Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Ortensia_    18/10/2014    1 recensioni
"Kuroko Tetsuya, giovane promessa del basket conosciuto come: "Il sesto uomo fantasma della Generazione dei Miracoli", trovato impiccato nel suo piccolo appartamento di periferia.”: questo è ciò che i giornali riportano in una fredda mattina di febbraio.
Tuttavia basta una più attenta osservazione per capire che non si tratta di suicidio e, fin da subito, il cerchio dei presunti colpevoli si restringe attorno ai grandi talenti del basket, a coloro che più sono stati vicini a Kuroko. Adesso che il nodo di congiunzione si è sciolto, gli ingranaggi si romperanno di nuovo.
«Il nodo di congiunzione che li aveva tenuti uniti si era sciolto, distrutto in una piovosa giornata di febbraio: le anime che si erano ritrovate grazie a Kuroko sarebbero ricadute molto presto nella malattia, si sarebbero allontanate e non avrebbero più avuto occasione di riavvicinarsi.
Da quel giorno in avanti, la spaccatura che Kuroko era riuscito a riparare si sarebbe tramutata in una voragine nera che li avrebbe risucchiati tutti, li avrebbe consumati e distrutti, dal primo all'ultimo.»

Accenni: KagaKuro; KuroMomo (altri, leggeri leggeri)
Coppie: AoKise
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kiseki No Sedai, Satsuki Momoi, Taiga Kagami
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo VI


Silenzio.
Ecco cosa era venuto dopo: solo silenzio.
Murasakibara non riusciva a staccargli gli occhi di dosso neppure per un istante, deluso com'era da quella faccenda che ormai aveva assunto una piega troppo scomoda e amara per lui.
Himuro, al contrario di lui, sembrava così convinto e soddisfatto di quella punizione che gli venne da chiedersi se non fosse davvero l'assassino di Kuroko, se non considerasse quella prigionia come una sorta di espiazione.
Sembrava trarre un certo sollievo dalle sbarre, e quel sorrisetto che gli increspava le labbra ogni volta che lo guardava gli metteva i nervi: Himuro era felice di aver trascinato con sé anche lui, era felice di non dover spartire la cella con degli sconosciuti e che presto qualcun altro avrebbe subito i suoi stessi trattamenti giudiziari e penali.
Dopo due giorni e due notti in cella, immersi e soffocati dal più lugubre dei silenzi, Murasakibara era finalmente riuscito ad elaborare il tutto e a realizzare un pensiero che mai avrebbe pensato potesse annidarsi nella sua testa - e nel suo cuore -.

In un tacito accordo, ognuno di loro possedeva una metà della cella, e da qualche ora Murasakibara era seduto a terra, sotto le inferiate, e osservava Himuro con un'espressione diversa dal solito: nei suoi occhi non c'erano né pigrizia né noia, e neppure il sincero affetto che prima provava per lui, ma solo tanta rabbia e delusione.
Schiuse le labbra, ma le parole si accartocciarono e gli diedero la sensazione di starlo soffocando: non riusciva neppure a chiamarlo Muro-chin.
Murasakibara si zittì nuovamente e per almeno un altro paio di minuti si limitò a fissarlo in silenzio: c'era qualcosa che doveva dirgli, dopotutto glielo aveva chiesto Himuro stesso di essere sempre sincero con lui.
«Ti odio ...» un sussurro, quasi uno spasmo di sofferenza, e finalmente il pensiero che aveva richiesto un'elaborazione e un'accettazione lunghe due giorni e due notti era venuto fuori.
Atsushi abbassò lo sguardo e si avvolse le ginocchia con le braccia, congiungendo le mani e osservando per qualche istante l'intreccio delle dita lunghe e robuste come radici: proprio come un bambino, si sentiva già in colpa per ciò che gli aveva detto, ma erano parole a cui sentiva di dover dar voce prima di morire chiedendosi se fosse giusto o meno provare quel sentimento e tenerglielo nascosto, ostentando una simpatia che non esisteva più.
A Himuro, che continuava a tenere gli occhi fissi oltre le sbarre, quelle parole risuonarono come un ronzio confuso e lontano, tanto che inizialmente sembrò perfino incapace di rispondergli.
Infine, dopo attimi che all'altro parvero interminabili e terribilmente snervanti, Tatsuya si voltò lentamente e forzò un sorriso.
«Scusami, Atsushi: che cosa hai detto?»
Murasakibara lo guardò in silenzio, senza che la sua espressione mutasse: ancora si azzardava a chiamarlo per nome? E gli sorrideva? Avrebbe voluto dirgli di smetterla, ma pensò fosse meglio farlo gradualmente e, pur con fatica, si trattenne e impedì all'ira di soggiogarlo - dopotutto la loro amicizia era stata lunga ed era finita appena due giorni prima -.
«Ti odio.» Murasakibara ripeté, questa volta con più decisione.
Himuro, dal canto suo, rimase a guardarlo in silenzio e ampliò a fatica il sorriso, questa volta senza mascherare il dolore ma, anzi, dimostrandolo attraverso il tremore delle labbra, il viso appena inclinato e una luce docile negli occhi.
Tatsuya non disse altro e tornò a voltarsi lentamente, rivolgendo di nuovo la propria attenzione oltre le sbarre: gli aveva chiesto scusa con gli occhi, ma quella sarebbe stata l'ultima volta, e lo sapevano entrambi.
Era troppo tardi, ormai, per chiedere scusa.


«Daiki, ascoltami.»
Aomine alzò gli occhi al cielo e schiuse le labbra in un brontolio di esasperazione: non ne poteva più di Akashi e delle sue teorie.
«Perché continui ad insistere? Hanno scoperto la loro colpevolezza e li hanno arrestati, punto.»
«Ma Atsushi non è colpevole.» pur usando un tono di voce più basso e un timbro decisamente più calmo, Akashi riuscì a frenare le continue lamentele di Aomine.
Daiki rimase in silenzio per qualche istante, vittima dello sguardo imperturbabile e tagliente di Akashi: perché continuava a parlargliene? A cosa serviva, visto che ormai era fuori dal caso? Se desiderava che le indagini prendessero un'altra piega si sarebbe dovuto rivolgere ad altri poliziotti, non certo a lui.
«Tu lo vai a trovare, lui nega di essere l'assassino, e tu gli credi?» Aomine brontolò e continuò ad avanzare, - nella speranza di mettere un po' di distanza fra lui e l'altro -, mentre le dita cominciarono ad insinuarsi fra la camicia e la cravatta per allentarne il nodo.
«Non è questione di fiducia.» Seijuurou, però, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi scappare la sua vittima e accelerò il passo.
«Lo vedo.»
Aomine gli rivolse un'occhiata confusa e, capendo che non sarebbe riuscito a seminarlo, rallentò nuovamente, traendo un sospiro di sollievo non appena la stretta della cravatta attorno al collo si fece più blanda.
«Gliel'ho visto negli occhi: non è stato lui.»
«Beh, se non è stato Murasakibara chi altri potrebbe aver collaborato con Himuro? E come me la spieghi, quella lettera?»
Akashi rimase in silenzio per qualche istante, poi lo guardò negli occhi e gli rispose in modo del tutto inaspettato.
«Sei un cavallo a cui non è mai stato tolto il paraocchi, Daiki.»
Aomine aggrottò la fronte e arricciò il naso, rivolgendogli un'espressione piena di disappunto.
«Mi hai paragonato ad un cavallo?»
«Sei un poliziotto, dovresti capirlo prima di me.» Akashi ignorò la protesta e tornò a guardare davanti a sé, parlando con tutta la calma del mondo.
Aomine, dal canto suo, pensò che fosse impossibile capire qualcosa prima di Akashi, e non solo per lui, ma anche per tutti gli altri, per cui non rispose alla provocazione e lasciò che l'altro continuasse a discorrere da sé.
«Quella lettera è un insulso tentativo di depistaggio, di incolpare un innocente. Per quanto riguarda Himuro, non si può escludere che lui possa c'entrare qualcosa, ma in che modo? Hai pensato a tutte le possibilità esistenti?» Akashi fece una piccola pausa e, ascoltando per qualche istante il silenzio di Aomine, decise di continuare «Himuro potrebbe non essere la mente, ma l'assassino vero e proprio, ma ha accusato Murasakibara di essersi sporcato le mani per un'attenuazione della pena, anche se è strano, perché presentandosi da Kagami con una pistola è come se si fosse costituito alla polizia.»
«Quindi?»
«Quindi potrebbe essere testimone di un avvenimento che noi non conosciamo e obbligato dal vero assassino a scontare la pena carceraria al posto suo, o ancora essere il braccio destro dell'assassino, che ha deciso di usarlo come pedina e lo sta sfruttando meglio che può.»
Aomine rimase in ascolto e si limitò a prendere una grande boccata d'aria, confuso da tutte quelle teorie che Akashi aveva preso a sciorinare con fin troppa rapidità e scioltezza: probabilmente stava sveglio la notte a pensare e a fare schemi, cercando di immergersi nella mente di un assassino, e il che era piuttosto inquietante.
«Ma c'è un'altra possibilità che, fra parentesi, è quella che mi convince più di tutte: Himuro potrebbe essere innocente, ma ha accettato di scontare la pena per un delitto non commesso perché l'assassino gli ha promesso qualcosa in cambio.»
«È da stupidi.»
«Non se sei un tossicodipendente bisognoso di soldi. Guarda caso Himuro si è proclamato "mente" e ha accusato Atsushi di essere l'assassino vero e proprio, questo perché l'assassino, oltre ad averlo rassicurato promettendogli una grossa somma di denaro, gli ha ricordato che chi medita un delitto ma non si sporca le mani sconta, almeno nella maggior parte dei casi, una pena minore rispetto a chi ha commesso il crimine.»
Aomine restò in silenzio: da una parte era meglio che ci fossero Himuro e Murasakibara in carcere, perché ciò significava che l'assassino non era Kise, ma se almeno uno dei due fosse stato innocente come riteneva Akashi non c'era nulla di buono: scontare anni di carcere ingiustamente, al posto di un assassino rimasto impunito, sarebbe stato agghiacciante.
«Ok, le tue teorie stanno in piedi, ma te l'ho già detto: io non sono più assegnato a questo caso, dovresti parlarne con i miei colleghi, non con me.»
«Fai in modo che ti riassegnino il caso, Daiki.»
Le labbra di Aomine fremettero: non sapeva se trattenere un insulto o un sospiro di sollievo, perché neppure lui, in quel momento, riusciva a capire cosa voleva.
Quel caso aveva avuto un forte impatto su Aomine, lo aveva stancato, in pochi giorni gli aveva portato via ogni energia e ogni briciolo di sensatezza, e farselo riassegnare sarebbe stato un suicidio, ma allo stesso tempo si sentiva insoddisfatto, contrariato all'idea di essersi arreso prima che i presunti assassini venissero presi, e quindi sentiva l'irrefrenabile bisogno di rimettersi a lavoro, alla ricerca di indizi importanti.
«Mi servi.» Akashi continuò, senza tanti peli sulla lingua, e Aomine rispose con un sospiro sommesso, impregnato d'esasperazione, cominciando a massaggiarsi la radice del naso con le dita.
«Vedrò cosa fare, ma lasciami ancora una giornata di riposo.»
Seijuurou lo fulminò con lo sguardo.
«Non c'è tempo da perdere, Daiki: c'è un innocente in carcere.»
Aomine sospirò nuovamente: non avrebbe avuto pace finché la sete di vendetta, scoperta e vittoria di Akashi non fossero state soddisfatte.
«L'assassino non è Atsushi, non può essere come ha detto ...» Akashi si fermò ed ebbe un'esitazione che spaventò perfino Aomine.
«Akashi, va tutto bene?»
Akashi restò in silenzio per ancora pochi istanti, poi, finalmente, riprese.
«Shintarou.»


La mattina dopo, Aomine aveva fatto richiesta per essere riammesso nel caso e aveva subito una ramanzina che gli era parsa lunga una vita e che già sapeva gli avrebbero riservato - ecco perché non voleva fare richiesta per tornare ad occuparsi del delitto -: partecipare ad un caso, abbandonarlo e poi esigere di essere riammesso non era un atteggiamento professionale, e questo non piaceva per niente al suo capo.
«Ti hanno contattato?» Kise biascicò, con il viso assonnato che faceva capolino fra le coperte.
«Non ancora, probabilmente decideranno domani.»
«È che ... non capisco come mai tu voglia così tanto farti riassegnare il caso.»
Aomine rimase in silenzio e si strinse nelle spalle: non aveva voglia di dirgli che Akashi gli aveva di nuovo messo mille dubbi in testa e che ora era tornato a sospettare di tutti - e quindi anche di lui -.
Ryouta lo osservò ancora per qualche istante, poi scostò appena le coperte e si sistemò lentamente sopra di lui: da quando Kuroko era morto si erano a malapena toccati, soprattutto a causa di Aomine e dei suoi infiniti sospetti nei confronti del fidanzato, ed erano riusciti a fare l'amore soltanto quando si era saputo che Himuro e Murasakibara erano i colpevoli.
Kise, ormai convinto che nella mente di Aomine non vi fossero più dubbi, aveva l'ovvia intenzione di ripetere l'esperienza di poche notti prima e Daiki fu piacevolmente tentato dalla pelle calda contro la sua e dalle labbra del fidanzato che avevano già cominciato a stuzzicargli il collo.
La bocca di Kise scivolò lentamente lungo i muscoli del collo, fin sotto l'orecchio, e la pelle di Aomine fu piacevolmente stuzzicata da un sospiro accaldato.
«Aominecchi?» Ryouta cantilenò appena, quasi a volerlo incitare, e Aomine cominciò ad avvertire un pizzicore distinto nel basso ventre.
Le mani di Daiki corsero ai fianchi magri del compagno, le labbra andarono in cerca delle altre e le incontrarono immediatamente, legandosi a loro in un bacio passionale e ingordo.
Aomine ribaltò la situazione e le mani scivolarono rapide alle cosce calde del compagno, le bocche si staccarono e tornarono ad unirsi non appena le dita di Kise gli stuzzicarono le braccia con carezze tremanti di eccitazione.
Non appena la stretta di Ryouta si fece salda attorno alle sue spalle e l'intreccio delle loro lingue sembrò rafforzarsi, Aomine sentì che qualcosa non andava e che la sua eccitazione, per quanto fosse evidente, non sarebbe riuscita a spingersi oltre un certo limite.
Kise, dal canto suo, sembrò percepire la tensione del compagno e allentò la stretta, scostando appena il viso e rivolgendogli un'occhiata confusa.
«C'è qualcosa che non va?» Ryouta sussurrò appena e la stretta si allentò ancora, ormai sul punto di sciogliersi.
Daiki distolse lo sguardo e sospirò appena.
«Scusami.» chiuse gli occhi, quasi stesse cercando disperatamente di riacchiappare l'eccitazione ormai perduta.
Kise sciolse la stretta e le sue labbra si incrinarono in una smorfia di rammarico e insoddisfazione.
«Non ci riesco.» Aomine, dal canto suo, si scostò dal compagno e tornò al suo posto, guardando davanti a sé senza dire altro.
Ryouta rimase in silenzio per qualche istante e si mise a sedere, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
«Perché non ci riesci?»
Daiki non rispose: ripensò alla possibilità che dentro quella cella ci fossero due innocenti - o almeno uno -, che il vero assassino fosse ancora in libertà, che la calligrafia di quella lettera fosse stata imitata. Esisteva ancora la remota possibilità che Kise potesse essere l'assassino, ed era un pensiero che si sarebbe ripresentato ogni volta che si sarebbero baciati o anche solo sfiorati, era un tormento che gli impediva di lasciarsi andare al turbinio del desiderio e di farci l'amore.
Aomine inspirò profondamente e dopo qualche secondo di esitazione si decise a rispondergli.
«Esiste la possibilità che ...» biascicò e si fermò per qualche istante «che sia ancora in libertà.»
Ryouta schiuse le labbra e balbettò qualcosa di insensato, aggrottando la fronte con espressione incredula.
«No!» Ryouta protestò a voce alta, attirando l'attenzione del compagno su di sé «li ... li hanno presi, Aominecchi!»
Daiki tornò a guardare davanti a sé e cercò di parlare, ma la voce di Kise sovrastò la sua.
«Tu dubiti ancora di me, vero?» la voce di Kise tremò e sembrò spegnersi.
«Kise, io–»
«Lascia perdere.» e dopo il tremolio iniziale, la voce dell'altro parve farsi detentrice di una rabbia trattenuta a stento.
«Immagino che sia opera di Akashicchi se riesci a malapena a toccarmi.»
Aomine si sentì in trappola e serrò le labbra in una smorfia di colpevolezza: Kise aveva colto nel segno.
«Visto che per te è così tanto difficile fare l'amore con me, non dovresti neppure stare qui.» Ryouta fece una piccola pausa e Daiki cercò invano il suo sguardo «potrei ucciderti mentre dormi.»

Aomine alzò gli occhi al cielo e sospirò esasperato, arreso all'idea che dietro quell'ironia si nascondesse la richiesta di lasciarlo solo.
Daiki lo vide sprofondare fra le coperte, si soffermò per qualche istante sui ciuffi biondi e disordinati appena visibili e finalmente si decise ad alzarsi e ad indossare i suoi vestiti: a quel punto sperava davvero di ricevere buone notizie, di essere riammesso al caso per inchiodare una volta per tutte il vero assassino e poter sistemare definitivamente le cose con Kise; fino ad allora, però, avrebbe dovuto lasciarlo in pace.


La vibrazione del cellulare fece tremare la superficie del comodino, il suono riecheggiò nella stanza e gli ferì le orecchie.
Con ancora gli occhi chiusi, Daiki si mise a sedere con un rantolio sommesso e cercò il cellulare a tentoni, rispondendo con la voce arrochita dal sonno una volta che lo ebbe trovato.
Quando sentì la voce del capo che lo esortava - quasi in modo scherzoso - a non dormire perché era stato riammesso al caso, Aomine sembrò ridestarsi quasi completamente dallo stato di intorpidimento mentale e fisico che il sonno gli aveva lasciato addosso.
«Ancora una cosa, Daiki.» la voce del capo sembrò farsi seria, svincolata dall'accento scherzoso che fino a poco prima l'aveva caratterizzata. Aomine, dal canto suo, rimase in silenzio e aspettò che l'altro procedesse.
«Sono stati emessi due mandati di perquisizione, uno per la casa e l'altro per lo studio medico di Midorima Shintarou.»
Daiki rispose con una sottospecie di muggito, per fargli capire che era ancora in ascolto.
«Ti ho assegnato allo studio medico, va bene?»
«A che ora?»
«Alle sedici.»
«Va bene.» non appena Aomine rispose, il tono del capo sembrò tornare venato d'allegria e, dopo avergli augurato buona fortuna, si congedò.
Daiki diede un'occhiata allo screensaver del cellulare e sospirò sommessamente: non c'erano né messaggi né chiamate.
Pensò di fare il primo passo, chiamare Kise e dirgli che poteva tornare ad occuparsi del caso, ma era una notizia che in quel momento lo avrebbe solo infastidito; allora valutò la possibilità di chiamare Akashi, ma si ricordò che era colpa sua se lui e il suo fidanzato avevano discusso - di nuovo -, per cui decise di lasciar perdere e si limitò a risistemare il cellulare al suo posto.


Daiki conosceva piuttosto bene la zona e sapeva esattamente in quale punto dell'edificio si trovava lo studio medico di Midorima, quindi se la prese piuttosto comoda e sfiorò il ritardo - a dire il vero non se ne sarebbe neppure accorto se qualcuno di sua conoscenza non glielo avesse fatto notare -.
«Vorrei sapere che diavolo ci fai qui.» Aomine brontolò e, senza neppure degnarlo di uno sguardo, cominciò a rovistare in una delle mensole «non sei autorizzato, a meno che tu non sia un poliziotto.»
«Non sono un poliziotto, ma il tuo capo mi ha permesso di stare qui, quindi temo che dovrai sopportare la mia presenza, Daiki.»
Aomine rivolse un'occhiata nervosa ad Akashi e schioccò la lingua contro il palato, in segno di protesta, per poi tornare a frugare nella mensola con più attenzione.
«Scommetto che ci sei anche tu dietro i due mandati di perquisizione.»
Seijuurou, che osservava attentamente il contenuto della mensola, accennò un sorriso compiaciuto.
«Altrimenti non lo troveremo mai.»
«Quanta fretta e quanta foga ...» Aomine esitò e afferrò una piccola agenda che sfogliò velocemente «se non ti conoscessi bene, comincerei a sospettare anche di te.»
«Di me?» Akashi ampliò il sorriso «se fossi l'assassino avrei ucciso qualcun altro, non Tetsuya.»
Daiki si fermò per qualche istante su una pagina dell'agenda, e non perché aveva trovato qualcosa di interessante, ma perché le parole di Akashi gli avevano messo i brividi e lo avevano immobilizzato.
«Comunque cerca di controllare meglio.»
E poi si sentì scuotere da uno spasmo di nervoso: gli girava continuamente intorno e gli parlava ogni volta che ne aveva l'occasione, uscendosene con frasi inquietanti in più occasioni, e come se non bastasse pretendeva perfino che svolgesse il suo lavoro senza alcuna sbavatura, come se il suo capo lo avesse mandato lì per controllare il loro operato e, in particolare, il suo.
«Sei troppo distratto, Daiki.»
Aomine strinse i denti e si ripeté mentalmente di stare calmo, di pazientare: anche lui, nei panni dell'assassino, avrebbe ucciso qualcun altro al posto di Kuroko, e la sua scelta sarebbe ricaduta proprio su Akashi.
Spalancate le ante di un piccolo armadio, Daiki non ebbe né il tempo di rovistare al suo interno né di aguzzare la vista per catturare le forme di alcuni oggetti nascosti nella penombra, perché la sua attenzione si spostò rapidamente alla tasca dei pantaloni, dove il cellulare aveva cominciato a vibrare energicamente.
Aomine si affrettò ad estrarre il cellulare dalla tasca sotto lo sguardo vigile di Akashi e rispose senza pensarci due volte.
Seijuurou, che non osò staccare il proprio sguardo dalla figura dell'altro, lo vide prima aggrottare leggermente la fronte, in un'espressione accigliata, poi roteare gli occhi e sbuffare sonoramente: doveva trattarsi di un collega, perché Daiki aveva cominciato ad esporgli la situazione allo studio medico e Akashi, pensando a questa eventualità, si mise ancor più sull'attenti pensando che chi si trovava all'altro capo del telefono poteva essere uno di quei poliziotti che avevano il compito di perquisire la casa di Midorima.
Aomine si congedò rapidamente e una volta risistemato il cellulare in tasca cercò di ignorare Akashi e di rivolgere la propria attenzione all'interno del piccolo armadio, ma Seijuurou lo punzecchiò immediatamente.
«Era uno dei poliziotti inviati a perquisire la casa di Shintarou?»
Daiki si immobilizzò e voltò lentamente il viso verso di lui, squadrandolo con le labbra increspate in una smorfia nervosa.
«Intercetti anche le chiamate, ora?»
Akashi sorrise e negò appena con il capo.
«Semplice intuito, Daiki.»
Aomine bofonchiò e tornò ad osservare l'interno del piccolo armadio, dando ad Akashi la conferma di quella intuizione: quello con cui l'altro aveva parlato fino ad un attimo prima era proprio uno di quei poliziotti che avevano il compito di perquisire la casa di Midorima.
«Non hanno trovato nulla.» dopo qualche istante, la voce di Daiki risuonò alterata da un lieve tremore, bassa, piena di rabbia e frustrazione per essere sempre al punto di partenza, ai piedi di un muro alto e impossibile da scavalcare, di fronte ad un vicolo cieco.
«Visto che sei così intuitivo ...» Aomine sbottò e si alzò in piedi, girando intorno con un sospiro nervoso «vedi di darmi una mano e di non ostacolare il mio lavoro.»
«Lo sai che non c'è pericolo.» Akashi ribatté immediatamente, con le labbra increspate in un sorriso sornione «sono molto più bravo di te.»


Usciti dallo studio medico anche gli ultimi due colleghi, Daiki avrebbe voluto fermarsi al centro della stanza e strapparsi i capelli per l'esasperazione: erano ancora al punto di partenza, ai piedi di un muro alto e impossibile da scavalcare, di fronte a quel maledetto vicolo cieco.
Akashi si era zittito da almeno un'ora - Aomine aveva notato immediatamente l'assenza di quel costante ronzio fastidioso e umiliante attorno alle sue orecchie - e se ne stava in fondo alla stanza, rivolto alla parete, impegnato a giocherellare con quella che doveva essere la riproduzione di una protesi dell'anca - o qualcosa di simile -.
«Forse dovremmo semplicemente arrenderci all'idea che è stato uno di noi, e che quella persona è Murasakibara.» Aomine parlò dopo qualche istante di esitazione, compiendo qualche passo verso l'altro.
«Tu ti fidi di me, Daiki?»
I passi di Aomine si arrestarono immediatamente: quella domanda lo aveva sorpreso, era come se Akashi, talmente tanto impegnato a giocherellare con quella protesi, non lo avesse neppure ascoltato e si fosse foderato le orecchie con una serie di pensieri esclusivamente suoi.
«Sinceramente preferisco non fidarmi di nessuno.»
Come poteva fidarsi di Akashi, se viveva nel costante dubbio che Kise potesse essere l'assassino?
«Peccato.» Akashi si lasciò scivolare di mano la protesi che, facendo attrito contro la superficie del mobile, produsse un rumore argentino, metallico «io mi fido di te.»
Aomine rimase in silenzio per qualche istante, senza sapere cosa dire, e dopo qualche attimo di esitazione optò per un repentino cambio di discorso.
«Dobbiamo andare, ormai sono le venti e siamo rimasti solo noi.»
Akashi si voltò e si diresse verso di lui senza dire nulla, così Aomine gli voltò le spalle e uscì velocemente dallo studio, prestando più attenzione al corridoio buio e silenzioso piuttosto che a quello che ormai poteva considerare a tutti gli effetti un collega.

«Daiki?»

La voce di Akashi gli parve ancora una volta più come un ronzio fastidioso, così Aomine alzò gli occhi al cielo e si allontanò di qualche passo dall'entrata dello studio medico, cercando di ignorarlo.

«Daiki, vieni qui.»




Angolo invisibile dell'autrice:

Scusatemi per il ritardo, ma fra esami, momenti di tristezza, altre fanfiction e inizio dell'università è stato un periodo un po' così.
Per il prossimo aggiornamento vi dico subito che dovrete aspettare un po', comunque cercherò di essere il più veloce possibile.
Ringrazio ancora tutti quelli che recensiscono o che hanno inserito la storia fra i preferiti, i seguiti o le ricordate e, visto che siamo al sesto capitolo, mi sembra giusto pubblicare una seconda rubrica dove ripeterò alcune cose e riassumerò la situazione dei personaggi dal IV al VI capitolo compresi: #RUBRICA#RigorMortis


   
 
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