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Autore: Smaugslayer    18/10/2014    6 recensioni
[seguito di Quidditch con delitto, http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2540840&i=1]
I (doppi)giochi sono aperti, e questa volta condurranno Sherlock Holmes e John Watson dal 221B di Baker Street al numero 12 di Grimmauld Place, Londra.
Se a Hogwarts i due eroi erano al centro delle vicende, ora saranno trasportati dalla storia del Ragazzo Sopravvissuto fino al cuore della Seconda Guerra Magica. E per tenere fede alle proprie convinzioni dovranno tradirle...
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La Sala d’Ingresso dell’Ospedale San Mungo per Malattie e Ferite Magiche era piacevolmente vuota quando John Watson terminò il proprio turno di lavoro. Aveva trascorso una giornata pesante e non vedeva l’ora di godersi un po’ di quiete e il meritato riposo lontano dai pazienti e dalle loro magagne.
 
Accanto a lui, il suo amico Simon Church si stava mettendo la giacca; benché fosse ormai giugno inoltrato, si ostinava a voler indossare quel pastrano nero, che secondo John doveva fare parecchio caldo.  “Un’altra giornata così e scoppio” mugugnò, lottando per infilare una manica.
 
John lo guardò: Simon era magro, allampanato; aveva un naso dritto e largo, labbra sottili e mento piuttosto pronunciato; nei suoi occhi grigio-verdi era sempre possibile cogliere il luccichio di una risata repressa, benché in realtà ridesse raramente ad alta voce. Aveva l’età di John, ma era americano ed era stato educato nella scuola di magia di Durmstrang.
 
 “Già. Fortuna che domani abbiamo il giorno libero” disse John, solidale. “Dovrò passare da Mary, è una settimana che non la vedo” rifletté.
 
“Non ti sei ancora deciso, eh?” disse l’altro con vena ironica, che non mancava mai di utilizzare quando il discorso verteva sulla fidanzata storica dell’amico.
 
“Lo sai che voglio aspettare” si giustificò John stancamente. “Con lo stipendio che recepisco ora, non potremmo nemmeno permetterci una casa decente.”
 
“Sì, ecco, a proposito…” cominciò Simon, strisciando un piede per terra con nervosismo; “ho una proposta.”
 
Una ragazza del loro corso li superò, salutandoli con un cenno della mano e un sorriso, e si Smaterializzò; l’Ingresso, o Sala d’Accettazione, era l’unico luogo dell’ospedale in cui fosse consentita la Materializzazione.
 
Mentre John ricambiava il saluto, Simon non diede segno di averla vista.
 
Era così da lui… Simon gli ricordava Sherlock Holmes. John non poteva ignorare quell’idea, benché gli procurasse un certo malessere. Erano entrambi sagaci, maniacali e piuttosto asociali… John odiava paragonarlo con il suo vecchio migliore amico, perché sapeva bene che lui non sarebbe mai stato incredibile come Sherlock, ma non poteva trascurare la loro somiglianza.
 
“Stavi dicendo?”
 
“Ecco, sì. Ho deciso di trasferirmi e avrei già adocchiato un alloggio in centro a Londra. È una zona costosa, e anche se la proprietaria sarebbe disposta a farmi un prezzo di favore, da solo non posso comunque permettermelo. Quindi mi chiedevo se… tu… volessi… insomma, sì. Diventare coinquilini.”
 
“Scherzi?” John era già entusiasta. “Ti ricordo che vivo in un appartamento minuscolo con quattro imbecilli, anche solo ridurre il numero sarebbe fantastico!”
 
“Mi hai appena dato dell’imbecille?” chiese Simon, sorridendo.
 
“No, non… cioè…”
 
“Se sei d’accordo, potremmo visitarlo domani” propose Simon.
 
“Certo! Ci incontriamo qui alle… undici? Va bene?”
 
Simon annuì. “Ci vediamo domani, allora” disse a mo’ di saluto prima di Smaterializzarsi “A proposito, l’indirizzo è il 221B di Baker Street”.
 
John riapparve in camera propria pochi secondi dopo. Era contentissimo di poter lasciare quel tugurio: si era diplomato a Hogwarts sei anni prima, e da allora aveva sempre vissuto lì, ma non lo aveva mai sentito suo.
 
…E poi cavoli, andare ad abitare con il suo migliore amico! Quanto poteva essere forte?
 
Sapeva che anche il nuovo alloggio sarebbe stato temporaneo, perché prima o poi avrebbe dovuto cercarne uno da condividere con la sua ragazza, ma avrebbe valutato la questione matrimonio a tempo debito: non si sentiva ancora pronto a compiere quel passo, qualcosa lo frenava.
 
Qualcosa… sapeva che era sciocco, insensato e controproducente, ma non aveva dimenticato di aver avuto dei dubbi, un tempo, e in particolare durante il suo ultimo anno a Hogwarts. E quei dubbi avevano riguardato Sherlock Holmes.
 
Sherlock Holmes. Il suo stomaco si contrasse nel pensare a quel nome. Dopo sei anni, la ferita non si era ancora rimarginata. Quante volte aveva immaginato di ritrovarselo davanti, con un sorrisetto sghembo e le sopracciglia inarcate, vivo e vegeto… quante volte aveva sognato che cosa si sarebbero detti in quel caso, quante volte si era esercitato a modulare perfettamente la sua possibile reazione… ma Sherlock era morto, e non sarebbe tornato, punto.
 
Si sforzò di scacciare i fantasmi del passato concentrandosi sul presente, e in particolare sulle attività del giorno dopo: alle undici c’era la casa da vedere, e poi sicuramente avrebbe pranzato con Simon; doveva scegliere il regalo di nozze per Rachel e Denis, suoi vecchi compagni della squadra di Quidditch di Grifondoro, e infine era d’obbligo una visita a Mary, o c’era il rischio che dimenticasse di essere fidanzata…
 
 
 
La sveglia trillò puntualmente alle otto e trenta.
 
La spense con una bacchettata e si costrinse ad aprire gli occhi.
 
Fece scivolare una gamba fuori dal letto, sperando che il resto del corpo la seguisse; constatato che ciò non sarebbe accaduto, buttò giù anche l’altra gamba e si girò su un fianco.
 
Con uno sforzo immane riuscì a mettersi seduto e a stiracchiarsi.
 
Si guardò intorno con espressione vacua, raccogliendo le forze per tirarsi in piedi.
 
Per prima cosa, una volta alzatosi, aprì la finestra per arieggiare la stanza. Notò che il cielo si stava rannuvolando rapidamente e rabbrividì quando una corrente gelida lo investì in pieno petto.
 
Si affrettò a rifugiarsi in bagno e ad aprire l’acqua della doccia perché si scaldasse; nel frattempo, si svestì saltellando da un piede all’altro per combattere il freddo.
 
C’era qualcosa nella sua testa.
 
Si sforzò di richiamare un qualche sogno avuto quella notte, ma non ne ricordava alcuno.
 
Tuttavia, percepiva chiaramente che qualcosa nella sua mente era cambiato.
 
Entrò sotto il getto d’acqua calda e si spremette lo shampoo sulle mani, continuando a riflettere.
 
Era una sensazione curiosa. Era come se il suo cervello fosse un gigantesco magazzino, e qualcuno avesse improvvisamente spostato uno degli oggetti archiviati: lui notava la modifica, ma non capiva che cosa di preciso era cambiato.
 
Agguantò l’asciugamano appoggiato sul lavandino e si affrettò ad avvolgervisi e ad asciugarsi, tremante.
 
Passandosi distrattamente una mano sul mento, notò che la barba aveva bisogno di una rasatura. Per qualche minuto lo sforzo di restare concentrato per non tagliarsi una guancia occupò completamente i suoi pensieri, ma poi ritornò alla strana cosa nella sua testa.
 
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, ora, era Sherlock.
 
Sherlock.
 
Si stupì rendendosi conto che quel ricordo non lo straziava come al solito. Sherlock era morto da sei anni, e mai una volta era stato capace di pensare a lui senza sentire una morsa nello stomaco… tranne quel giorno.
 
Ma a pensarci bene…
 
 
 
 
… “John, dovrai spiegarci parecchie cose.”
 
… “Ricordi che stavo preparando la Pozione Polisucco? Te l’ho fatta bere, e sono diventato te. Credevo davvero che sarei morto” …
 
 
 
 
Era vivo! Per sei anni gli aveva fatto credere di essere morto… ed era vivo!
 
Ma allora come mai solo adesso John ricordava tutto? Doveva concentrarsi… cos’altro era successo quella notte?
 
 
 
 
… “I Mangiamorte sono pronti a risorgere, e che metà di loro è ancora a piede libero. Anche senza Moriarty… non possiamo permetterlo. Ho trascorso gli ultimi due anni ad indagare, posso farlo ancora una volta. Devo farlo. Estrarrò i vostri ricordi recenti e li sostituirò con altri ricordi modificati.” …
 
 
 
 
Gli incantesimi di Memoria non avevano effetto temporaneo, e soprattutto non era possibile che i ricordi estratti fossero ritornati da soli. Questo significava che… John trasalì, e nel farlo si soffocò con la sua stessa saliva e iniziò a tossire.
 
Doveva per forza essere così, doveva avergli restituito i ricordi. Dopo tutti quegli anni…
 
Doveva trovare Sherlock, più di ogni altra cosa, lui doveva…
 
Ma era vero? Era davvero sopravvissuto?
 
Svegliarsi una mattina con i ricordi modificati –o ristorati?- non era un peso facile da sopportare: significava dover rivedere parte della propria esistenza, rendersi conto di essere vissuti per anni nell’errore. Mentre lui credeva che Sherlock fosse morto, Sherlock se ne andava in giro tranquillamente per il Regno Unito.
 
Per sei anni John era stato costretto a sopportare una dolorosa, straziante menzogna.
 
Era vivo!
 
Ma certo che è vivo, idiota, pensò.
 
La cosa più buffa era che adesso il solo contrario pareva inconcepibile.
 
 
 
 
“Tornerò, John, te lo prometto.”
 
 
 
 
Era vivo!
 
Insomma, lui era stato lì, lo aveva visto, era proprio vivo. Lui aveva preso le sue sembianze e poi l’aveva pregato di non abbandonarlo… e lui l’aveva fatto lo stesso.
 
Era stato davvero disposto a morire pur di salvarlo? Perché? Certo, ricordava di aver provato forti sentimenti per lui, all’epoca, ma poi lui era morto, e…
 
Rischiò di soffocarsi di nuovo.
 
…e non era morto.
 
Doveva trovarlo.
 
Oh, e poi lo avrebbe ucciso.
 
Indossò meccanicamente una camicia e un paio di pantaloni per non morire di freddo mentre rifletteva.
 
Pianificazione. Serviva pianificazione.
 
Come poteva ritrovare un tizio che si era nascosto a Londra per sei anni?
 
Un pezzetto di pergamena ripiegata sul suo comodino attirò la sua attenzione: era sicuro di non averne appoggiato alcuno. Lo prese in mano per capire cosa fosse, ma, non appena lo toccò, si sentì strattonare verso l’alto, come se qualcuno avesse attaccato una canna da pesca al suo ombelico, e in un istante si ritrovò in un posto completamente diverso.
 
Era al centro di una piazzetta, su una macchia di erba incolta.
 
Si guardò attorno. Le facciate sudice delle case circostanti non erano accoglienti; alcune avevano i vetri rotti, la vernice di molte porte era scrostata e mucchi di immondizia giacevano davanti a parecchi gradini d’ingresso.
 
“Che diavolo…” sbottò, abbassando lo sguardo sul bigliettino che teneva ancora in mano.
 
Diceva:
 
Il Quartier Generale dell’Ordine della Fenice si può trovare al numero dodici di Grimmauld Place, Londra.
 
John osservò di nuovo le case. Si trovava proprio a metà tra il numero undici e il numero tredici, ma del dodici non c’era traccia.
 
“Ma qui…”
 
Nel momento esatto in cui ripensò a cosa c’era scritto nel foglietto, una porta malconcia affiorò dal nulla tra l’undici e il tredici, seguita dal resto di una dimora scalcagnata quanto le altre della via: era come se si fosse gonfiata fra le altre case.
 
A John cadde la mascella.
 
In quel momento, la porta del numero dodici si aprì.
 
John sfoderò la bacchetta, puntandola davanti a sé. Certo, avrebbe potuto Smaterializzarsi seduta stante e ritornare a casa propria: ma la curiosità ebbe la meglio; avanzò cautamente verso la casa, sempre con la bacchetta sguainata. Aveva i nervi tesi, pronti a scattare al minimo segno di pericolo. Per precauzione, pose attorno a sé uno scudo difensivo.
 
Entrò in una sala d’ingresso cupa e illuminata solo dalla fioca luce di una lampada a gas. Si voltò appena in tempo per vedere la porta richiudersi.
 
Una mano si posò sulla sua spalla e lui balzò di lato, brandendo la bacchetta contro il suo malvagio assalitore: un uomo dalla barba incolta e i capelli neri, disarmato e dall’aria del tutto innocua.
 
“John Watson, suppongo” disse lo sconosciuto con un sorriso.
 
“E lei chi è?” chiese John, sospettoso.
 
“Vieni con me.”
 
Sempre continuando a tenerlo sotto tiro, John, titubante, lo seguì per un corridoio lungo e lugubre; la carta da parati era strappata e rovinata, e ogni passo sollevava una nuvola di polvere; le tende pesanti tende erano tirate, e non un raggio di sole filtrava dalle finestre sudice. Scesero per una stretta scala a chiocciola, che li condusse in una sala cavernosa, per metà occupata da un massiccio tavolo di legno dalle gambe ricurve. Una persona vestita con un completo scuro stava accendendo il fuoco del caminetto all’altro lato della stanza.
 
John batté le palpebre, spaesato.
 
“Benvenuto al dodici di Grimmauld Place” disse l’uomo dalla barba arruffata in tono ironico.
 
Il locale, presumibilmente la sala da pranzo, era più illuminato dell’androne, e John poté studiare con più attenzione il suo anfitrione: aveva i capelli lunghi, gli occhi neri e le rughe di un invecchiamento prematuro, e aveva un’aria vagamente familiare.
 
“Meglio che non ti presenti subito” disse una seconda voce, appartenente alla persona che prima dava loro le spalle, e che ora si era girata verso di loro.
 
Il cuore di John perse svariati battiti.
 
Come ipnotizzato, si scostò dall’uomo arruffato, che si fece da parte con un mezzo sorriso.
 
In piedi davanti al caminetto, con la testa leggermente inclinata e le sopracciglia inarcate, c’era Sherlock Holmes.
 
John inspirò a fondo, tremante.
 
“La cosa più assurda” esordì con voce rotta, allargando le braccia. “È che lo sapevo che eri vivo.”
 
John Watson, sei un idiota, disse una voce nella sua testa. Per sei anni si era preparato a quell’evenienza, aveva praticamente steso un copione, e ora se ne usciva con un “lo sapevo che eri vivo.” Idiota.
Sherlock non era cambiato molto in quegli anni: era sempre magro e allampanato, con una zazzera di riccioli scuri. I lineamenti del suo viso erano più affilati e sembrava più muscoloso, ma per il resto era esattamente uguale a prima.
 
John deglutì a fatica. Aveva deciso che ripetersi mentalmente “idiota” era la cosa più saggia che potesse fare. Altrimenti, il suo cervello avrebbe iniziato a formulare altri pensieri, e l’avrebbe costretto a saltare al collo di Sherlock, per abbracciarlo o più probabilmente per strozzarlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
“I’m back, bitches! –A”
Vi ricorda qualcosa questo primo capitolo? Ovviamente NO. Ve lo dico io: il primo capitolo di Quidditch con delitto. Prima John chiacchiera con i suoi amici/amico, poi Sherlock ritorna e lo sciocca. Inoltre, come avete visto, la conversazione con Simon Church è avvenuta appena prima dell’epilogo della storia precedente… oh, già, Simon Church. Hehe. Scommetto che lo odiate già, perché ha preso il posto di Sherlock, e ora John definisce LUI “migliore amico”…
Tra l’altro, voglio raccontarvi due cose Sherlock-related che mi sono successe ieri.
  1. Interrogazione di storia sull’Illuminismo: il prof cita il filosofo JOHN LOCKE. PER FORTUNA non mi ha fatto nessuna domanda nei successivi tre minuti, perché se fossi stata costretta ad aprire bocca gli sarei scoppiata a ridere in faccia.
  2. Ieri pomeriggio ho deciso di prendermi avanti con i compiti d’inglese per lunedì. Allora prendo il diario, controllo cosa c’è da fare da fare, vado alla pagina corretta e vedo che l’esercizio è relativo a un dipinto; vado a leggere la consegna e l’occhio mi cade sul titolo del quadro: THE GREAT FALL OF THE REICHENBACH.
RENDIAMOCI. CONTO.
 
  
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