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Autore: Alaire94    16/10/2014    2 recensioni
Le avevano insegnato a diffidare degli stranieri, ma l'amore non ha colore di pelle né nazionalità. L'amore va oltre qualsiasi cosa. E' questo che Michela imparerà da quel ragazzo dagli occhi d'ambra che saprà lambirle il cuore con onde di sabbia cocente.
Si posizionò dietro di me, cingendomi la vita con le mani. Brividi caldi mi attraversarono il corpo a quel contatto. Mi disse di chiudere gli occhi e io eseguii.
«immagina sabbia, sabbia fino all'orizzonte. Il sole alto colora di rosso e arancione. Poi, davanti a te, vedi villaggio: case bianche e luminose per sole, nel verde di un'oasi. Lontano uomini su cammello vanno lì; forse sono mercanti...»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Sabbia cocente

 

Da che avessi conoscenza era sempre stato lì; un gigante fatiscente che svettava nel verde della campagna , grigio come la nebbia invernale. Era immutato dal tempo: gli anni erano trascorsi, ma vi erano gli stessi pezzi di legno bruciacchiati, gli stessi calcinacci caduti dal tetto e abbandonati sul pavimento spoglio. Non uno in più, non uno in meno.

Soltanto l'edera aveva cominciato ad arrampicarsi sui muri di cemento, mutando leggermente quell'aspetto triste e desolato. Eppure ero certa che se soltanto quell'edificio avesse avuto coscienza, lo avrebbe impedito: pareva voler restare solo, come un eremita fra i frutteti in fiore e le spighe di grano.

Destino volle, però, che non restasse mai in solitudine: io e mio fratello ci recavamo sempre lì, a correre in cerchio attorno alla costruzione, a sederci sull'erba alta e a dilettarci nei più svariati giochi.

Per noi era un luogo magico, dove potevamo stare soli con noi stessi.

Almeno finché non siamo cresciuti. Gli impegni scolastici non ci lasciavano il tempo di correre lì; il gigante della campagna restò finalmente solo.

Un giorno mi ritrovai distesa sul letto in un momento di massimo rilassamento.

Lasciai che il pensiero seguisse le proprie strade intrecciate e giunse lì, al luogo dove io e mio fratello trascorrevamo i nostri pomeriggi.

Mi affacciai alla finestra, scostando la tenda color glicine. Vidi l'edificio stagliarsi fra i campi coltivati e la voglia di recarvisi ancora divenne più prepotente che mai.

Chiesi anche a Filippo, mio fratello, ma lui ormai aveva tutt'altro interesse: era finito il tempo dei giochi all'aperto. I suoi occhi turchesi erano fissi sullo schermo della televisione, le mani strette attorno ai comandi del videogioco.

- Devo eliminare questo mostro - mi rispose soltanto dopo qualche secondo, mentre l'eroe nello schermo uccideva uno zombie, provocando uno spruzzo di sangue.

Con l'entusiasmo già un poco quietato, m'incamminai lungo i sentieri di campagna, con l'erba alta che mi accarezzava le caviglie e il sole che posava i raggi sulla mia testa.

Mi piaceva la primavera: era un periodo di risveglio. La natura pareva stiracchiarsi dopo un lungo sonno, ritornando lentamente in attività: gli alberi mettevano le prime gemme, gli uccelli cantavano allegri. Soltanto il casolare verso cui mi dirigevo rimaneva indifferente al cambiare della natura.

Quando lo raggiunsi ebbi le stesse impressioni della prima volta: imponenza, abbandono.

Allo stesso tempo, però, quel posto era farcito di ricordi che suggerivano un'altra sensazione: nostalgia.

Fu così che, trepidante, aprii una delle porte di legno che davano accesso all'interno.

Doveva essere un magazzino un tempo, o forse un fienile: era un enorme spazio semibuio, intervallato da pilastri, che neppure nei suoi tempi migliori avrebbe potuto sembrare accogliente.

In quegli anni, poi, era caduto completamente in malora: le travi sporgenti nel soffitto erano arrugginite e alcune parevano sul punto di cedere, l'intonaco dei pilastri era sbeccato, il pavimento sporco. Mucchi di calcinacci erano sparsi qua e là e, nel bel mezzo, si trovava perfino un cumulo di legno bruciacchiato, segno di un falò.

Mossi qualche passo che rimbombò nel grande spazio, mentre nella mia mente si formavano diversi ricordi. Quel luogo mi faceva spuntare il sorriso, mi riscaldava il cuore al pensiero della mia infanzia, nonostante l'aspetto poco piacevole.

D'improvviso qualcosa di strano mi saltò all'occhio: un movimento.

A dispetto di ciò che avevo provato fino a quel momento, ebbi paura: nulla avrebbe dovuto muoversi lì, tutto doveva essere immobile.

Eppure lo vidi ancora, sull'angolo sinistro dietro un alto mucchio di calcinacci.

Col cuore che batteva nel petto, mi avvicinai: forse non era altro che un animale, un cane randagio.

Ben presto, però, intravidi una testa bruna, poi delle spalle, un busto e infine delle gambe.

Restai lì, ferma e statica come una statua di marmo, la bocca spalancata. Soltanto gli occhi si spostavano a squadrare colui che avevo davanti.

Era un giovane, non molto più vecchio di me, ma dall'aspetto vissuto. La barba era incolta, gli occhi marroni, sfumati d'ambra, avevano qualcosa di profondo, i capelli erano lunghi e gli ricadevano in ciocche sulle spalle. La pelle era troppo scura perché potesse essere italiano.

Sapevo che avrebbe potuto farmi del male - poteva essere chiunque, anche un criminale uscito di prigione - , ma restai lì.

Io lo fissavo, lui mi fissava. Immobile.

Soltanto dopo qualche minuto, quando capii che in fondo se avesse voluto farmi del male lo avrebbe già fatto, mi sedetti su un blocco di cemento.

- Chi sei? - chiesi, ma non ricevetti risposta. Continuò a guardarmi intensamente, senza muovere un muscolo.

Forse in molti se ne sarebbero andati, ritornando da dove erano venuti, ma io rimasi.

Ci crogiolammo nel silenzio: in fondo non sempre le parole erano necessarie. Dovevamo abituarci l'uno alla presenza dell'altra, a condividere quel posto importante per tutti e due: per lui era una casa, a giudicare dal sacco a pelo lì di fianco, per me il simbolo dell'infanzia.

D'improvviso si mosse, portò le mani alla bocca, come volesse farmi comprendere qualcosa.

Soltanto dopo poco capii: - vuoi qualcosa da mangiare?

Lui annuì. - Mangiare - ripeté, con un forte accento straniero.

Mi alzai in piedi. - Stai qui, tra poco torno.

Corsi nell'erba alta, rischiando più volte di inciampare in rami caduti, per poi giungere a casa.

Controllai che Filippo fosse ancora davanti alla televisione e mia mamma distesa a letto e sgattaiolai in cucina, dove presi del pane, un pezzo di formaggio e una bottiglia d'acqua. Infilai il tutto in una borsa e corsi nuovamente in campagna.

Il sole mi accarezzava la testa, mi faceva sudare e i capelli lunghi e bruni mi si appiccicavano alle spalle nude.

Non me ne curai, diretta verso il casolare.

Lui era ancora lì, nella stessa posizione in cui l'avevo trovato.

Mi inginocchiai, mentre estraevo dalla borsa il cibo.

Prese in mano la pagnotta, la osservò con quel suo intenso sguardo e la addentò con avidità. La stessa cosa fece col formaggio.

Io lo guardai, chiedendomi da quanto tempo non mangiasse. Aveva l'aria di qualcuno che aveva sofferto, un uccellino smarrito che aveva bisogno solo di una persona che lo guidasse sulla giusta strada. Qualcuno che si prendesse cura di lui.

- Do you speak English? (Parli inglese?)- chiesi, cercando di trovare un modo per comunicare.

Sollevò la testa, spalancò gli occhi perplesso.

- Tu parles français? (Parli francese?) - feci l'ultimo tentativo: non conoscevo altre lingue straniere.

Continuò a guardarmi, i suoi occhi marroni erano fissi suoi miei, color verde acqua. Quando ormai credevo che anche quel tentativo fosse stato un fallimento, lui parlò. - Oui... je viens de la Tunisie (Sì... vengo dalla Tunisia).

La sua voce era piuttosto roca, poco più che un sussurro: chissà da quanto tempo non parlava con qualcuno. Eppure possedeva anche una nota suadente, qualcosa che mi spinse a volerla sentire ancora.

- Je m'appelle Michela (Mi chiamo Michela) - mi presentai, allungando la mano, titubante.

Vidi la stessa titubanza nel suo gesto, quando la afferrò con la sua, scura e un po' sporca. - Samir.

Gli sorrisi, cercando di fargli comprendere che non ero altro che sua amica, che ero lì solo per aiutarlo. In fondo mi piaceva aiutare le persone, tanto che spesso mi chiamavano "crocerossina" quando mi prendevano in giro. E ciò non mi offendeva: non vedevo cosa ci fosse di male.

Cominciai a parlare in francese un po' stentato, a raccontargli qualcosa della mia vita, cosa mi piaceva e cosa no, la mia vita quotidiana. Nel peggiore dei casi l'avrei annoiato, nel migliore si sarebbe aperto un poco anche lui. E io ero ottimista.

- Riuscirò a farti parlare - dissi ancora in francese.

Samir stese le gambe, coperte da pantaloni logori e per la prima volta mi rivolse un sorriso.

Fu davvero un successo: le labbra si tirarono leggermente, gli occhi scuri si illuminarono e a me si riscaldò il cuore.

- Io ascolto, in pochi lo sanno fare.

Quelle parole mi lasciarono per qualche secondo di stucco, ammaliata dalla sua voce vellutata, dalla sua perfetta pronuncia francese e dalla profondità di ciò che aveva detto. Mi tolse il dono della parola.

Restammo in silenzio, a osservarci l'un l'altra. Poi Samir spostò lo sguardo lontano, sulla parete coperta dalle scritte dei vandali e cominciò a intonare un motivetto in arabo. Era una melodia lenta e rilassante, ma allo stesso tempo malinconica.

Con quelle note mi trascinava verso una realtà diversa, di luoghi esotici, dove la luna rischiarava il profilo delle dune e riscaldava un cuore abbandonato.

Non ebbi il coraggio di chiedergli da dove provenisse quella canzone, né di fermare il suo canto. Semplicemente ascoltai.

Soltanto quando ebbe concluso mi alzai dal blocco di cemento e, dopo averlo salutato con un cenno della mano, ritornai a casa più scossa che mai.

 

I miei genitori mi avevano insegnato a diffidare. Mi avevano detto che gli stranieri giungevano in Italia per derubare le nostre case, i nostri posti di lavoro. Non avevano che fini malvagi.

Ovunque mi voltassi c'era qualcuno che affermava di volerli rispedire al loro Paese, sulle stesse barche dismesse con cui erano approdati.

Eppure negli occhi di Samir non avevo visto malvagità. Avevo fissato il volto di un giovane spaesato, smarrito in una tempesta e senza più una bussola. Avevo udito parole acute, non farcite dell'ignoranza di cui molti mi avevano parlato.

Ritornai tutti i giorni al vecchio casolare, portando cibo, vestiti e altri oggetti che potessero essere utili a Samir. Riuscì a tagliarsi i capelli, a radersi la barba, assumendo un aspetto decisamente più curato. Pareva perfino più giovane: se prima avrei pensato che avesse sui venticinque anni, ora gliene avrei dati sì e no venti.

Cominciai anche a insegnargli l'italiano, utilizzando qualcuno dei miei vecchi quaderni e ogni giorno progrediva sempre di più. Aveva una mente svelta, poche lamentele e qualche riflessione intelligente.

Spesso si sedeva sul suo sacco a pelo, la schiena appoggiata contro uno dei pilastri e cantava il solito motivetto malinconico.

Io lo osservavo attentamente, seduta sullo stesso blocco di cemento caduto: gli occhi gli luccicavano mentre cantava, i suoi lineamenti si facevano più dolci ed armonici. Rimanevo ammaliata dal suono della sua voce, dalle labbra che si muovevano lentamente per far fuoriuscire i suoni.

Lui stava divenendo per me sempre più misterioso e inevitabilmente calamitante. Era un'avventura, un'isola da esplorare e soltanto l'abilità, la pazienza mi avrebbero permesso di scoprirne i segreti.

Col passare dei giorni si era formato un solo obiettivo nella mia mente: penetrare dolcemente nella membrana di riservatezza che lo proteggeva.

Lasciai che le ultime note della canzone si spegnessero nell'aria, portate via dal vento. Samir spostò lo sguardo su di me, mi rivolse un leggero sorriso che io ricambiai.

- Non devo cantare, scusa - disse nel suo italiano stentato.

- No, mi piace... - mi alzai dal blocco e mi sedetti di fianco a lui - di che canzone si tratta? Me lo puoi dire?

Attese qualche secondo prima di rispondere; il suo sguardo si perse ancora nei graffiti sulle pareti. - Cantava mia madre a mia sorella per... l'endormir (farla addormentare) - gli spuntò un sorriso.

- Una ninna nanna, une berceuse? - ipotizzai.

Lui annuì lievemente.

Avrei voluto porgli mille domande: quante cose non sapevo di lui? Così tante che non sapevo da quale partire.

- E che cosa dice questa ninna nanna?

Voltò la testa verso di me, storcendo un angolo della bocca in un sorriso enigmatico, estremamente affascinante.

- Nami, nami ya sghira /Yallah ghfi al haseera/ Nami fhodne idaya/ Bocra chamsi gayya / Hat daffina bhobbe cbir/ Bocra baba gayye/ gayye bchamse mdawwiya/ Ghazil lic bi ayounou châle/ Yi daffiki chitwiya - disse in arabo lentamente, ritmando le parole come una poesia.

Io spalancai gli occhi, più che sorpresa: davvero non mi aspettavo che avrebbe ripetuto il testo nella sua lingua.

Samir ridacchiò della mia espressione sbigottita. La sua risata rimbombò in quell'ambiente ampio; era di una tonalità profonda, che mi ricordava vagamente il suono di un corno.

Gli diedi una gomitata scherzosa in un fianco. - Hai finito di ridere di me? - domandai in un tono che doveva sembrare offeso, ma che invece mise in risalto la mia felicità: era la prima volta che lo vedevo ridere così di gusto.

Quando le ultime risa si dispersero, tornammo seri. Mi fissò con quegli occhi castani dalle sfumature ambrate; mi ricordavano il deserto accarezzato dal vento. Avevano qualcosa di caldo e intenso: sabbia cocente che granello dopo granello infuocava anche la mia anima.

Distolsi lo sguardo, conscia di quanto quello scambio di occhiate stesse divenendo intimo. - Allora? Mi dici che cosa vuol dire? -

- Dormi, dormi piccolina/dormi sulla haseera 1/dormi, stretta fra le mie braccia/domani il sole sorgerà/ci scalderà con grande amore/domani papà arriverà/arriverà portando con il sole che splende/ con affetto ti farà una sciarpa/ che ti scalderà tutto l'inverno - tradusse lentamente in francese, in modo da mantenere il più possibile il significato originale.

Non ebbi difficoltà a comprendere e rimasi estasiata dalla dolcezza di quelle parole. Sapevano di familiarità ed amore, così come il tono vellutato con cui Samir le aveva pronunciate.

- E' molto bella - commentai semplicemente, sebbene le parole non bastassero per comunicare ciò che mi agitava dentro quella canzone.

Samir, come al solito, rimase silenzioso, perso nei suoi pensieri insondabili. C'era qualcosa che volevo chiedergli, ma avevo paura: capivo dal suo volto quando cantava che c'era dolore nel suo passato e, penetrando troppo a fondo, temevo di ledere qualche instabile equilibrio.

Mi feci coraggio. - Perché la canti sempre?

Inevitabilmente si incupì e guardò di nuovo verso il muro davanti a sé.

- Non sei obbligato a dirmelo: in fondo per te sono un'estranea.

Si voltò verso di me, inchiodandomi con uno sguardo di rimprovero. - Non sei estranea: sei gentile, hai aiutato me e sei sempre qui. Forse io non merito.

Questa volta fui io a fulminarlo. - Tu meriti questo e altro: sei intelligente e volonteroso. Questo posto - indicai le pareti sporche intorno a me, con fare determinato - non ti rende affatto giustizia.

Mi sorrise. - Grazie, Michela. Io voglio raccontare: tu hai aiutato me, io voglio fare questo.

Mi misi in ginocchio, avvicinandomi; appoggiai una mano sulla sua, scura e leggermente callosa e lo guardai negli occhi, sebbene il suo sguardo e quel sorriso accennato mi destabilizzassero ogni secondo di più. Cominciavo seriamente a chiedermi perché Samir provocasse tutto quel tumulto dentro di me, quella sensazione di perdermi in acque così profonde da non sapere se sarei riuscita a risalire.

- Non voglio che ciò ti renda triste.

Strinse la mia mano nella sua, cercando forse di rassicurarmi. - Tu preoccupi troppo, lascia che racconti.

Annuii. Desideravo intensamente scoprire qualcosa di lui e del suo passato, eppure desideravo ancor più che non provasse altra tristezza: avevo la sensazione che avesse dovuto conviverci per molto nel suo Paese.

Appoggiò la testa al pilastro dietro di sé e questa volta si perse nelle travi del soffitto, senza lasciare la mia mano: sembrava ne ricavasse forza.

- La ninna nanna ricorda mia terra, ricorda quando mia madre teneva fra le braccia mia sorella Halima, elle était si petite... (era così piccola...) e cantava questa canzone. Aveva io sei anni e spesso je m'endormais avec elle (mi addormentavo con lei) - gli spuntò un sorriso - poi genitori morti e, no parenti, noi vivevamo in orphenilat (orfanotrofio). Allora cantavo io a Halima la ninna nanna: volevo che lei si sentiva a casa.

Mentre parlava ascoltavo con attenzione e gli stringevo sempre di più la mano: sentivo la sua voce farsi flebile e gli occhi divenirgli lucidi.

- Lei a été adoptée (è stata adottata) e io da solo vivevo in orphenilat. A diciotto anni ho cercato lavoro, ho cercato... ma non ho trovato niente. Avevo denaro e un'ultima speranza: andare via. Ho dato denaro per la barca e ora sono qui.

Ascoltai il suo racconto ad occhi bassi, sentendo nell'aria il dolore che provava e faceva male anche a me sapere ciò che aveva passato. Non potevo immaginare come si era sentito e in un certo senso mi dispiaceva non poterlo condividere. Se non altro speravo di riuscire a curare le sue ferite, far sì che non provocassero più dolore.

Eppure ero consapevole che vi era qualcosa che aveva omesso, qualcosa forse di ancor più doloroso. L'avevo percepito nella sua voce, quando aveva pronunciato quell'ultima frase.

- E il viaggio? - sussurrai, alzando leggermente lo sguardo. Me ne pentii immediatamente: quei ricordi dovevano essere anche più pesanti del suo passato.

- Tante persone in barca, stretti. Tutti avevano paura, tutti pregavano, speravano. Non sapevo se sarei arrivato... ho visto persone morire di fame o... dans la mer (nel mare) - le sue parole divennero poco più che un sussurro e dentro di me sentii un tumulto incredibile: quanto ero stata stupida a fargli quella domanda! La sua tristezza mi distruggeva.

- Da quando ho messo piedi su terra penso: potevo essere io uno di loro. Io ora potevo essere morto e ogni giorno penso questo. Ogni giorno.

Una lacrima gli solcò la guancia ancor prima che potesse fermarla.

Gli lasciai la mano e lo abbracciai, mentre inevitabilmente anche le mie guance erano attraversate da lacrime.

Lui stringeva me e io stringevo lui: aveva un abbraccio caldo e confortante, come il profumo esotico e invitante della sua pelle.

- Sei fortunata, Michela - mi disse, con la testa affondata nei miei capelli bruni.

Aveva ragione e dovevo ringraziarlo per avermi fatto comprendere quanto fosse vero. Il mondo da quando avevo conosciuto Samir mi pareva diverso da come gli altri me l'avevano descritto. Nulla sarebbe più stato come un tempo.

 

Da quando Samir mi aveva raccontato della sua vita e del suo viaggio lo vedevo sorridere sempre più spesso. Anche la ninna nanna, la canzone che cantava quando sentiva nostalgia della sua terra, la cantava sempre meno; sembrava essersi tolto un peso.

Nello studio della lingua era progredito e me ne accorgevo in momenti come quelli, in cui gli facevo fare qualche esercizio scritto. Eppure quel giorno era chiaro che aveva la mente da qualche altra parte: doveva essere uno di quei giorni in cui ripensava alla sua madre patria.

Appoggiai il quaderno di fianco a me, sul suo sacco a pelo. - Me ne vuoi parlare?

Mi guardò perplesso, storcendo un angolo della bocca. - Di cosa? -

- Della Tunisia. Ormai ti conosco: per quanto ti sforzi, non sei qui con me con la testa.

Non rispose, ma capii dalla sua espressione che avevo visto giusto: gli occhi bassi, la mascella contratta.

- Non ti interessa della mia terra.

Mi sentii un po' delusa dalla sua affermazione: mi sembrava di avergli dimostrato che mi interessava tutto ciò che riguardasse lui e il suo passato. Lo guardai dritto negli occhi dalle sfumature della sabbia del deserto, sentendo il cuore fare qualche capriola nel petto. - Io voglio sapere com'è la Tunisia, vorrei andarci almeno con l'immaginazione.

Sorrise e mi fece segno di alzarmi, per poi farmi camminare zigzagando fra i cumuli di mattoni. Uscimmo all'aria estiva, dove un leggero venticello faceva piegare l'erba attorno al casolare e le spighe del campo di grano.

Non avevo idea di cosa volesse fare, ma ero più che entusiasta di scoprirlo.

Si posizionò dietro di me, cingendomi la vita con le mani. Brividi caldi mi attraversarono il corpo a quel contatto. Mi disse di chiudere gli occhi e io eseguii.

- immagina sabbia, sabbia fino all'orizzonte. Il sole alto colora di rosso e arancione. Poi, davanti a te, vedi villaggio: case bianche e luminose per sole, nel verde di un'oasi. Lontano uomini su cammello vanno lì; forse sono mercanti...

Samir sussurrava quelle parole al mio orecchio, con tono lento e suadente. Il suo respiro mi accarezzava il collo dolcemente e mi provocava emozioni che ormai non ero più in grado di spiegarmi.

Nella mente le parole prendevano forma in immagini suggestive di posti mai visti, ma che mi parevano così reali... il sole bruciava davvero sulla mia testa, il vento mi faceva sventolare i vestiti.

- Entri nel villaggio, le strade strette ti portano alla piazza, al mercato. Tanti colori, urla di mercanti e lontano il canto di muezzin 2... profumo di spezie.

E il profumo lo percepii seriamente, ma non era quello di spezie: era una fragranza intensa di fiori ed oli esotici. Mi ricordava anche la sabbia al sole, così come gli occhi di Samir; forse lui stesso era sabbia cocente, così bruciante da riscaldare il mio cuore.

Aprii gli occhi; ancora le immagini mi vorticavano nella mente e mille sensazioni scuotevano il mio corpo.

Ci ritrovammo a guardarci, a pochi centimetri l'uno dall'altra. - E' così la mia terra - disse.

Sorrisi: io nei suoi occhi avevo trovato la mia.

Le distanze fra noi cominciarono ad essere colmate: mi strinse di più a sé, i nostri corpi aderirono, così come le labbra.

E mentre ero lì, fra le braccia di un giovane proveniente da una realtà così diversa, a scambiarci un bacio dolce e allo stesso tempo ardente, capii che era ciò che più volevo. Era stato un desiderio troppo a lungo represso che mi ero ostinata ad ignorare.

Ma ora che le mie labbra avevano trovato le compagne perfette, che il mio cuore saltava di gioia a quel contatto, non potevo più essere cieca.

La realtà mi travolse con la potenza di un terremoto, sconvolgendo ogni cosa: lo amavo.

 

- Ti devo trovare un lavoro - affermai decisa, sistemandomi meglio fra le braccia di Samir.

Non ero mai stata così felice come in quegli ultimi giorni: avevo provato emozioni che non avrei nemmeno immaginato di poter sentire. Avrei fatto di tutto per lui.

Lui scosse la testa e mi sistemò una ciocca di capelli bruni dietro l'orecchio. - Aiuti troppo me -

- e non smetterò mai di farlo.

Scosse di nuovo il capo. - Devo fare da solo.

Mi misi in ginocchio e lo guardai con rimprovero. - Ti aiuterò - affermai, in un tono che non ammetteva repliche.

Samir sorrise e mi abbracciò: aveva ormai capito che su queste cose era inutile discutere.

- Ana uhibukki- mi sussurrò in un orecchio.

Gli lanciai un'occhiata perplessa. - Che vuol dire? -

- Je t'aime (ti amo).

Per qualche secondo non riuscii a credere alle mie orecchie: stavo forse sognando? Era il primo ragazzo che pronunciava qualcosa di simile rivolto a me e la cosa più bella, quella che più mi faceva girare la testa dalla gioia, era che io ricambiavo quel sentimento bruciante.

- Ti amo anche io - risposi, col cuore che palpitava senza tregua.

D'improvviso un rumore rimbombò all'interno dell'edificio, il leggero cigolio di una porta che si apre. Voltammo contemporaneamente la testa e lo vidi: mio fratello Filippo era lì sulla porta, coi capelli neri spettinati e le scarpe slacciate come al solito.

Sapevo perfettamente cosa significava e, da come mi guardò, capii che anche Samir lo aveva capito grazie ai miei racconti: avevo profanato il tempio della nostra infanzia. Filippo si sarebbe vendicato in un modo che non potevo concepire: raccontando ai nostri genitori di Samir. E allora che ne sarebbe stato di lui? Denunciato alla polizia e rispedito di nuovo in Tunisia. Non potevo proprio permetterlo.

Vidi quel ragazzino di dodici anni sbattere la porta da cui era entrato e correre sotto il sole cocente di agosto.

Samir mi lasciò, mi fece segno di andare e io corsi a perdifiato, seguendo la figura di Filippo fra le spighe di grano.

Con fatica riuscii a raggiungerlo e a convincerlo a non dire nulla. Gli dissi che quel luogo sarebbe stato sempre nostro, con o senza Samir e lui mi credette: aveva dodici anni, ma non era un ragazzino stupido.

Quando tornai al casolare, però, Samir era sparito. Non c'era più il suo sacco a pelo nel solito angolo, non mi accolse con un dolce sorriso.

In cuor mio sapevo che non sarebbe tornato. Mai più avrei rivisto quegli occhi intensi sfumati d'ambra, mai più il suo profumo esotico mi avrebbe accarezzato le narici né avrei più potuto ascoltare la sua ninna nanna.

E quanto faceva male! Avevo raggiunto vette così alte da cui non si poteva scendere senza distruzione.

Quasi feci fatica a realizzare ciò che era accaduto, rimasi immobile come uno dei blocchi di cemento prima di scoppiare a piangere; Samir se n'era andato, portato via da un soffio di vento del deserto.

 

Ancora oggi, dal mio appartamento non lontano dalla casa dei miei genitori, vedo il vecchio gigante della campagna e il mio cuore manca inevitabilmente un battito; ho lasciato l'anima sul pavimento sporco, insieme ai mattoni caduti dal tetto. Mai dimenticherò quell'estate ricca di sorprese, l'estate di Samir.

Mi aggiusto i capelli davanti allo specchio, notando quanto il mio viso sia cambiato ben poco da allora: la fossetta sul mento, le guance paffute, la stessa carnagione pallida. Soltanto lo sguardo si è fatto leggermente più severo.

Afferro la giacca del tailleur e, come tutti i giorni, corro allo studio commerciale in cui lavoro.

La mia collega mi porge immediatamente una nuova cartella. - Si tratta a quanto pare di un nuovo cliente: Samir Fadli della S.F. Import/ Export.

Apro la cartella dove si trova qualche documento da analizzare. - Interessante: mi pare di aver già sentito il nome di questa azienda.

La mia collega annuisce e si siede alla sua scrivania. - Infatti ha molto successo ultimamente. Pensa che ho sentito dire che il proprietario fosse un semplice muratore appena arrivato dal Maghreb, qualche ricco signore ha notato la sua intelligenza e ha voluto finanziargli gli studi.

Mi siedo alla scrivania, di fianco a quella della mia collega: si chiama Stefania e ormai da qualche anno siamo anche divenute amiche. - E' bello sapere che al mondo c'è ancora un po' di benevolenza. Senti... per che ora arriva?

Stefania dà uno sguardo all'orologio. - Più o meno tra cinque minuti.

Il campanello suona proprio in quel momento. - A quanto pare è in anticipo - commenta Stefania con un leggero sorriso.

Poco dopo sento ticchettare dei passi nell'ufficio, ma non stacco gli occhi dai documenti. - Buongiorno - saluto non appena odo qualcuno sedersi dall'altra parte della scrivania.

- Buongiorno.

Quella voce fa fare un balzo al mio cuore e mi decido ad alzare lo sguardo. Due occhi scuri dalle sfumature di sabbia cocente mi fissano, suadenti come li ricordavo, e in un attimo mi sembra di avere ancora diciassette anni. Sono gli occhi di Samir, quel Samir, il ragazzo che in fondo al mio cuore non ho mai smesso di amare.

 

 

 

1 Si tratta di un tappeto tradizionale

2 Per chi non lo sapesse si tratta di colui che, nella religione islamica, richiama i fedeli alla preghiera dal minareto della moschea.


***

Note dell'autrice: 

Questa è una storia che ho scritto un po' di tempo fa, ma che non ho pubblicato subito qui perché me n'ero molto affezionata... avrei voluto utilizzarla per un qualche concorso letterario, ma alla fine ho deciso di proporvela perché era davvero un peccato, a mio avviso, che restasse relegata in un angolino del mio computer. 
Il mio intento è di riuscire a emozionarvi come ha emozionato me nel scriverla e di dare uno spunto di riflessione su un tema che, soprattutto in questo periodo, è molto attuale. 
Ringrazio chiunque abbia letto questa mia creazione e chiunque lasci una piccola recensione per farmi sapere cosa ne pensa. 
Alla prossima!

   
 
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