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Autore: takumakakinouchi    15/10/2008    0 recensioni
Una fanfiction originale sui sentimenti di un ragazzo, una boccetta di ansiolitici, una ragazza, una telefonata, un'amica, una nonna. Dettagli.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nebula

L’ingresso a scuola delle classi offriva sempre la stessa scena: una lenta processione di ragazzi che sciamavano chiacchierando fino alla rampa delle scale, poi le salivano lentamente, in un brusio di timori e speranze sussurrate nell’aria sonnacchiosa del mattino, per disperdersi infine nelle aule, frammentando il fiume di conversazioni in tanti rivoli di discorsi, sempre più affrettati, man mano che il pensiero di sottofondo della campanella incombente aumentava la sua frequenza di avvertimenti, innescando negli studenti quella specie di ansia controllata associata ad ogni nuovo giorno di scuola.
“Hai sentito?”, disse trafelata Yuki, quasi all’orecchio della compagna. “Sembra che Takuma non verrà più!”. Quell’affermazione ineluttabile risuonò come il tonfo della cartella poggiata sul banco.
“Lo immaginavo…ormai è quasi un mese che non si presenta a scuola..”, rispose Rika, con un’aria accigliata e gli occhi fissi sulle proprie scarpette nere.  Un velo di polvere sulla punta della scarpa destra.  Meglio andarsi a sedere, via.  Eppure..un leggero dubbio. “Ma..”.
“Cosa??”. Yuki non mancò di notare la battuta di arresto di Rika, che si era fermata a pochi passi dal proprio banco. Rika si voltò indietro verso la compagna.
“Non pensi che..ecco, non sarebbe il caso di andarlo a trovare a casa? O di provare almeno..a telefonare?”.
“Non gli hai già mandato l’SMS l’altro giorno? Non ti ha risposto, no? Quello vuole starsene per i fatti suoi! Poi se la sua famiglia l’ha comunicato anche alla scuola, si vede che proprio non c’è speranza che torni!”.
“Ma io vorrei semplicemente capire cosa è successo..”, concluse Rika, mordendosi il labbro inferiore.
“Uhm..non potresti chiedere a Chie? Non era lei che faceva parte della band di Takuma?”.
“Già…ma lei credo sia l’ultima persona che abbia voglia di parlare di questa questione..”.
Yuki intanto si era accomodata al proprio posto; subito si era arresa alla scomodità, e aveva poggiato i gomiti sul banco, il braccio sinistro ad angolo retto sul piano levigato del banco, e il destro sollevato ad accogliere il viso nel palmo  della mano.
Rika si avviò verso il proprio banco, anche perché la classe si era riempita, e tutti o quasi erano già seduti in attesa dell’arrivo del professore. Qualche ragazzo più audace stava seduto sul davanzale, spalle alla finestra e gambe distese sul banco, le suole delle Converse di tela in bella mostra.
Ad ogni modo tutti scattarono in piedi all’arrivo del professor Mikami, docente di Giapponese in quella scuola da più di 15 anni..tutti in piedi, in un batter d’occhio, chi più chi meno rumorosamente a seconda della posizione di partenza.
Chie quella mattina arrivò in ritardo. Aveva anche scordato di prendere l’ansiolitico. Una volta, parlando con Takuma, aveva scoperto di prendere lo stesso farmaco di sua nonna. Sedendosi al proprio banco, tra gli sguardi indagatori e il chiacchiericcio dei compagni, la ragazza si abbandonò al torpore della prima ora di lezione.
Un mese prima, il 27 Gennaio, qualcosa era successo. Qualcosa era cambiato. Nella vita di Takuma.  Qualcosa che gli aveva reso difficile continuare a occupare quel banco, ora vuoto e malinconico, al centro della classe.
“I have a book!” I don’t have a book!”. L’accento del professore di Inglese era la cosa più ridicola che gli fosse capitato di ascoltare. Per questo, come ogni venerdì, Takuma aveva trascorso quella lezione isolato acusticamente, grazie ai decibel sparati dagli auricolari del suo lettore Mp3.
Cavolo, quella mattina si era organizzato proprio bene!! La notte prima aveva persino ricaricato il lettore-fatto in sé rarissimo!-, quindi probabilmente la batteria sarebbe durata per tutto il giorno! Anche sulla via del ritorno, Plain Simple a palla!!
Che bello! Forse, camminando da solo per le strade conosciute a memoria, sarebbe anche riuscito ad emozionarsi.. Ma non c’era da sperarci troppo! Lui era un emo senza il lusso delle lacrime: il suo cuore non gli faceva neanche quel regalino, chissà perché poi..
Campanella dell’ultima ora. La lezione era finita. La giornata scolastica era finita. GAME. SET. PARTITA! Rapidamente, Takuma indossò l’auricolare, e toccò il touch screen navigando tra i brani del lettore. Stava iniziando ad accennare sottovoce, il più piano possibile, un motivetto degli Hungry Heart, quando vide le labbra del suo amico Satomi muoversi.
“I have a card…I don’t have a card!”.
“Eh, cosa dici Satomi??”. Takuma era stato costretto a togliersi l’auricolare per sentire cosa stesse dicendo il suo amico, mentre la baraonda della fine delle lezioni terminava in un trionfo di sedie strascicate, di zaini fatti in fretta e furia, di urla represse a stento: il rito liberatorio della campanella dell’uscita.
“Dicevo: I don’t have a card! Ho controllato il mazzo di Magic e me ne manca una, Dio mio!! Dove cavolo sarà finita??..Il mio deck..l’invidia di tutti i deck!! Irrimediabilmente incompleto!!”.
“…I don’t have a clue!”. A Takuma non era rimasto che giocare di sponda, rispondendo all’inglese con l’inglese.
“Come? Ma che stai dicendo?”. Satomi era rimasto di sasso: il suo inglese era molto limitato. Quello di Takuma era stato invece forgiato da anni e anni di assidue pratiche di copia e incolla da lyrics.com.
“Dico che non ne ho idea!! Che cavolo ne posso sapere io, di dove metti le card?!”.
Niente, Satomi era rimasto con lo sguardo inebetito a fissare il vuoto davanti ai suoi occhi, mentre il resto della classe era già uscito da 10, 11, 12 secondi..
“Mi dispiace..”. Vedendolo in quel modo, Takuma si era accorto di essere stato un po’ troppo insensibile. Ultimamente gli capitava troppo spesso di essere sgarbato con gli altri. Anche con i suoi amici. Con la nonna, anche con lei! Perché non riusciva a parlarci più di tanto con la nonna, ultimamente? Le cose erano cambiate, da quando la mamma era andata via. Andata via, meglio metterla così. Le parole che inchiodano al muro, era meglio lasciarle perdere. Meglio non scherzare, per non farsi  troppo male. Ci stava già pensando la vita a quello, eheh.
“Dai, intanto usciamo, dai! Vedrai che la trovi, sarà a casa! Non può essersi smaterializzata!”. Takuma se l’era quasi presa a cuore, quella disgrazia capitata al suo amico..gli aveva persino lanciato un tenero sorriso, uno di quelli che non sapeva negare alle persone a cui voleva bene.

Scansando dei compagni fermi in gruppo sulle scale, anche quella mattina Takuma e Satomi avevano guadagnato posizioni e si erano portati in pole nella gara di fuga dalla scuola. Che cosa scema…ma a loro era sempre piaciuta quella storia di scappare il prima possibile..Scappare da quel posto anonimo, da quel posto pieno di sguardi indiscreti, accerchianti, invadenti.
Anche quella mattinata non era stata un granché: le lezioni, i compagni, il niente; a Takuma era piaciuto solo il momento di andare via. La prospettiva di un pomeriggio intero. Quanto gli sembrava immenso, ogni giorno, il pomeriggio.
Uno spazio infinito, per fabbricare sogni.
Quei sogni che ormai non faceva più, ma che dentro battevano forte, e gli parlavano ogni notte e parlavano,  ormai in una lingua morta, adesso che aveva lasciato la casa dei suoi.
“Ciao, Takuma!”.
“Ciao..”. All’angolo di una strada alberata, che in primavera fioriva del rosa dei ciliegi, come al solito lui e Satomi si erano salutati. Da un anno e mezzo a quella parte, da quel punto in poi non proseguivano più assieme, diversamente da come facevano un tempo.
La strada dei ciliegi non apparteneva più a Takuma. La strada della mamma, non era più sua. Brutta cosa. Brutta. Da piangere.
Roba da non crederci, eppure, un anno e mezzo prima di allora, Ichigo, tornando dalla spesa, ci era finita davvero sotto un camion; lei che deci anni prima aveva perso il marito, e aveva cresciuto Takuma da sola..
Takuma-kun, il ragazzo orfano: si vergognava quasi di questa sua condizione estrema. Chissà com’è, non riusciva più a trovarci gusto nel crashare le vetrine dei negozi! Tanto non c’era nessuno a rimproverarlo, a prenderko a schiaffi: sapevano di buono quelle mani, quelle urla, quelle sere a prometterle che non l’avrebbe fatto più.
Era diventato un ragazzo senza emozioni. O almeno, così pensava, quel giorno di Gennaio, in cui, come al solito, aveva proseguito verso casa, dopo avere abbandonato Satomi alla sua strada alberata.
Aveva continuato a passi svelti,  sulle note dei Plain Simple, finché non ebbe raggiunto la soglia di casa. Sull’uscio, era sopraggiunta la consapevolezza: aveva scordato le chiavi, cavolo! Un bel guaio, quello! La nonna era quasi sorda. Si era armato di santa pazienza, e aveva preso a tamburellare con le dita il campanello. Se e quando la nonna avesse sentito, ci avrebbe messo comunque un bel po’ ad arrivare alla porta: spinto da questa considerazione, Takuma si era seduto sul basso gradino davanti al portone, in quel freddo mattino d’inverno, intabarrato nel suo cappottino di loden verde oliva.
“Arrivo, arrivo..!”, era giunta infine la voce della nonna da dietro la porta che, qualche istante dopo, si sarebbe spalancata, sorprendendolo ad alzarsi dal gradino, per poi voltarsi e mostrarle un sorriso di scusa. “Ho scordato le chiavi..”.
“Entra, entra..”. Takuma sapeva bene che fatica fosse ormai per lei muoversi dentro casa. Perciò  gli era molto dispiaciuto, quel giorno, causarle un tale fastidio per colpa di una distrazione.
“Mangio qualcosa al volo, che poi devo andare in saletta”, aveva biascicato, quasi vergognandosi di lasciarla subito dopo pranzo. Di lasciarla sempre sola, in quei lunghi pomeriggi. Takuma si domandava spesso se fosse giusto passarli a fabbricare sogni.. La nonna aveva un’idea precisa sui sogni: portano dritti alla follia. Testa sulle spalle, gli aveva sempre insegnato. Chissà perché Takuma non si arrabbiava quasi mai per le prediche: né per quelle della mamma anni addietro, né per quelle della nonna.
Come annunciato, Takuma aveva lasciato casa rapidamente, dopo aver trangugiato rapidamente due sandwich annaffiati da un bicchiere di Coca-Cola Zero. Si era concesso anche una porzione di patatine fritte, che la nonna sapeva trasformare in qualcosa di delizioso.
Subito dopo, si era fiondato in saletta, il luogo dove lui, Satomi, Hiroshi e Gon provavano quotidianamente o quasi i pezzi del loro repertorio. Tra due settimane si sarebbero dovuti esibire al Redder than Blood, un locale molto in voga nell’ultimo periodo. Takuma era giunto a destinazione prima di tutti, e aveva quindi aperto “bottega”. Sulla porta d’ingresso del piccolo seminterrato insonorizzato campeggiava già il logo del loro prossimo live; l’aveva realizzato Hiroshi con il Photoshop, e non c’era dubbio che fosse venuto bene: c’erano le foto dei componenti la band, in versione posterizzata; sopra, le sigle degli strumenti di ciascuno: Takuma: VX-GTR; Satomi: DRM; Hiroshi: BXX; Hideki: GTR-VX2. In alto poi il nome del gruppo, la data, luogo e orario dell’evento. Che figata! Ogni volta che riguardava quella locandina, Takuma si sentiva eccitata e spaventato al tempo stesso. Non avevano mai suonato in un locale così grande, così importante. Lui non aveva mai cantato in un posto come il Reddere than Blood. Chissà quanta gente ci sarebbe stata: ad applaudirlo, a fischiarlo, o peggio ancora a ignorarlo.
Entrando, aveva realizzato che il locale era abbastanza caldo nonostante tutto. Aveva però acceso la stufetta elettrica in dotazione, insufficiente certo ma meglio che niente. Dopodiché, si era seduto alla tastierina, quella con cui spesso improvvisava pezzi nuovi. Dopo sole tre note, però,  aveva sentito qualcuno bussare al portoncino.
“Entra, è aperto!”, aveva detto in tono squillante per farsi sentire.
“Ciao…”. Era lei. Era Chie. Cavolo, era lei.  L’aveva sospettato. Poteva solo essere lei. Ricomporsi. Un secondo di emozione come un fiotto di sangue, una scarica di adrenalina, un segnale di allarme rosso. Ancora peggio. Ancora meglio. Ancora lei. Sempre una freccia al cuore.
“Ciao..”
“Che facevi?”, Chie era avanzata lentamente, facendosi strada tra la batteria e l’amplificatore. Le parole avevano rimbalzato contro i cartoni per  uova, piazzati dai ragazzi lungo le pareti  nei pomeriggi di Settembre del 2003: per migliorare la risposta acustica della stanza, ovvio…
“Niente, cercavo le note di una canzone..Senti…”
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“Ma no..scemo, non fa così””. In quel momento, mentre lei ridacchiava, Takuma aveva pensato che fosse dolcissima.
“Sì, sì, è sbagliata..hai ragione..”. L’aveva guardata con un sorriso languido. Forse stupido. Ma chissene. Forse troppo sincero.
“Ieri ti ho perso e non so perché…”. Chie si era messa a canticchiarla, allungando la e finale per riempire il tempo dell’ultima nota.
Che bello. Era raro sentirla cantare così, per gioco. “Comunque non so se siano proprio le note giuste..”
“È troppo bella..”. Le piaceva tanto quella canzone. Piaceva a tutti e due.
“Senti, ma..davvero non ti va di unirti a noi? Al gruppo?..”
Lei era stata lì lì per interromperlo, quando lui aveva aggiunto: “Hai provato solo una due volte, sai..siamo migliorati, hai visto..”
“Lo so..è che..veramente mi hanno chiesto di cantare in un altro gruppo..”.
Qualcosa gli aveva annebbiato la vista, qualcosa gli si era strozzato in gola: forse un’emozione, una scarica improvvisa, un segnale d’allarme.
Poi lei aveva aggiunto: “Un mio amico ha fondato questo gruppo da poco..”
Non le aveva detto quello che gli era venuto subito in mente. Quello che anche lei sapeva bene. Perché non aveva accettato di suonare con i Secret e adesso accettava l’offerta di un altro gruppo? Domanda che ne nascondeva un’altra. E quella andava dritto al cuore. Basta: inghiottire quel groppo in gola.
 Soltanto, le aveva detto: “Ah..ho capito….andrai benone Chie..sicuramente”. Aveva abbassato lo sguardo. Si era piegato in avanti, poggiando per un istante il mento sulle nocche serrate.
Quel giorno lì di Gennaio, era successo qualcosa. Nel suo cuore.
Due giorni dopo, aveva preso a non venire a scuola. L’unica cosa che faceva era provare in saletta, con gli altri, da solo, fino a stare male.
La mattina, la nonna provava a convincerlo ad alzarsi per andare a scuola. Ma lui si rifiutava, restava sotto le coperte. “Non ho voglia”.
“Non ho voglia”. Anche quella mattina rispose così. Si alzò solo verso mezzogiorno, spalancando la finestra della sua cameretta per lasciare entrare correnti d’aria gelida e pezzi di cielo terso.
Scese giù, dove un bricco pieno di caffè lo aspettava in cucina. Si versò una tazza e la mandò giù quasi in un sorso. La nonna era in soggiorno, stava riposando un po’ sul divano; aveva speso la mattinata a rassettare, e a cercare di mandare via l’ansia per Takuma con le gocce di ansiolitico prescrittele un anno e mezzo prima, dopo la morte della figlia.
“Sto uscendo…”, le disse lui, tenendo gli occhi bassi, mentre attraversava il soggiorno dirigendosi verso l’ingresso.
“Ma è quasi ora di pranzo..”, lei ribatté con meno forza del solito. Era stanca. Tanto. Di vederlo così triste.
“…”. Non disse nulla. “Ciao”, si limitò ad aggiungere.
All’uscita di scuola Rika si avvicinò timidamente a Chie. “Scusami..”.
Chie si voltò di scatto, mentre il resto della classe fluiva inesorabilmente fuori. “Sì?”. Non erano amiche, e non si erano mai parlate più di tanto.
“Ascolta..c’è..qualcosa di cui vorrei parlarti..Ti va se ci fermiamo un po’ in cortile?”.
“Ok…”. Chie era un po’ sovrappensiero. Non sospettava che l’argomento di cui voleva parlarle Rika fosse proprio quello che le stava occupando la mente da qualche giorno.
Le due ragazze si accomodarono sulla panchina.
Dopo qualche attimo di esitazione, Rika ruotò leggermente in direzione di Chie.
“Sai cosa è successo a Takuma?”
“No..cioè..non lo sento da un po’. Ho provato a mandargli un messaggio, ma non mi risponde”. La timida risposta di Chie non riusciva a nascondere l’imbarazzo che provava a parlare di lui. Lui che le girava in testa così spesso. Chissà perché poi.
“Non..hai provato a telefonargli? Ad andare a casa sua..?”. Rika si interruppe, notando il turbamento sul viso dell'altra. “Ecco..voglio dire..eri quella con cui lui si confidava. E anche tu..era un amico importante per te. Adesso questa cosa della scuola, è grave..rischia di perdere l’anno!”
“Sì..ma non so..Non credo che abbia voglia di parlare con me!”. Chie si fermò prima di aggiungere che si sentiva anche la causa del suo abbandono. Takuma non veniva più a scuola per lei.
“Vuoi dire che..è successo qualcosa..avete litigato e ora lui non viene più a scuola perché non vuole incontrarti?”. Rika pronunciò quelle parole abbassando gli occhi, quasi stupita di aver avuto il coraggio di farle quella domanda.
“Voglio dire..non credo sia solo quello il motivo. O forse mi sbaglio, è solo una mia impressione, e c’è un’altra storia dietro..”. Non era convinta delle sue ultime parole, ma allo stesso tempo non aveva la certezza di essere così importante per lui. Era certa però che Takuma fosse arrabbiato con lei.
Il cellulare di Chie squillò.
“Scusa…”. La ragazza frugò nella tasca per vedere chi fosse. “…”. Era lui. Guardò per un attimo il display, che si illuminava a intermittenza, mostrando il nome di chi stava chiamando. “Takuma..”.
Rika disse d’istinto..”Rispondi..”
Chie esitava. Uno squillo anora. "Forse non sta chiamando, forse è solo uno squillo insistente..", si trovò a pensare, vittima di una strana paura.
“Dai, forse vuole fare pace..”, accennò Rika.
“Pronto..”. La voce di Chie tremava appena dall’emozione.
“Ehi..sono io..”. Un attimo di imbarazzo. “Volevo solo sentirti”. Takuma sorrise lievemente.
Chie sorrise ancora più lievemente. “Come stai?..”.
“Bene..dai…”-
“Non torni a scuola?”.
“..Dai..Domani o massimo dopodomani torno..”. L'aveva deciso in quel preciso istante.
“Va bene..”.
“Allora..ciao..ci vediamo..ok?”.
“Sì..ciao….”. Allungò la vocale finale, per non dare l’impressione di volere chiudere.
Takuma attaccò.  In cielo, passò rapidamente una nuvola. Chissà perché, gli venne in mente la nonna, i piatti che sicuramente stavano già in tavola, e le gocce d’ansiolitico che doveva ricordarle di prendere senza sgarrare.
Si trovava su un cavalcavia stradale. Pochi minuti prima aveva pensato di buttarsi giù, da un’altezza sufficiente per sfracellarsi. Prima di farlo, però, aveva deciso di provare a chiamarla. “Tanto non risponde. Se non risponde, mi butto giù”.
Tornando a casa, canticchiò sommesso.
“E sento un po’ di nostalgia ma forse è solo nella testa..”.
 FINE

Nebula è una fiction originale scritta per il contest  FAK!(…)Challenge! : First-Aid Kit Challenge. L’oggetto scelto è il #36: Ansiolitico. È una storia di dettagli. Anche l’oggetto del FAK è una tra le tante impressioni che ho voluto mettere su carta. È una storia semplice.
Grazie a chi ha avuto la pazienza di leggerla.

Shin-chan a.k.a. fabychan
mailto:ginnyweasley@tin.it


Note
La canzone di cui Takuma, sbagliando le parole, tenta di accennare le prime note è Devastante dei Vanilla Sky.
La canzone a cui accenna alla fine della storia è Fragile dei The New Story.
 Tutti i diritti sono proprietà dei rispettivi autori.
Plain Simple e Redder than Blood sono nomi d’invenzione.
  
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