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Autore: LaniePaciock    16/10/2014    6 recensioni
Torniamo indietro nel tempo e spostiamoci di luogo: 1943, Berlino, Germania. Una storia diversa, ma forse simile ad altre. Un giovane colonnello, una ragazza in cerca della madre, un leale maggiore, una moglie combattiva, una cameriera silenziosa, una famiglia in fuga e un tipografo coraggioso. Cosa fa incrociare la vita di tutte queste persone? La Seconda Guerra Mondiale. E la voglia di ricominciare a vivere.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Cap.24 Come un cane davanti a un cancello
 

In quel momento qualcosa, che prima non aveva notato, attirò l’attenzione di Castle. Aggrottando le sopracciglia, guardò meglio. E raggelò sul posto. In spalla al mucchio di stracci, c’era il suo vecchio zaino.
“Semir…” mormorò Rick senza fiato. Per un attimo rimase paralizzato, traumatizzato, mentre la brutale verità davanti a lui si faceva strada nella sua coscienza. Il suo addestramento di soldato e la sua esperienza gli fecero registrare in pochi secondi, quasi senza rendersene conto, le molte ferite visibili riportate dal ragazzo. Era certo però, dalla posizione rannicchiata in cui stava, che quelle sul viso non fossero le uniche. Da sotto lo sporco si intravedevano, oltre gli occhi gonfi, dei lividi e dei tagli. Il suo primo pensiero fu che gli fosse crollato qualcosa addosso, ma non poteva essere quello. O almeno, non solo quello. Sulla guancia dell’adolescente infatti, intravide due tagli che andavano a formare una croce rossa. Era impossibile che fossero casuali. Anzi erano netti e razionali. Erano voluti.
Non appena quel pensiero gli si affacciò in testa, la rabbia prese il posto dello shock. Chi lo aveva conciato in quel modo?? E perché poi? Semir era solo un ragazzino! Aveva a malapena sedici anni! Qualunque cosa avesse fatto, non sarebbe stato mai abbastanza per meritarsi una simile punizione.
Cacciando via, per il momento, ogni istinto omicida, Castle si affrettò a spalancare la porta per trascinare dentro Semir. Il ragazzo gemette forte quando lui lo tirò su di peso dall’angolo di pavimento gelido in cui si era accasciato, così si limitò ad adagiarlo nel corridoio caldo. Non voleva muoverlo troppo per paura di procurargli ulteriori dolori.
“KATE!!” chiamò subito Rick. Si accorse lui stesso di avere una nota terrorizzata nella voce. Beckett lo raggiunse immediatamente dalla camera da letto, ma appena vide Semir a terra si bloccò in mezzo al corridoio. Le mani le volarono subito davanti alla bocca, in un gesto di orrore, gli occhi sgranati. “Chiama immediatamente Lanie!” le urlò Castle perché si riprendesse velocemente dal trauma. Kate voltò gli occhi verso di lui e lo osservò pallida e spaventata. Rick prese un respiro profondo prima di parlare di nuovo. Non voleva mettere in ulteriore agitazione la donna e lui aveva assolutamente bisogno di calmarsi per poter pensare a mente lucida. “Chiama dai Ryan e digli che abbiamo bisogno dell’aiuto di Lanie subito.” ripeté il colonnello con voce più ferma e bassa. Beckett annuì e corse al telefono del salone. “Resisti, Semir.” mormorò poi Castle al ragazzo, posandogli delicatamente una mano sui capelli.
L’adolescente giaceva a terra davanti a lui, nel suo mucchio di stracci sporchi e strappati. Rick non si azzardò a muoverlo ulteriormente, neppure per togliergli lo zaino che ancora aveva ben saldo sulle spalle. Lanciando un’occhiata alla sacca, notò che era più lacera di quando l’aveva lasciata e in più era vuota.
In quel momento il colonnello sentì la voce di Kate dal salone parlare velocemente al telefono. Si mosse nervoso e attese inginocchiato che lei finisse di chiamare prima di prendere in braccio il ragazzo. Non aveva altre alternative per portarlo dai Ryan, anche se aveva paura di aggravargli la situazione. Lanie gli aveva dato qualche lezione di primo soccorso e una delle prime regole era quella di non muovere il paziente finché non sai che è sicuro. Il problema era che non poteva perdere tempo a scoprirlo. Però se Semir era arrivato a piedi fino a casa sua da chissà dove, allora forse sarebbe potuto stare abbastanza tranquillo.
Il ragazzo respirava faticosamente rannicchiato a terra, quasi rantolando, lanciando di tanto in tanto lievi gemiti e lamenti dolorosi. Dagli occhi gonfi, uscirono delle goccioline d’acqua che andarono a tracciare dei lievi solchi chiari attraverso lo sporco della sua faccia. Stava piangendo. Castle cercò di tranquillizzarlo parlandogli piano, come gli aveva insegnato Lanie, ma più di quello, più che dirgli che ora era al sicuro e che presto sarebbe stato bene, non sapeva che fare.
L’unica cosa positiva, se si poteva definire così in quel momento, era il fatto che Semir fosse sveglio. Ogni due o tre respiri cercava di parlare, ma Rick non capiva cosa gli stesse dicendo. Continuava a ripete ossessivamente due parole (‘assle’ e ‘ongoei’) di cui non riusciva ad afferrare il senso. Ci mise qualche secondo prima di notare che il ragazzo aveva la mandibola in una strana posizione. Doveva essere slogata, se non rotta.
All’improvviso Semir si mosse come per allungare una mano verso di lui, ma una fitta di dolore lo fece raggomitolare immediatamente su sé stesso, lanciando un lamento forte e penoso. Castle cercò ancora una volta di calmarlo, ma pareva impossibile bloccare i singhiozzi dolorosi e spaventati del ragazzo.
“Kate!” chiamò Rick con tono urgente. Quanto ci stava mettendo a chiamare? Un minuto? Un’ora? In quel momento però fu distratto da un particolare. Il maglione di Semir si era un po’ alzato nel fare quel movimento brusco e il colonnello vide sul suo fianco dei grossi lividi violacei. Pareva non ci fosse spazio per la pelle chiara del ragazzo. Solo diverse gradazioni di viola, in forme tutte circolari e della dimensione di un pugno. Per un attimo Rick rimase paralizzato e insieme nauseato. Lì, crolli e bombe non c’entravano nulla. Lì, l’unica cosa certa ormai era che lo avevano quasi ammazzato di botte. Gli riabbassò la maglia con la mano tremante dalla rabbia. Per un secondo ebbe paura di scoprire gli altri segni che poteva nascondere quel piccolo corpo davanti a lui.
Quella scoperta fu un pugno nello stomaco. Desiderò avere davanti chiunque fosse il responsabile di quello scempio per farlo soffrire come un animale e poi ammazzarlo. Furono i passi veloci di Kate in corridoio a distoglierlo dai suoi pensieri. Beckett era ancora pallida, ma pareva aver ripreso il controllo della situazione.
“Ci stanno aspettando.” disse subito, non appena incontrò i suoi occhi. Castle annuì, quindi, con delicatezza, passò le braccia sotto la schiena e le gambe del ragazzo e lo sollevò. A quello sforzo, la spalla gli lanciò una fitta di avvertimento, ma lui quasi non la percepì. Sentiva solo il tiepido calore di Semir e i suoi respiri faticosi. Con l’aiuto di Kate, il colonnello trasportò l’adolescente fino alla sua auto, parcheggiata a pochi passi da casa, e lo coricò sui sedili posteriori. La donna si infilò nel retro dell’auto con lui, posandogli la testa sulle sue gambe per farlo stare un poco più comodo e per continuare a confortarlo. Rick intanto corse di nuovo in casa, afferrò il giaccone, le chiavi dell’auto e di casa al volo, si chiuse la porta d’ingresso alle spalle con un tonfo. Quindi si catapultò sul sedile del guidatore e ingranò la marcia per partire. Per fortuna erano solo pochi minuti per arrivare dai Ryan, solo che con la neve, non ben spalata dalle strade, Castle dovette tenere il doppio dell’attenzione e andare più piano di quanto avrebbe voluto. Evitò di schiacciare troppo l’acceleratore in modo da non dare scossoni a Semir, ma quel breve ritardo gli parve un’eternità.
“Non farlo addormentare!” ordinò nervoso a Kate senza distogliere gli occhi dalla strada. Lei si limitò ad annuire, come lui vide dallo specchietto retrovisore. Beckett stava già parlando al ragazzo con una voce bassa e rassicurante, carezzandogli insieme dolcemente i capelli.
“Andrà tutto bene.” la sentì mormorare, anche se con un lieve tremito nel tono. “Lanie ti sistemerà in un batter d’occhio, vedrai. Però tu devi stare sveglio, altrimenti come puoi vedere la magia che farà?” La risposta di Semir fu solo un lieve gemito.  
 
Poco meno di dieci minuti dopo, Castle parcheggiò in fretta e male l’auto davanti a casa di Ryan. Kevin doveva averli aspettati dietro la porta perché, non appena il colonnello spense il motore, uscì per venirgli incontro.
“Come sta Semir?” chiese immediatamente il maggiore, preoccupato.
“Non bene.” rispose Rick serio, affrettandosi a uscire dalla macchina. Aprì lo sportello posteriore dell’auto e, aiutato da Kate e Kevin, tirò fuori il ragazzo. I due uomini quindi trasportarono Semir dentro l’appartamento, seguiti a ruota da Beckett. Il calore della casa li investì bruscamente in contrasto con il freddo dell’esterno. Non appena la donna ebbe chiuso la porta d’ingresso dietro di loro, Ryan non perse tempo a chiamare aiuto.
“Lanie!!” esclamò. Immediatamente la signora Esposito apparve nel corridoio dal salone. Non conoscendo Semir, ebbe una reazione meno di forte di quella provata da loro tre. Per lei era solo un paziente che necessitava cure immediate ed era quello a renderla così distaccata e professionale. Comunque non riuscì a reprimere una smorfia d’orrore quando vide il ragazzo. In fondo era solo qualche anno più grande di suo figlio.
“Portatelo subito in salone.” ordinò loro. Quindi si voltò indietro nel corridoio, dove erano appena spuntate la Gates e la signora Ryan. “Victoria, Jenny, liberate il tavolo e metteteci due tovaglie spesse. Non sarà un letto, ma ho bisogno di un posto illuminato. Lo sposteremo dopo.” si spiegò velocemente mentre Rick e Kevin trasportavano il ferito. La Gates lanciò un’occhiata addolorata verso Semir e Jenny si portò una mano alla bocca, sgomenta, per un momento, ma poi entrambe fecero come Lanie aveva detto. In un attimo spostarono i pochi oggetti sul tavolo, quindi la cameriera tirò fuori da un cassetto due tovaglie bianche e spesse e le due donne insieme le posiziono sul tavolo. Aggiunsero anche una terza tovaglia arrotolata come cuscino.
“Si riprenderà, vero?” chiese Ryan ansioso non appena lui e Rick ebbero posato il ragazzo su quel giaciglio improvvisato. Semir aveva gli occhi chiusi e respirava più lentamente, probabilmente era svenuto.
“Potrebbe essere solo stordito o avere lesioni interne.” rispose Lanie sbrigativa. “Non lo saprò finché non lo avrò visitato, quindi ora fuori.” dichiarò seria, indicandogli di allontanarsi dal salone. “Javier,” chiamò poi, voltandosi verso il marito, poco lontano da loro. “Prendi Leandro e portalo via insieme a Rick e Kevin. Victoria, Jenny, Kate, avrò bisogno invece della vostra assistenza. Ci serviranno tanta acqua, spugne, ogni tipo di benda che riusciate a trovare, delle stecche in caso abbia qualche arto rotto, forbici, ago e filo. Prendete anche il Kit di Pronto Soccorso, dovrebbe avere altri strumenti che ci potrebbero servire.” Le tre donne annuirono e subito si misero alla ricerca del necessario.
“Jenny, forse tu non…” cercò di dire Ryan, ma la moglie gli prestò appena attenzione. Gli fece un gesto con la mano per chiedergli di lasciarla stare e lo superò per andare a cercare gli oggetti elencati da Lanie. Nonostante la gravidanza, la signora Ryan aveva energie da vendere. Neanche lei conosceva Semir, ma Rick era consapevole l’indole della donna: non poteva restare ferma quando qualcuno accanto a lei soffriva. Inoltre non sapeva restare con le mani in mano. Voleva aiutare.
Castle sospirò. Osservò Kate passargli davanti in fretta per andare a cercare chissà cosa, mentre la signora Esposito si dava già da fare per togliere gli strati di vestiti sul ragazzo. Non c’era altro da fare. Dovevano solo affidarsi a Lanie e aspettare.
“Se avete bisogno di qualcosa, chiamate.” disse solo, anche se non fu tanto sicuro che una qualsiasi delle donne l’avesse ascoltato. Scosse la testa, sentendosi all’improvviso stanco e infreddolito, nonostante la temperatura della casa. In quel momento sentì una mano poggiarsi sul braccio.
“Andiamo.” mormorò Javier, facendogli un cenno con la testa verso le scale per il piano di sopra. L’uomo teneva in braccio Leandro, che continuava a lanciare occhiate curiose e preoccupate verso il tavolo da pranzo. Castle annuì e si avviò alle scale, mentre Esposito faceva lo stesso gesto a Ryan per sbloccarlo. Salirono tutti e quattro in silenzio in una triste processione. Una volta in cima alle scale però, non entrarono in nessuna camera. Era come se entrare e chiudersi una porta dietro le spalle li avrebbe esclusi dal dramma del piano di sotto. Così si fermarono lì, dove le voci delle loro donne arrivavano ovattate insieme al rumore di strumenti metallici e tessuti strappati. Ryan si accasciò sull’ultimo gradino, la testa fra le mani. Esposito si sedette a terra con la schiena al muro, di fronte alle scale, con Leandro tra le gambe. Rick invece, dopo essersi tolto il giaccone che ancora indossava e averlo buttato in un angolo, si appoggiò alla parete di lato alle scale, gambe aperte e ginocchia alzate con le mani intrecciate su di esse.
Si accorse solo in quel momento di avere le mani sporche di polvere e sangue. Abbassando lo sguardo, vide che anche i suoi pantaloni e la maglia, nei punti non coperti dalla giacca e che avevano toccato Semir, erano macchiati. Automaticamente si rialzò in piedi. Javier e Leo gli lanciarono un’occhiata perplessa, mentre Kevin non si mosse. Forse non lo aveva neanche sentito. Castle arrivò al bagno e, senza pensare neanche a chiudere la porta, aprì l’acqua e iniziò a sciacquarsi meticolosamente le mani con la saponetta bianca lì accanto. Dopo qualche secondo si bloccò. Aveva già vissuto quel momento e più di una volta. Quando la madre di Kate, Johanna, era morta. Era stato giorni con in testa il sangue della donna sulle sue mani. Le lavava con forza, ma gli pareva che il rosso restasse sempre. Quei momenti di crisi erano passati, per quanto strano potesse sembrare, proprio con l’arrivo di Kate. E ora vedeva ancora rosso sulle sue mani.
In modo ossessivo, pulì ogni centimetro della sua pelle, finché ogni traccia di sporco non fu lavata. Quindi si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, si asciugò e tornò dagli altri, dove riprese il suo posto a terra. Ryan era ancora immobile mentre Esposito lo osservava in un misto di curiosità a preoccupazione mentre stringeva a sé Leandro.
 
Rimasero in quella posizione per un tempo indefinito. Sarebbe potuta passare un’ora come un giorno per quanto ne sapevano. Castle non ci avrebbe fatto nemmeno caso se non fosse stato per il lento movimento di una sottile lama di luce sul pavimento che penetrava da una finestra della camera accanto a loro. Man mano che il sole si spostava nel cielo, il piccolo raggio si muoveva inesorabile, allontanandosi da loro. Rick lo osservò a lungo mentre i rumori concitati del piano di sotto passavano fievoli alle sue orecchie. Si sentiva inutile. Totalmente.
Sospirò piano e inclinò la testa all’indietro, poggiando il capo contro la parete. Poi lanciò un’occhiata a Ryan. Il maggiore non si era ancora mosso dalla sua posizione: la testa era sempre appoggiata alle mani, le dita strette tra i capelli, lo sguardo perso chissà dove sullo scalino sotto di lui. Kevin si era affezionato molto a Semir, nonostante lo avessero incontrato solo in sporadiche occasioni. Il ragazzo però, come Rick aveva già notato per Kate, sapeva farsi voler bene. Era sveglio, simpatico, dalla lingua pronta e ci metteva poco a fare amicizia con chiunque. Quel pensiero rabbuiò di nuovo Castle, che aggrottò le sopracciglia: chi diavolo poteva avergli voluto così male da ridurlo in quel modo? Tralasciando Montgomery e loro, in realtà Semir non aveva molte conoscenze per la sua stessa sicurezza. Forse si era inimicato qualcuno di pericoloso nell’ultimo periodo, qualcuno che non avrebbe dovuto frequentare. Si appuntò mentalmente di chiedere chiarimenti a Roy. Avrebbe cercato lo stampatore non appena Lanie avesse finito con Semir.
Però… però c’era anche un’alternativa. Una peggiore di un regolamento di conti. E se avessero torchiato Semir per arrivare a Montgomery? Allora lui come stava? Sapevano dove trovarlo? Sapevano come arrivare a lui? Il ragazzo aveva parlato o aveva taciuto? Roy era vivo o morto? Più ci pensava e più gli pareva che quella, per quanto impossibile, visto quanta attenzione avevano sempre prestato, fosse la verità. Ma allora a quel punto, quanto erano anche vicini ad arrivare a loro? Era il caso di far spostare gli Esposito? E Semir?
Castle si passò una mano tra i capelli mentre un principio di mal di testa iniziava a pulsargli nelle tempie. Decise di mettere da parte per un secondo quei pensieri sempre più negativi e paranoici per concentrarsi sul presente. La prima cosa da fare, una volta stabilizzate le condizioni di Semir, era parlare con il ragazzo, se possibile, e chiamare Montgomery. A quel punto avrebbero deciso cosa fare.
Sospirò e si mosse leggermente per trovare una posizione un poco più comoda. Quindi lo sguardo gli cadde su Leandro abbracciato a Javier. Nessuno dei due aveva mai incontrato l’adolescente ferito al piano di sotto, però Kevin gliene aveva parlato ed entrambi erano rimasti piuttosto scossi da quella visione. Leo soprattutto cercava di fare l’ometto coraggioso, ma i suoi occhi dicevano chiaramente quanto in realtà fosse spaurito e lo stesso dicevano le sue mani strette sulla camicia del padre. Nonostante tutto, forse non aveva mai visto un ragazzino conciato in quel modo. Esposito gli sussurrava di tanto in tanto qualche parola dolce per tranquillizzarlo mentre gli carezzava i capelli riccioluti. L’uomo era calmo e la sua voce bassa infondeva sicurezza, ma la piega storta della sua bocca, nei momenti in cui non sorrideva al figlio, faceva in realtà intuire la sua preoccupazione.
“Perché lo hanno ridotto così?” mormorò all’improvviso Kevin, rompendo il silenzio e dando voce al pensiero di tutti. “Ho visto dei tagli sul suo volto che…” Non riuscì a continuare. “Insomma perché?”
“Se non si è cacciato nei guai, l’unica motivazione che mi viene in mente è Montgomery.” rispose cupo Rick.
“Potrebbero averlo seguito fino a dove erano nascosti.” disse Javier annuendo piano, pensieroso. Kevin scosse la testa e per la prima volta si voltò verso di loro.
“Non può essere!” esclamò, ma nella sua stessa voce c’era una nota di esitazione. “Semir era sempre molto cauto. Controllava sempre che nessuno gli fosse alle calcagna e faceva sempre strade diverse.”
“Magari allora il suo comportamento può aver insospettito qualcuno.” commentò Esposito. Ryan storse la bocca, come se non volesse crederci. Quindi si rivolse di nuovo a Rick.
“Può essere successo qualcosa anche a Roy, secondo te?” domandò nervoso. Il colonnello scosse la testa e abbassò lo sguardo.
“Non lo so.” Poteva essere successo di tutto e finché non parlavano con Semir o con Montgomery non potevano essere certi di nulla.
In quel momento sentirono dei passi muoversi nella loro direzione. Alzarono tutti la testa, attenti, e qualche secondo dopo spuntò Kate ai piedi delle scale. La donna salì qualche gradino, ma poi si bloccò quando, sollevando gli occhi, si ritrovò tutti gli uomini che la fissavano dalla cima delle scale.
“Che fate seduti per terra?” chiese stupita.
“Aspettavamo.” rispose per tutti Castle, alzandosi lentamente in piedi. I suoi muscoli protestarono per la forzata immobilità e il pavimento scomodo. “Come sta Semir?” domandò poi. Poteva vedere i segni della stanchezza sul volto di Kate, oltre che delle macchie di sangue sul vestito che dovevano appartenere a Semir. Però una cosa che lo confortò fu che pareva tranquilla.
“Si riprenderà.” replicò con un mezzo sorriso. Un sospiro sollevato generale accolse quelle parole. “Potete scendere ora se volete.” continuò poi Beckett. “Al momento sta dormendo, ma era parecchio stanco quindi c’è poco pericolo di svegliarlo.” Il colonnello fece una smorfia.
“Non posso parlargli, vero?” chiese titubante mentre gli altri si alzavano da terra. Kate negò con il capo.
“Lanie ha detto che non è il caso di risvegliarlo per ora. Sembrava molto provato e ha bisogno di riprendere le forze.” spiegò lei. “Domattina potrete parlargli.” Rick annuì rassegnato.
“Vorrà dire che prima tenteremo con Montgomery.” disse Ryan. “E speriamo che risponda.” A quel punto gli uomini scesero le scale per il piano di sotto. Prima che potesse allontanarsi in corridoio però, Rick prese Kate per un braccio e la tirò leggermente di lato, in modo da restare indietro e rimanere un momento da soli. Kevin si voltò a controllare perché non arrivassero, ma vedendo la faccia dell’amico non commentò.
“Inizio a fare quella telefonata.” disse solo e sparì in salone con Javier e Leandro. Castle e Beckett rimasero ai piedi della scala, accanto alla porta d’ingresso. Doveva esserci qualche infiltrazione dalla porta, perché c’era un filo d’aria gelida dell’esterno che gli fece venire la pelle d’oca.
“Come stai?” chiese alla fine il colonnello, carezzandole lievemente il viso. Beckett gli sorrise tristemente.
“Lo avevo incontrato solo qualche giorno fa, ma mi stava simpatico.” mormorò in risposta, lanciando un’occhiata al fondo del corridoio dove c’era il salone con Semir addormentato. “Quando l’ho visto stamattina in quello stato, io…” Non finì la frase perché le parole le morirono in gola, sostituite da un piccolo singhiozzo.
“Ssh, va tutto bene, Kate.” le sussurrò piano, abbracciandola e baciandole la testa. Lei si accoccolò contro il suo petto, il respiro irregolare. “Si riprenderà. E’ un ragazzino in gamba e forte, starà meglio.”
“Quei segni…” sentì mormorare Beckett con tono inorridito e furioso insieme. “Quei segni non gli andranno mai via…” Non sapendo che dire, Castle la strinse più forte a sé, poggiando il mento sulla sua testa mentre le parole di lei lo colpivano come un pugno allo stomaco. I segni non sarebbero mai andati via dal corpo di Semir. Sarebbe rimasto sfregiato per sempre. Però quel ‘quei segni’… Lui aveva visto i lividi sul suo fianco e in faccia e i tagli sulle guance, ma solo questi ultimi sarebbero rimasti a lungo. Possibile che ci fosse altro?
“Cosa… cosa gli hanno fatto?” si costrinse a chiedere Rick. Kate ci mise qualche secondo prima di rispondere, il respiro ancora instabile.
“Secondo Lanie non lo hanno solo picchiato. Lo hanno torturato.” rispose alla fine con un filo di voce e un evidente groppo in gola. Il colonnello si aspettava quella risposta, ma sentirlo da Beckett fu comunque una coltellata. Strinse a pugno le mani sopra il vestito di lei, tanto forte da far sbiancare le nocche. Sentendo il suo irrigidimento, la donna fece per spostarsi da lui, preoccupata. “Forse è meglio se non…” cercò di dire, ma lui la fermò.
“No.” disse serio, riavvicinando Kate al suo corpo e facendo lunghi respiri per calmarsi. Il profumo e il calore di lei lo aiutarono molto in quell’impresa. “Continua. Cosa gli avete trovato?”
“Aveva… aveva lividi ovunque.” proseguì allora Kate in un sussurro contro il suo petto. “Alcuni sono di ieri, ma sono casuali, come se gli fosse caduto qualcosa addosso. Altri però, secondo Lanie, hanno almeno due giorni e sono… sono sistematici.” aggiunse con evidente ribrezzo per quell’azione. “Gli hanno colpito lo stesso punto, più e più volte, ai fianchi, allo stomaco e in faccia. Ci siamo stupite del fatto che sembra non abbia riportato lesioni interne…” Si fermò per un momento per riprendere fiato, quindi continuò. “Poi gli hanno… gli hanno spento almeno quattro o cinque sigarette sulla schiena.” Se prima era riuscita a tenerla sotto controllo, in quel momento la rabbia di Rick tornò più potente di prima. “E infine i tagli. Ha… ha due croci sulle guance e…” Si bloccò, esitante.
“E?” la esortò Castle con una strana voce controllata che faceva in realtà intuire quanto fosse furioso. Beckett però non continuò. Rick allora la scostò piano da sé in modo da poterla guardare negli occhi. La donna si stava mordendo il labbro inferiore e aveva lo sguardo basso. “Kate?” la incitò ancora il colonnello, alzandole delicatamente il mento con due dita perché lo guardasse.
“Con un coltello gli hanno inciso una parola sul petto.” disse alla fine la donna tutto d’un fiato. Castle rimase paralizzato.
“Che parola?” riuscì solo a chiedere a mezza voce. Beckett ci mise qualche attimo prima di rispondere.
Lügner.” disse alla fine. Le mani di Rick sulle braccia della donna si strinsero senza che se ne accorgesse. Lügner in tedesco significava bugiardo.
Castle tremò dalla rabbia e dall’orrore. Però quell’orribile particolare gli accese una lampadina nel cervello. Conosceva l’artefice di quei segni. C’era solo un uomo in tutta Berlino, temuto per la sua brutalità e per la sua vena torturatrice, che era solito scrivere sul petto delle sue vittime la loro colpa, vera o inventata che fosse.
“Stasch Hahn.” sibilò il colonnello a denti stretti.
“Rick!” lo chiamò Kate, posandogli le mani sulle guance perché uscisse dai suoi pensieri omicidi e la guardasse. “Ti prego, sono scossa anch’io da quello che gli ha fatto, ma non andare a farti uccidere…” mormorò, quasi supplicandolo.
“Devo andare a cercarlo.” replicò secco, scostandosi da lei. Non riuscì a guardarla in faccia. “Potrebbe aver preso anche Montgomery. Non lo ucciderò comunque. Non subito almeno…” aggiunse poi lentamente. “Hahn è un mercenario. Uno stronzo che si fa pagare per qualunque lavoro gli venga chiesto di fare. Non è lui che ha deciso di torturare Semir, glielo ha ordinato qualcuno. Tutto sta nel capire chi.” Alzò gli occhi verso il salone. “Magari facendogli provare qualcuno dei suoi medoti…” disse con un mezzo sorriso che era tutto meno che divertito. Era pericoloso. Kate lo guardò a bocca aperta, stupita. Era la prima volta che lo vedeva così, in quello stato.
“Per diventare come lui??” lo interruppe sconcertata. “Tu non sei un mostro, Rick.” continuò poi in tono più calmo, ma terribilmente serio. Il colonnello sbuffò sarcastico.
“Forse semplicemente ancora non conosci tutto di me.” replicò senza pensare in tono velenoso. Si pentì il secondo dopo di averlo fatto, perché Beckett lo guardò sorpresa e delusa.
“Forse allora è stato meglio saperlo adesso piuttosto che da sposati.” disse a mezza voce, gli occhi bassi. Quelle parole furono un pugno nello stomaco che gli fecero sgonfiare la rabbia in un attimo.
“Kate…” cercò di rimediare il colonnello, ma lei lo bloccò con un cenno della mano.
“Fa quel che vuoi, Castle.” dichiarò solo con tono stanco, voltandosi per tornare nel salone. Rick non seppe cosa dire. Guardò Beckett allontanarsi da lui, impotente. Un attimo prima di uscire dal corridoio però, la donna si fermò e voltò la testa all’indietro. “So che vuoi giustizia per Semir. La voglio anche io, ma non è torturando che la otterrai. Una volta che avrai iniziato non riuscirai a fermarti e lo ammazzerai. Questa è vendetta, non giustizia. E so quello che dico perché era la stessa cosa che una volta volevo io per mia madre.” Castle si agitò sul posto, a disagio. Però ancora una volta non disse nulla e forse fu lì che sbagliò. “Sai, forse abbiamo affrettato troppo le cose.” aggiunse poi Kate con aria triste e pensierosa, come se stesse parlando a sé stessa più che a lui, gli occhi puntati da qualche parte sul pavimento. “Due mesi probabilmente sono pochi per conoscersi davvero. Credevo di aver almeno intuito che tipo eri, ma evidentemente mi sbagliavo.” Rick rimase impietrito, la bocca semiaperta e gli occhi sgranati. Non era quello che voleva! Lei stava… stava dicendo sul serio?
Prima che potesse anche solo chiedersi se aveva interpretato correttamente le sue parole, Kate gli chiarì la sua posizione: “Tornerò in America con gli Esposito come tu ti sei tanto premurato di organizzare. E ti ringrazio per questo. Ti dovrò sempre qualcosa per il disturbo e per i giorni che mi hai aiutato qui a Berlino. Potrai chiamarmi quando vuoi per ricambiare questo favore. Ma a parte quello, quando sarò andata via, ti prego di non cercarmi più.”
“Kate…” tentò di nuovo di parlare il colonnello con una nota supplicante nella voce. Beckett però non la sentì o non volle darvi peso, perché girò il viso e tornò in salone senza dire altro.
Castle rimase immobile, la bocca semiaperta, gli occhi fissi nel punto in cui era sparita la donna che amava e che lo aveva appena cacciato dalla sua vita. Come erano arrivati a quel punto? Lui voleva solo dare giustizia a Semir! Torturare il suo aguzzino (e magari poi toglierlo dalla circolazione) sarebbe stato un modo più che giusto per ripagarlo e per ottenere informazioni! Quello era un periodo di guerra. La città era per metà distrutta e se loro erano ancora vivi, tra le bombe e i segreti da mantenere, era solo grazie a un miracolo. Come poteva Kate non capire che andare semplicemente da Hahn a chiedere chi era il mandante non era possibile? Inoltre, conoscendo il tipo d’uomo, anche con la tortura probabilmente sarebbe stato difficile estorcergli informazioni. Però aveva bisogno di qualcosa da fare. Non poteva restare lì, bloccato e inutile, mentre Semir era mezzo morto in salone e Montgomery forse in chissà quale pericolo! Doveva agire! Doveva muoversi e ottenere informazioni e risultati oppure sarebbe impazzito e…
All’improvviso lo sguardo di Rick venne catturato da un lieve movimento accanto a muro, al limitare del corridoio. Alzò gli occhi e notò il suo vecchio zaino, quello che aveva regalato a Semir. Una delle quattro donne doveva averglielo tolto e gettato in un angolo perché non ingombrasse. Lo zaino era scivolato leggermente in giù per terra a causa del poco contenuto all’interno. Lo osservò per un momento. Era un poco più sgualcito e decisamente più impolverato di quando lo aveva dato al ragazzo qualche giorno prima. Ed era conciato decisamente peggio di quando lui lo aveva avuto in dono. Perché quella sacca non gli era stata data dall’esercito, ma da un amico, un soldato o, meglio, una matricola come lui nell’anno in cui era entrato in accademia militare in America. Il ragazzo si chiamava Matt Green.
Rick l’aveva conosciuto il primo giorno al campus. Era un giovane volontario come lui e condividevano la stessa baracca per dormire, oltre che i corsi. Quando l’aveva visto la prima volta, ricordava di aver pensato che non pareva tagliato per fare il soldato. Magrolino com’era e con la pelle scura di chi è stato molto tempo al sole, pareva essere un contadino appena uscito dal campo. Inoltre a un prima impressione gli era parso diffidente e chiuso. Invece con il tempo aveva scoperto che Matt un ragazzo forte e leale, un po’ taciturno forse, ma dal sorriso pronto, oltre che un ottimo soldato con una mira da far invidia ai migliori cecchini. L’unica cosa di cui Green non parlava volentieri era il suo passato. Come gli si chiedeva notizie dei suoi parenti o di dove era nato o vissuto, lui cambiava discorso o smetteva semplicemente di parlare.
Castle non seppe niente di lui, come tutti gli altri, finché un giorno non gli accadde un fatto. Erano sei mesi che ormai erano in accademia, ma Rick continuava ad avere un problema con alcuni commilitoni. Questi non vedevano bene i figli di importanti ufficiali come lui perché credevano si sentissero superiori o che avrebbero avuto sempre la strada spianata da papà. Avevano quindi pensato bene di molestarlo sin dai primi giorni da matricola, non appena avevano saputo chi era suo padre. Rick aveva tentato in tutti i modi di farli smettere o di fargli capire che lui non ci teneva minimamente ad avere raccomandazioni, ma quelli non lo avevano mai ascoltato. Così erano iniziati gli scherzi. Prima piuttosto blandi, come una mano di vernice sulla sedia che avrebbe occupato a lezione di tattiche di guerra. Poi, visti gli scarsi risultati nel farlo reagire, erano passati a burle sempre più pesanti. Quello che lo aveva fatto infuriare, era stato uno scherzo che prevedeva una serie di petardi nel suo zaino. Aveva rischiato di perdere una mano e un occhio, se non se ne fosse accorto in tempo e non fosse stato abbastanza veloce da scansarsi. Castle si ricordò che era stato così fuori di sé da voler andare a cercarli per vendicarsi. Non aveva mai avuto così voglia di prendere a pugni qualcuno fino a farlo sanguinare a terra sino a quel momento. Già all’epoca era alto e prestante, non aveva paura di quei bastardi che lo tormentavano ed era stufo di non reagire per evitare di essere buttato fuori dall’accademia. L’unica cosa che voleva era trovarli e fargli molto male e se ci avesse rimesso lui, almeno si sarebbe tolto la soddisfazione di fargliela pagare. Matt Green lo trovò in quel momento, scontrandosi per caso con lui e vedendolo in quello stato. Lo bloccò e lo costrinse, praticamente con la forza, a non fare cazzate.
Castle si stupì nell’accorgersi che ricordava le sue esatte parole...
 
“Vendicarsi non serve a nulla!” esclamò Matt con il tono frustrato di chi cerca di spiegare una cosa importante a uno che non vuol capire, puntandogli con forza un dito contro il petto. “Non ti porta la pace e non ti fa vivere. Sai cosa fa la vendetta? Ti trasforma in un cane affamato e ti mette davanti a un cancello chiuso con un coniglio grasso dall’altra parte. Ti costringe a guardare la tua preda al di là di esso, da lontano, facendoti agitare e sbavare, senza mai smettere, succhiandoti le forze, senza farti rendere conto che dietro di te c’è un giardino enorme e fertile, un mondo intero, che ti aspetta. E se anche riuscissi a saltare il cancello, sai cosa succederebbe? Prenderesti la tua preda, il coniglio bianco che si è stancato di scappare da te, ma poi non potresti più tornare indietro. E ti accorgeresti che dalla parte del coniglio c’era solo un spazio piccolo, buio e spoglio in cui è impossibile vivere. La tua preda non basterà mai a ripagarti degli anni di sfinimento, lotta e rabbia. Rimarresti solo al di là del cancello, come un vecchio cane ingabbiato perché non più utile a nulla, guardando il mondo a cui non potrai mai tornare ad appartenere perché tu stesso hai deciso di lasciarlo.”
 
Quelle parole lo avevano fermato. La sua ira non era diminuita, ma si era un po’ calmato e la sua curiosità era aumentata. Matt aveva parlato come uno che quell’esperienza l’aveva provata sulla sua pelle. Eppure era poco più che un ragazzo, proprio come lui.
“Che ne sai tu della vendetta?” gli aveva risposto allora Rick, scontroso a causa del suo umore, ma con davvero la voglia di sapere. Green gli aveva fatto un mezzo sorriso triste, mentre i suoi occhi neri mandavano una luce strana.
“Io sono cresciuto con la vendetta.” aveva risposto. Poi gli aveva raccontato una storia. Una storia terribile. La sua storia.
Matt era nato a Oxnard, una città a nord di Los Angeles con un porto talmente grande e importante, fino a pochi anni prima, da meritare un nome tutto suo: Port Hueneme. Quello stesso porto veniva utilizzato anche dalla marina e dall’esercito Americano per far stazionare le navi prima dei viaggi nel Pacifico. Proprio mentre diverse navi erano all’ancora e i soldati bazzicavano per ogni dove in città, accadde il fatto che cambiò la vita della sua famiglia.
Matt era l’ultimo nato di una buona famiglia di Oxnard dove suo padre e sua madre, Benjamin e Dionne Green, mandavano avanti uno dei più importanti negozi di spezie. Prima di lui erano nati suo fratello maggiore Camron, di quindici anni, sua sorella Ebony, di tredici anni, e Henry, di sei anni. Nell’inverno in cui Matt compì un anno, sua sorella Ebony, mentre tornava in ritardo da alcune commissioni per conto della madre, fu vista e bloccata da un uomo in divisa, uno dei molti soldati che giravano in città arrivati con le navi. L’uomo la costrinse in un angolo buio di un vicolo, la violentò e la lasciò lì al freddo, debole, svestita e piena di sangue a soli tredici anni. Lei riuscì a trovare la forza per rialzarsi e tornare a casa, dove disse tutto ai genitori e descrisse il suo stupratore. Quella notte stessa però, per la vergogna, Ebony si tolse la vita. Sua madre Dionne morì di crepacuore meno di una settimana più tardi. Rimase solo il padre Benjamin, pieno di rabbia e sete di vendetta, con i tre figli maschi.
Benjamin iniziò a girare tutto il porto, andando di molo in molo e cercando il mostro che aveva rovinato l’esistenza della sua famiglia, mentre Camron badava ai fratelli più piccoli e al negozio. Ogni giorno l’uomo tornava a casa più rabbioso a causa delle vane ricerche. Dopo un mese, sembrò che finalmente si fosse aperta una pista: il soldato era salpato con una delle navi per andare a nord, verso il Canada. A quella notizia, il padre non si diede per vinto. Vendette tutto ciò che possedeva, sia il negozio che la casa, prese dalla banca tutti i soldi risparmiati in anni di lavoro e con i tre figli si mise in viaggio per inseguire il mostro. Durante la traversata, Henry morì di polmonite a causa del freddo a cui non erano abituati ed erano stati sottoposti salendo sempre più verso nord. Rimanevano solo Benjamin e il suo figlio maggiore e minore.
Una volta arrivati nella base canadese che gli era stata indicata, gli dissero però che il soldato che cercavano doveva essere tra quelli spostati dall’altra parte del paese, a New York o forse a Miami. Così ripresero a viaggiare. Seguirono le tracce del mostro, ormai l’unico appellativo con cui veniva nominato tra loro, per giorni, settimane, mesi e infine anni. Il più grande dei fratelli di Matt, Camron, si ritrovò accoltellato a morte in una bettola a causa di una rissa dopo un anno e mezzo. Alla fine, rimasero solo lui e il padre.
Quando finalmente rintracciarono per certo il mostro, a Charleston nella Carolina del Sud, erano ormai passati cinque anni. Cinque anni di pellegrinaggi da una parte all’altra degli Stati Uniti senza mai fermarsi, seguendo ogni possibile pista e indicazione, giusta o sbagliata che fosse, con un solo scopo in testa, arrivando anche a corrompersi e umiliarsi per poter raggiungere l’obbiettivo perché da tempo non avevano più soldi.
Una volta trovato il campus e il dormitorio esatto, dove gli avevano indicato che era la sua preda, Benjamin agì con una innaturale calma. Lasciò il piccolo Matt insieme alle guardie all’ingresso del campo e, con una scusa, si fece portare al dormitorio del suo mostro. Una volta entrato e individuato il suo bersaglio, prese la pistola che teneva nascosta allacciata a una caviglia e iniziò a fare fuoco. C’erano quindici soldati dentro. Ne uccise quattro e ne ferì altrettanti prima che riuscissero a fermarlo. Tra i morti, anche il mostro di suo padre. Solo che fu allora che fecero la terribile scoperta: la verità. Il mostro e il soldato che aveva ucciso erano uguali, ma non erano la stessa persona. Erano gemelli. Il vero mostro che cercavano, lo stupratore di Ebony, era morto anni prima in una cella. Aveva rubato i vestiti del fratello per pagare meno le bevute al bar e, qualche giorno dopo la violenza, era stato trovato ubriaco che pisciava in una fontana. Accusato di rissa e di oltraggio al pudore, stava scontando qualche mese in prigione quando un’ulteriore zuffa con i suoi compagni di cella lo aveva ammazzato. La conclusione era solo una: Matt e suo padre avevano girato per anni alla ricerca di un fantasma e, inoltre, avevano ucciso persone innocenti.
Dopo quella storia, il giovane Rick si era calmato del tutto e, come Green gli aveva consigliato, aveva iniziato a cercare giustizia e non vendetta. Anche se spesso, durante gli anni, si era accorto che il limite tra le due cose era estremamente sottile. Comunque Matt gli era stato di grande aiuto. Quel racconto lo aveva talmente segnato da essersi ripromesso che non avrebbe mai cercato vendetta su qualcuno. Ma la guerra aveva cambiato tutto. Cambiava tutto, costantemente. La guerra poteva trasformare il codardo in eroe e il coraggioso in pavido. E poteva trasformare il più mite degli uomini in una belva. Lo aveva visto, era stato testimone di alcune di quelle alterazioni nel corso degli anni. Pensava di esserne stato immune fino a quel momento. Evidentemente si sbagliava. Semplicemente non era ancora accaduto un fatto che lo avesse portato al limite.
Rick sospirò e si passò una mano sulla faccia, nascondendo lo zaino dal suo sguardo. Quello stesso zaino pieno di cibo che i soldati avevano regalato a Matt Green quando lo avevano accolto in caserma a sei anni, solo e con il padre appena arrestato. I soldati si erano presi cura di lui, gli avevano dato da mangiare, un tetto sopra la testa e una sorta di famiglia adottiva. Lo avevano preso come mascotte. E, quello stesso zaino che lui aveva ricevuto dai suoi salvatori, Matt lo aveva regalato a Castle, perché, nonostante non avesse subito un torto grave come lo era stato per la sua famiglia, non dimenticasse mai la differenza tra vendetta e giustizia.
Castle rimase immobile per qualche secondo, quindi prese un respiro profondo e si incamminò verso il salone. La prima cosa che vide fu il corpo minuto di Semir, lavato e bendato al meglio possibile, pallido e stremato, sdraiato sul tavolo da pranzo. In quel momento poté vedere chiaramente i segni che Stasch Hahn gli aveva lasciato addosso. Lanie doveva aver messo della crema o un lenitivo sui lividi e richiuso diversi tagli con dei punti, ma il contrasto tra le lacerazioni rosso scuro, il lividi violacei e la sua pelle chiara era terribile. Non vide però né le bruciature, poiché erano sulla schiena, né la parola ‘lügner’ che Kate gli aveva detto essere sul suo petto. Al suo posto c’era un pezzo di tela bianco rettangolare che gli andava quasi da una spalla all’altra. Di nuovo un’ondata di rabbia lo invase, ma questa volta si controllò.
Guardandosi attorno Rick, intravide la Gates in cucina insieme a Jenny e Lanie mente lavavano qualcosa nel lavandino. Kevin, Javier e Leandro erano sul divano e parlavano a bassa voce tra di loro per non disturbare il malato. Kate invece era seduta su una sedia accanto al tavolo e a Semir. Fissava il ragazzo con uno sguardo vuoto, come se non lo vedesse davvero, gli occhi appena lucidi. Si avvicinò a lei piano.
“Kate…” mormorò. Sapeva che Semir non si sarebbe svegliato se anche avesse parlato più forte, tanto era stremato, ma c’era troppo silenzio per alzare la voce. Lei sembrò riscuotersi. Sbatté più volte le palpebre, guardando l’adolescente, ma poi alzò gli occhi su di lui. Dopo un attimo di smarrimento, il suo sguardo divenne ferito e duro, poco propenso a parlare. Però c’era anche un fondo di tristezza. “Posso parlarti un momento?” chiese il colonnello a bassa voce. Beckett lo squadrò per lungo attimo. Quindi sospirò e annuì.
“Gli diamo noi un’occhiata.” disse subito Ryan, alzandosi dal divano insieme a Esposito e Leandro. Doveva aver notato lo scambio tra i due e poi lo sguardo incerto di Kate verso il ragazzo. Beckett allora gli lasciò il posto e attraversò il salone per sedersi nell’angolo di divano più lontano dai presenti. O forse il più lontano da lui. “Ah, Rick…” lo richiamò un momento Kevin. “Ho provato a contattare Roy, ma non risponde nessuno.” Castle annuì con un sospiro.
“Va bene, fammi parlare con Kate e poi ne parliamo.” rispose. Il maggiore fece un cenno affermativo con la testa e lo lasciò andare.
Prima che Beckett potesse dire qualcosa, Rick si abbassò sui talloni davanti a lei, posandole una mano sul ginocchio con la scusa di tenersi in equilibrio, ma più che altro per tornare ad avere un contatto con lei. Sentì su di sé gli occhi degli uomini poco più in là, ma non se ne curò.
“Mi pareva avessimo già chiarito tutto.” commentò la donna in tono gelido. “Non ho più niente da dir…”
“Mi dispiace.” sussurrò lui, interrompendola. Kate rimase immobile, confusa. Probabilmente non si aspettava un cambiamento così repentino nel suo comportamento. “Avevi ragione tu.” continuò piano Castle. “Io non sono il tipo d’uomo che cerca vendetta. Ho promesso a me stesso tanti anni fa di non farlo mai, ma quello che hanno fatto a Semir… è stato più forte di me.” mormorò con tono di scuse, abbassando lo sguardo sulle ginocchia di lei. “Sono stato sopraffatto dalla rabbia. Volevo bene a quel ragazzino e speravo a un futuro più roseo per lui. Ma è bastata qualche ora perché tutto cambiasse, perché rischiasse la vita. Probabilmente anche a causa mia e dei miei segreti… Io volevo fare qualcosa, volevo… volevo uccidere chi gli aveva fatto questo!” aggiunse con rancore, stringendo per un momento il ginocchio di Beckett. Si calmò subito però. “E sai cosa sarebbe successo se tu prima non mi avessi fermato?” continuò poi, alzando lo sguardo di nuovo su Kate con un mezzo sorriso triste. Si accorse che la donna lo stava guardando con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, quasi rapita dalle sue parole. “Lo avrei fatto.” disse semplicemente. Sentì Beckett irrigidirsi sotto le sue mani. “Sarei corso da chi sono quasi certo sia il responsabile, lo avrei torturato per farmi dire il mandante e poi probabilmente lo avrei ucciso. Ripensando a Semir, io lo avrei ucciso.” rimarcò l’ultima parola con una punta di rimorso e disprezzo nella sua stessa voce. “Come lui non era riuscito a fare con il ragazzo. E lo avrei ammazzato a sangue freddo, pieno di rabbia e odio.” Si fermò per un momento, mentre la terribile immagine di lui che sparava in testa a un inginocchiato carnefice gli si incollava in testa. Scosse il capo come per liberarsene. “E sai alla fine cosa mi sarebbe rimasto?” continuò poi, rialzando gli occhi su Kate. Lei negò appena la testa, senza parlare. “Niente.” dichiarò amaramente. Poi sospirò. “Io non uccido a sangue freddo, Kate. Non l’ho mai fatto. Mi sarei sentito male ad aver ammazzato un uomo inerme, per quanto quello fosse stato un seviziatore. L’ucciderlo non avrebbe ripulito la pelle e i ricordi di Semir da quei segni.” aggiunse amaramente, giungendo in quel momento a quell’amara verità. In realtà niente avrebbe mai cancellato quello che era accaduto al ragazzo.
Rick si fermò un momento per riprendere fiato e per scacciare il groppo che aveva in gola.
“Quindi, Kate, io ti chiedo di perdonarmi e insieme ti ringrazio.” disse alla fine con un piccolo sorriso, sorprendendola. “C’è una cosa però che devi sapere di me, questo sì: farei di tutto per le persone a cui sono legato. Questo significa che comunque darò la caccia a chiunque abbia compiuto o commissionato questa tortura. Non posso promettere che nessuno si farà male, ma posso garantirti che non torturerò né ucciderò, se non sfidato…” Beckett alzò un sopracciglio a quell’ultima affermazione.
“Se non sfidato?” ripeté in tono a metà tra il divertito e il rimprovero. Rick alzò appena le spalle.
“Beh, se mi puntano una pistola addosso, io rispondo.” replicò ovvio. “Comunque, chiunque sia stato finirà in una cella di due metri per tre al di sotto della mia centrale e con la chiave misteriosamente persa chissà dove, questo posso garantirtelo.” aggiunse poi con un mezzo sorriso. Kate annuì. La sua tranquillità fece ben sperare Castle. Così prese un respiro profondo e si fece coraggio prima di continuare. “Perciò ti prego…” disse poi tornando serio, appoggiando un ginocchio a terra e prendendole una mano. Beckett lo guardò perplessa e stupita. Rick stava andando a istinto. Non l’aveva pensata così e non avrebbe mai pensato di chiederglielo in quel momento, ma sentiva di doverlo fare. Voleva farlo. Non voleva altro. “Una volta che entrambi saremo usciti da tutto questo, una volta che tu sarai al sicuro e io ti avrò raggiunto per non lasciarti andare mai più... Una volta che saremo di nuovo insieme, mi vorrai sposare?” Non glielo aveva ancora mai chiesto. Non ufficialmente almeno. Ne avevano parlato, ma quello… quello rendeva le parole reali.
Kate lo guardò a bocca aperta per qualche secondo mentre gli occhi le diventavano umidi. Poi si morse il labbro inferiore e un piccolo sorriso le scappò da un angolo della bocca.
“Cerchi solo di distrarmi, non è vero?” borbottò, come se fosse seccata, anche se Rick capì subito che era tutta una messinscena. “In realtà speri che così io non resti più arrabbiata con te.”
“Come hai fatto a indovinare?” le domandò fintamente sbalordito, sgranando gli occhi. Beckett sbuffò divertita senza riuscire a trattenersi, scuotendo la testa. Quindi rialzò gli occhi su di lui. Erano ancora lucidi, ma parevano non essere più in collera con lui. O almeno, quello che vedeva Rick in quel momento era solo uno sguardo dolce verde-nocciola con una strana luce. Nonostante quello però, il colonnello si accorse di sudare freddo tanto era nervoso.
“Va bene.” disse alla fine Kate con un piccolo sorriso timido, mordendosi il labbro inferiore. “Voglio credere alle tue parole, quindi… quindi sì, Richard Castle. Ti aspetterò. E quando finalmente mi avrai raggiunta, ti sposerò.”
All’improvviso ci fu un breve singhiozzo che li fece voltare confusi. Non si erano nemmeno accorti che tutti i presenti, comprese Lanie, Jenny e la Gates che erano tornate chissà quando dalla cucina, li stavano fissando con un sorriso. Capirono che il piccolo singulto era arrivato dalla signora Ryan quando la videro con la mano davanti alla bocca e gli occhi lucidi.
“Scusate.” sussurrò. “Gli ormoni.” Castle ridacchiò e Kate scosse la testa divertita e imbarazzata, un po’ rossa in volto.
“Cavolo!” borbottò però all’improvviso il colonnello, tornando serio.
“Che succede?” domandò Beckett preoccupata.
“Non ho un anello!” mormorò lui mortificato. In quel momento però gli venne un’idea. “Hai le chiavi di casa?” le chiese. Lei lo guardò come se all’improvviso gli fossero cresciute due orecchie da coniglio.
“Uhm… certo.” rispose. Quindi tirò fuori il suo mazzo e glielo porse. Rick lo prese e subito iniziò a staccare tutte le chiavi attaccate. “Ehm… Castle?” disse Kate esitante. Il colonnello non aprì bocca, ma finì il suo lavoro e guardò soddisfatto l’anello di metallo che fino a pochi secondi prima fungeva da portachiavi.
“Mi spiace non avere nulla di meglio al momento.” si scusò Rick un po’ imbarazzato. “Però volevo darti qualcosa per… beh, per suggellare questo patto.” continuò con un mezzo sorriso. Beckett lo osservò stupita per qualche secondo e poi divertita. E alla fine gli tese la mano.
Castle sentì il suo cuore saltare un battito. Con attenzione, infilò l’anello di fortuna all’anulare di Kate. Essendo solo un filo di metallo arrotolato, il colonnello lo strinse a mano così da farlo aderire perfettamente al dito di lei senza che scivolasse. Quando concluse la sua operazione, alzò gli occhi su Beckett. Si stava guardando il dito con un misto di divertimento, stupore e dolcezza, mordendosi intanto il labbro inferiore per cercare di nascondere il sorriso che si stava creando sulla sua bocca.
“Questa è la mia promessa.” disse poi Rick in un sussurro, alzandosi e portando in piedi con sé la donna. “Sei il mio faro nell’oscurità, Kate Beckett. Non potrei più vivere senza di te, ormai.” aggiunse, appoggiando la fronte contro quella di lei e abbracciandola alla vita. Kate automaticamente portò le braccia dietro il suo collo. Il colonnello rimase per un momento immobile ad assaporare il calore del suo corpo e il suo profumo. Per un attimo, meno di venti minuti prima, aveva temuto che non avrebbe più avuto la possibilità di godere di quel contatto. “Ti amo, Kate.” mormorò alla fine. Beckett si morse di nuovo il labro inferiore, quindi alzò la testa per poterlo guardare negli occhi.
“Ti amo anch’io, Rick.” disse piano. Lui non poté fare a meno di iniziare a sorridere. Abbassò appena il capo e la baciò, con in sottofondo un coro di bassi commenti eccitati di cui neanche si accorsero. L’unica cosa che li fece staccare e voltare fu una voce un po’ rauca e lenta che non avrebbero pensato di risentire così presto.
“Chi è che si sposa?”

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Xiao! :)
Lo so, lo so, sono in ritardo di nuovo, ma vi prego di perdonarmi! Non ero per niente dell'uomore in questi giorni oppure avevo altre cose da fare quando ero in vena, quindi ho tirato per le lunghe, scusate...
Tornando alla storia, visto che Semir non è morto? :D Oddio, non sta da Dio, questo è vero, però insomma... è ancora tra noi, no? XD
Boh ok, sto dormendo in piedi quindi non so che altro dire... XD Spero vi sia piaciuto il capitolo! :)
A presto! :)
Lanie
ps: sapete quando nell'ultimo capitolo vi ho detto che mancavano 2/3 capitoli? Ehm... io e il mio senso della lunghezza-pagine-scrittura non andiamo al solito d'accordo, quindi aggiungetene almeno uno in più... XD
  
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