato sul mare davanti a noi e sopra le nostre teste. Fumavamo in silenzio davanti ad antipasti quasi intatti.
“Non riesco a capire se amo o no Michelle.”
Sbattei le palpebre un paio di volte, irretita dalla parabola di volo di un gabbiano. Che ci facevano i gabbiani in giro a quell'ora?
“Lei ti ama?”, chiesi.
“Credo di sì. È solo che a volte è così... insopportabilmente... cretina.”
Mi voltai a guardarlo e presi un sorso dal calice di vino, senza riuscire a nascondere l'ombra di un sorriso.
“Pensavo che fosse una cosa tipica delle donne, essere cretine.”, continuò, “Anche Val è cretina, ogni tanto, ma Michelle esagera.”
“Sei tu che la vivi così. Michelle è una ragazza a posto.”
“Michelle strilla un sacco. Si lamenta che non le do abbastanza attenzioni. È in competizione con te, oltretutto. La cretina.”
“Michelle sapeva chi stava sposando.”, osservai, versando altro vino nei bicchieri.
“Dovrei versare io.”
“Non fa niente, non siamo mica a casa dei miei. Vai avanti.”
“Dimmi qualcosa dei tuoi.”
“Noiosa, antica aristocrazia europea. Dei pomposi stronzi. Vai avanti.”
“Che ne pensano di Jimmy?”
“Probabilmente, che mi abbia fatto qualche specie di incantesimo satanico. Vuoi continuare?”
Lui sospirò. Qualcuno passò schiamazzando sulla spiaggia, rivolgendogli un cenno di saluto. Per un momento, Brian si ritrasformò in Synyster. Poi tornò Brian, da me.
“Quindi in questa crisi ci siamo entrati in due, e ne sto uscendo da solo. Lei frigna, o rinfaccia, o, peggio, frigna e rinfaccia insieme. È convinta che io l'abbia tradita in tutti i modi.”
“Beh, è vero.”
“Sì, però tu hai detto che lei sapeva chi stava sposando.”
“Appunto.”, osservai, pensierosa, “Io non credo che me la prenderei se The Rev mi tradisse.”
Mi lanciò un'occhiata sorpresa.
“Se mi tradisse Jimmy, invece”, continuai, “Penso mi farebbe molto male. Così tanto che preferisco non pensarci.”
“Pensi che ci sia differenza tra la rockstar e la persona?”, mi chiese, sinceramente preso.
“Siamo le vostre donne, cerchiamo di pensarlo tutte. Altrimenti, come sopravviveremmo?”
Buttai giù il resto del contenuto del bicchiere e accesi una nuova sigaretta.
“Forse dovresti tentare di essere un attimo più discreto, però.”, aggiunsi.
Brian annuì, serissimo.
“Parleresti con Michelle? Per dirle quello che hai detto a me?”
Lo guardai per un lungo secondo.
“Perché rivuoi indietro Michelle?”
Non rispose, limitandosi a giocherellare con la polpa di granchio che aveva nel piatto.
“Come pensavo.”, dissi, “Senza, non sai stare.”
“Qualcuno deve piegarle, le camicie.”
“Ti sei mai innamorato, Brian?”
Mi guardò, irretito da una domanda che dovevano avergli fatto altre mille volte, ma forse non con quel tono.
“Suppongo di sì.”
“Non è il momento di supporre. La risposta è sì oppure no.”
Silenzio.
“D'accordo. Sai come viviamo, noi cinque qui, mentre voi siete fuori in tour? In un abisso senza fine di compromessi con noi stesse. Ce ne stiamo tutte in una casa, o ci vediamo la sera per bere da bicchieri troppo pieni, e dissimuliamo il modo in cui guardiamo fisse i cellulari aspettando che squillino. Ci distraiamo a vicenda, con una marea di piccoli stratagemmi. È una cosa che richiede molta più forza di quanta qualunque donna abbia a disposizione.”
Mi guardava fisso, esalando volute di fumo grigio.
“Sai perché Zacky e sua moglie si sono lasciati?”
Non rispose.
“Ma certo che lo sai, è inutile che te lo dica io. Secondo me aveva ragione Zacky. Però, pensi che lei non gli abbia vomitato addosso tutto l'elenco degli occhi che ha dovuto chiudere, negli anni, sulle sue amichette, di tutte le notti in cui, ingenua e innamorata, se ne stava sveglia ad occhi spalancati nel buio? Io queste cose le so, anche se quando sono arrivata io lei già non c'era più. Cosa hanno fatto le altre, Brian? Bam, fuori dal gruppo. Senza se e senza ma. Noi esistiamo perché voi esistete, ma appena una di noi sbaglia, o si mette tra voi e i vostri processi creativi – indipendentemente da per quali cosce e per quali continenti questi cosiddetti processi creativi passino – sai benissimo la fine che fa. Viene estromessa. Qualche vago rapporto di cortesia è tutto quel che rimane di quella che prima era una convivenza tra donne che somigliava pericolosamente a una confraternita religiosa. Io frequento gente, Michelle frequenta altra gente e così Lacey: ma noi, tra di noi, non siamo davvero amiche. Soltanto Valary può permettersi il lusso di affezionarsi alle altre, perché Valary non sarà mai quella che se ne va. Mai. Ma tutte noi, noi altre... beh, noi siamo eterne finché duriamo. È uno sforzo immane mantenere una gentile distanza emotiva le une dalle altre quando nei fatti viviamo così a stretto contatto, ma è necessario. Non possiamo consentirci di essere veramente amiche perché siamo innanzitutto e soprattutto le vostre donne, e se una di noi vi fa un torto non deve poter contare sull'appoggio delle altre in nessun caso. Perché siamo leali prima di tutto a voi. Capisci quello che sto dicendo?”
Brian annuì, serissimo e concentrato: “In parte.”
“Vuoi un esempio pratico?”, gli dissi, decisa, “Il matrimonio di Matt e Valary. Chi erano i testimoni di Matt?”
“Noi quattro, ma...”
“Esatto. E chi erano, invece, le damigelle di Valary?”
Tacque, guardandomi.
“Tutte le vostre ragazze erano lì, ma l'unica a fare da damigella è stata la tua. Michelle. Sua sorella. Capisci, ora?”
Presi un lungo sorso di vino e accesi una Marlboro delle sue, troppo forti per i miei polmoni.
“Noi non siamo voi al femminile. Noi siamo braccia meccaniche, vostre estensioni: possiamo staccarci, non facciamo parte del quadro organico. Non è bene che entriamo troppo nelle rispettive vite, che acquistiamo troppa importanza l'una per l'altra, perché tutte sappiamo che siamo sostituibili. Tutte, tranne Valary, che è il grembo in cui gli Avenged Sevenfold sono nati. E non sai la cazzo di fatica che ci vuole, per tenere tutto insieme e per farlo sembrare naturale. Per cui, non sottovalutare gli sforzi di Michelle. Barcolleremo anche sui tacchi, di tanto in tanto, e staremo a scambiarci consigli sui capelli e a guardarci a vicenda i gioielli che ci regalate, e certo non abbiamo tutte dei quozienti intellettivi superiori a 140, ma non pensare, neanche per un momento, che siamo delle stupide, Brian. Non pensarlo di tua moglie, soprattutto. Il genere di donna che di solito sta con uomini come voi è la donna cretina, te lo concedo, anche perché è l'unica categoria femminile che non si accorge mai di niente. Ma voi non volete le cretine, come compagne di vita: volete le donne con le palle. Donne da cui tornare che sappiano aprirvi le braccia e le gambe e farvi essere contenti di essere a casa. E le avete. Indi per cui, non ti lamentare.”
Brian mi fissò in silenzio per venti secondi buoni.
“Cristo santo, Lidia.”, disse infine, con grande tranquillità.
Sorrisi e versai di nuovo il vino nei calici. Avevamo finito la bottiglia. Fece un cenno vago al cameriere, senza smettere di guardarmi, perché ne portasse un'altra.
“Per quanto riguarda invece la domanda che mi hai fatto prima in macchina, quella del tatuaggio sull'anulare...”
“Io non intendevo-”
“Gli ho chiesto io di non farselo togliere.”
Mi offrì una sigaretta con un misto di sorpresa e curiosità.
“Come mai?”
“Perché non ho bisogno di fingere che il passato non sia mai esistito, per vedere un futuro con lui.”
Accennò una risata, soddisfatto.
“Cosa faccio con Michelle?”, mi chiese poi.
“Chiamala. Portala qui a cena, prendile qualcosa di bello. Dille che tieni a lei, che è vero. Vorrebbe sentirsi dire che la ami più della tua vita, ma è sopravvissuta tutti questi anni anche senza che tu glielo dicessi, dunque può farne a meno. Dille che ti manca, perché è vero anche questo. E che non c'è nessuno che ti pieghi le camicie. Tornerà.”
“E se non lo facesse?”
“Lo farà.”
Mezz'ora, due bottiglie di vino e un dolce gelatinoso dopo, ci rimettemmo in macchina per tornare a casa.
“Brian.”
“Sì?”
“Questa conversazione tra noi sulle signore Sevenfold non è mai avvenuta.”
“Quale conversazione?”
“Esatto.”
La notte inghiottì noi e la Mustang. L'aria era diversa, più serena, leggera.
“Brian.”
“Che c'è.”
“Non parlarne neanche agli altri, se non ti dispiace. Quello che ti ho detto, nel caso non te ne fossi accorto, fa parte della politica don't ask don't tell su cui si regge il nostro pericolante ecosistema. Le cose che si sanno ma non si dicono, per amor di quiete.”
Rise, il deficiente.
“Non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di farne parola. Anche perché dovrei spiegare perché ho avuto bisogno che tu mi facessi il discorsetto.”

 

 

Uno stormo di cornacchie

 

 

Jimmy era sveglio; leggeva il mio Grandi Speranze con le gambe stese sul divano. Alzò gli occhi quando mi vide entrare, e mi venne incontro.
“Com'è andata?”, mi chiese. Colsi una punta di agitazione e gli sorrisi, maliziosa.
“Non avevi detto che eri sicuro che non c'entrasse nulla con un'eventuale attrazione per me, il problema di Brian?”
“Certo che lo avevo detto.”, mi rispose, vagamente risentito.
Attesi.
“Ed era vero?”, aggiunse. Il mio sorriso si allargò a dismisura.
“Amore... sei stato qui preoccupato tutta la sera che il tuo migliore amico mi facesse proposte indecenti?”
Mi guardò male, e mi abbracciò stretta. Così stretta che quasi non respiravo.
“Fai poco la sfacciata, ragazzina.”
Gli diedi un bacio dolce, lungo, a labbra chiuse.
“Non voleva ammettere di aver bisogno di un parere femminile, e che io, come essere umano, tutto sommato gli sono anche simpatica. Voleva aiuto con Michelle.”
“Allora avevo ragione.”
“Tu hai sempre ragione, James.”
Mi sollevò tra le braccia come se fossi senza peso. “Mi piace il modo in cui dici il mio nome...”, sussurrò, con il viso a un centimetro dal mio.
“Davvero, James?”
Il suo bacio non aveva niente a che vedere con la casta angolazione del mio.
“Non vuoi che ti racconti?”, dissi, quando finalmente si decise a rimettermi a terra.
“Dipende. Sono cose che si possono raccontare?”
Ci pensai su. “Vediamo... un ragionamento piuttosto lungo sulle donne. Le vostre donne, nello specifico. Noi.”
“Allora no, grazie, non voglio sentire.”
“E sul coefficiente sopportazione delle corna.”
“Oh, Signore.”
Sedemmo sui due divani. Rilassai la schiena e lo guardai, divertita.
“Tu mi fai le corna?”
Allargò le gambe e accese quel sigaro pestilenziale, guardandomi teneramente con aria di sfida.
“Perché, hai mal di testa?”
Mi sfilai una ballerina e poi l'altra, ridendo.
“Me le fai o no?”
Mi studiò per un lungo secondo.
“No.”, disse, “E tu?”
“Certo che sì. Come facevo, altrimenti, a diventare assistente del professore appena laureata?”
“Ma non era gay, quel professore?”
“Che c'entra. I gay mi adorano.”
Mi alzai dal divano per andarmi a sedere a cavalcioni su di lui, che ancora non si toglieva quell'aria saccente dal viso.
“Pensi che i tradimenti abbiano inciso su questa situazione di Brian e Michelle?”
“Vuoi la risposta perbenista, o vuoi sapere quello che penso davvero?”
Mi sorrise.
“Come ho detto anche a Brian, Michelle sapeva chi stava sposando.”
“Ottima risposta. Non so quanto sia tollerabile, però.”
“Se io ti tradissi riusciresti a tollerarlo?”
“No.”
“Bene. Meno male. Non vorrei mai stare con un uomo che riuscirebbe a superare una cosa del genere.”
La sua mano salì su per la mia gamba, fino a fermarsi su un fianco.
“Sei strana forte.”, disse soltanto, alzando gli occhi dentro i miei.

 

Nick, tua figlia si è fidanzata con un satanista.”
Il padre di Belle scoppiò a ridere; sentì chiaramente il timbro caldo, affettuoso della sua risata valicare la cornetta del telefono da una breve distanza. A occhio e croce, si trovava negli immediati paraggi di sua madre che scorreva le fotografie allegate alla mail.
“Senti, Lidia, questo Jack-”
“James.”
“Questo James. Lui ti piace?”
“Beh, siamo fidanzati quindi dedurrai da te che, sì, un po' almeno deve piacermi.”
“No, intendevo un'altra cosa.”
Belle tacque, in attesa che sua madre desse seguito al pensiero. Certo, si era aspettata qualcosa di molto diverso dalla telefonata che aveva seguito la mail con le foto delle nozze di diamante degli altrui nonni. Qualcosa di più melodrammatico, forse. Qualcosa di più cruento. Uno svenimento, una serie di urla, forse anche un paio di infarti a distanza ravvicinata. Sua madre e suo padre erano una continua sorpresa, per Belle. Nel senso migliore del termine.
“Volevo sapere se ti piace
umanamente. Ti ascolta? Si interessa a te? Ti chiede di cosa fai? Ti difende?”
Belle sorrise.
“Tiene molto a me. In tutti i sensi. Il fatto che abbia qualche anno più di me si aggiunge al bene che mi vuole, credo, ed è molto protettivo nei miei confronti. Cerca sempre di evitare che io mi faccia male.”
“E non ce la fa.”
“Certo che non ce la fa. Sai come sono fatta. Non è mica magico. Però, ce la mette davvero tutta.”
“Bene.”
Seguì una breve pausa.
“E a letto tutto bene?”
“Prego?”
“Il sesso”, ripeté sua madre, “Come va?”
“Mamma!”
“Sì?”
“Fai sul serio?”
“Sono tua madre.”, ribatté quella, un po' sulla difensiva, “E' una cosa importante.”
“Senz'altro, ma è una domanda imbarazzante.”
L'aristocrazia europea si stava emancipando, o forse i suoi genitori erano sempre stati così. Proprio quando meno se lo aspettava, Belle li trovava dalla sua parte. Una continua, adorata sorpresa. Sua madre attese, con la pazienza che hanno solo le madri.
“A letto va bene.”
Bene alla tua età mi sembra un po' poco.”
“E' straordinario.”
La sentì sorridere, oltre l'oceano.
“Lo fate spesso?”
“Molto spesso.”
“Meno male. Non ti nascondo che, quando mi hai detto che andava
bene un po' mi sono preoccupata. Quando ce lo presenti?”
“Non lo so, siamo dall'altra parte del mondo.”
Sua madre tacque.
“Mamma? Sei lì?”
“Sì, scusa. Guardavo questa foto qui, dove sei in braccio a lui sull'altalena. Si vede che ti ama moltissimo.”
A Belle si gelò il sangue.
“Mamma. Quello è Brian.”
Sua madre si sincerò di quanto stava guardando.
“Ah, è vero. Scusa, ho sbagliato fotografia. Volevo dire questa qui, questa qui in sul dondolo.”
Belle non sapeva cosa dire.
“Mi piace molto, James.”, disse la signora, “Ha gli occhi buoni. E ti ama davvero.”
“Sì.”
Silenzio.
“Come hai detto che era quel nome? Quel nome religioso? The Re... The Reverend...”
“The Reverend Tholomew Plague.”, soffiò Belle, con un sorriso. Sua madre scoppiò a ridere.
“Singolare, non c'è che dire. È lì?”
Belle gettò uno sguardo intorno a sé. Jimmy era fermo alla finestra con in mano una tazza di qualcosa che emanava un denso fumo.
“Sì, è qui.”, rispose.
Lui si girò impercettibilmente, sollevando la tazza a mo' di saluto.
“Me lo passeresti?”
Belle gli tese il cordless, guardandolo con l'ombra di un sorriso. “E' per te.”, disse. Jimmy si voltò, interrogativo. “E' mia madre.”
Lo vide vacillare appena un secondo e poi subito prendere il telefono.
“Pronto?”
“James?”
“Buonasera, signora.”
Belle non l'avrebbe mai detto, ma gli sentiva una punta di soggezione nella voce.
“Buonasera a te. Non avevo mai sentito mia figlia così, prima d'ora.”
“Così come?”
“Innamorata, James.”
Jimmy sorrise, gettando uno sguardo a Belle che ardeva dalla curiosità, accucciata sul divano.
“Per me è lo stesso, signora.”
“James?”
“Sì?”
“Niente signora. Mi chiamo Therese.”

 

“Tua madre è simpatica.”
“Ogni tanto.”
Scorrevo, alla rinfusa, una serie di slides di neuropsichiatria stampate in dipartimento quella mattina. Il trillo del campanello, piacevole come essere svegliati da uno stormo di cornacchie durante il primo sonno, mi fece, come al solito, saltare. Lui no. Lui, impassibile, andò ad aprire la porta quasi inciampando nei pantaloni della tuta che gli cadevano troppo in basso sui fianchi.
“Bellezza.”
“Ciao, sexy.”
Era Brian.
“Ehm.”
E Michelle.
“Permesso?”
E Valary.
“Amore, ti potresti scans-”
E Matt.
Amori, vi levate tutti quanti da davanti alle mie palle?”
E Zacky.

Alzai lo sguardo sul gruppo di persone assiepate sul mio zerbino.
“Che fate, entrate?”, chiesi, contenta di vederli. Abbracciai Brian in un modo troppo personale e assolutamente troppo affettuoso per quelli che erano gli standard conosciuti, precipitando tutti in un silenzio interdetto.
“Secondo me fra quei due c'è qualcosa.”, sentii Zacky dire a Jimmy, con una punta di ironia.
Io pensavo ai miei genitori, alla loro reazione a Jimmy e alla maniera del tutto naturale in cui riuscivano ad essere sempre, per me, un'assoluta sorpresa. Anche l'uomo che mi stava tra le braccia era così. Inspirai l'odore di Brian perché ho un po' questa fissa qui per il profumo delle persone a cui tengo. Gli volevo bene, davvero, anche perché non c'era nulla che Jimmy amava che io riuscissi a non amare a mia volta.
“Fatemi sedere.”, disse Michelle, per nulla preoccupata di noi due, “Ho piegato cinquemila camicie, stamattina.”
Brian sorrise contro il mio collo, ed io contro il suo.



 

Una donna innamorata è capace di tutto.
Esattamente come una che non lo è.
- R.G.






 

 

 

   
 
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