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Autore: Chaotic Alaska    20/10/2014    0 recensioni
~ Partecipa al contest "OC semidèi in cerca di penna e d'autore" indetto da MaryScrivistorie ~
Quando la semidea Dalila, fredda e vendicativa, arriva al Campo Mezzosangue, sua madre ha già tracciato al posto suo la strada che dovrà percorrere.
Una strada che la porterà a vendicarsi di coloro che hanno permesso la morte di suo fratello.
Dalila ha pagato caro l'aiuto della madre, cedendole ciò che aveva di più importante: riuscirà a distinguere i nemici dagli amici, o il suo desiderio di vendetta la distruggerà?
Genere: Avventura, Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A song of revenge.



Mi fermai in cima alla Collina e mi concessi un attimo di riposo per ammirare la vista della valle ai miei piedi.
Riconobbi il luogo che avevo sognato nelle notti precedenti, con i boschi, il laghetto delle canoe, la baia di Long Island che luccicava sotto i raggi del sole mattutino e lo schieramento delle case, un assortimento di bizzarri edifici.
Sulla Collina, poco distante dal punto in cui mi trovavo, il Vello d’Oro era posato sui rami più bassi di un pino. Il drago di guardia sonnecchiava.
Era stata mia madre a condurmi fin lì.
Era cominciato tutto tre mesi prima, lo ricordavo fin troppo bene.
Il giorno della morte di mio fratello.

Ero da qualche parte nella Florida meridionale, a girovagare in un immenso centro commerciale. Mi piaceva osservare le persone, soprattutto le famiglie, forse perché non ne avevo mai avuta una vera.
Non ricordavo mia madre: se n’era andata subito dopo la mia nascita, a quanto sapevo. E mio padre, per qualche misteriosa ragione, mi ha sempre ritenuto responsabile per l’accaduto.
Avrei voluto poter dire che era riuscito ad amarmi comunque, ma la verità è che mi odiava con tutto se stesso e che, se non fosse stato per mio fratello, probabilmente mi avrebbe abbandonata in un vicolo, o qualcosa del genere.
Stavo spiando silenziosamente una famigliola che cenava al McDonald’s, quando una voce mi aveva fatto sobbalzare.
«Piacere di fare la tua conoscenza, Dalila.»
Mi ero voltata di scatto, impaurita.
Una donna con una criniera ribelle di capelli corvini mi stava fissando, con un sorriso freddo stampato sul volto. Non era una persona abituata a sorridere, chiaro. Sembrava distante, ma allo stesso tempo incuriosita, come se stesse esaminando un insetto raro che la disgustasse un po’.
Perché quella donna sapeva il mio nome? Era un’assistente sociale? Una poliziotta? Possibile che mio padre si fosse deciso, dopo tre anni, a denunciare la nostra fuga? Mi sembrava alquanto improbabile.
«C-come conosci il mio nome?» domandai, esitante. La donna mi fissò come se avessi appena posto la più stupida tra le domande possibili.
«Perché non dovrei?» rispose «Sono tua madre, dopotutto.»
E lo disse proprio così, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Guarda che mia madre è morta, probabilmente» sbottai, inviperita dal fatto che una sconosciuta si permettesse di uscirsene con simili storie «Non ti conosco.»
«Mi sembra abbastanza scontato, Dalila. Vi ho dovuti abbandonare, perché è sempre il genitore umano a crescere i figli che nascono dalle unioni tra mortali e divinità.»
« Che accidenti stai dicendo? Divinità? Tu sei completamente matta.»
La temperatura dell’aria si abbassò di colpo e un lampo passò negli occhi della donna misteriosa.
«Non tollero un simile linguaggio, nemmeno da mia figlia. Ti avverto.»
La sua voce si era fatta gelida, come ghiaccio sul punto di spezzarsi. Poi tutto tornò alla normalità, come se non fosse successo nulla.
«Ne parleremo meglio a cena» concluse la donna, con un sorriso appena più caloroso del solito.
Cena? Il mio stomaco brontolò.
Non mangiavo dal giorno prima, quand’ero riuscita a rubare un hot-dog da un chiosco. Sperai che mi portasse al McDonald’s. Poteva anche essere una pazza psicopatica che blaterava di mortali e divinità, ma la fame si faceva sentire con troppa insistenza.
Ci sedemmo ad una panchina e, con un pigro gesto della mano, la donna fece comparire un vassoio colmo di hamburger e patatine. Così, dal nulla.
Cacciai un urlo, scattando in piedi, e diverse persone si voltarono a guardarci, perplesse.
«Oh, tranquilla, non hanno visto nulla di strano. La Foschia glielo impedisce. Siediti e mangia» replicò lei, e qualcosa nel suo tono di voce mi costrinse ad obbedire. Volevo chiederle cosa fosse la Foschia, ma ero troppo spaventata per parlare. Cos’era, una specie di trucco di magia? Come aveva fatto?
«Dalila, come stavo dicendo, io sono tua madre. Il mio nome è Nemesi.»
«Nemesi? Come la… la dea della vendetta?» domandai, ricordando le storie che mio fratello mi raccontava sulle divinità greche.
Nemesi storse il naso. «Preferirei della giustizia. Molti tendono a dimenticare che la vendetta è un modo per riportare l’equilibrio, per fare giustizia. Comunque, quel che conta è che sono io, sì.»
«Tu saresti la dea della vend- ehm, della giustizia? Non dovresti essere… uhmm, più divina?» Mi resi conto di quanto suonasse stupida la mia domanda.
«Se assumessi la mia vera forma, ti distruggerei» rispose lei «Comunque, non è questo il punto.» Sembrava seccata, notai con rabbia.
«E allora qual è? Vieni qui, mi spiattelli in faccia che sei mia madre e sei una dea, cosa vuoi da me? Mi hai abbandonato con… con quell’uomo, che mi odiava perché per colpa mia tu eri andata via, e…»
«Tuo padre è stato un errore» mi interruppe lei, con un tono diverso, quasi come se le dispiacesse per tutto quello che avevo passato «Era molto diverso, quando l’ho conosciuto. Un povero fallito, certo, ma che metteva grande passione in quello che faceva. Ho deciso di aiutarlo   ̶̶  del resto, il mio compito è anche quello di concedere un po’ di fortuna a chi ne ha troppo poca   ̶  e, grazie al mio aiuto, è riuscito ad affermarsi e avere successo.»
Era il discorso più lungo che le sentivo pronunciare e la stavo ad ascoltare, incantata. Conoscevo la storia, certo. Mio padre, prima che nascesse mio fratello, era un giovane avvocato, povero, ma ambizioso. Dopo la sua nascita, aveva vinto una serie di cause molto importanti, arricchendosi e facendosi un nome nell’ambiente.
Poi, non si sa perché, era crollato tutto. Poco dopo la mia nascita, e immaginavo mi ritenesse responsabile anche per quel motivo, era caduto in miseria. Con la stessa rapidità con cui aveva ottenuto la fama, l’aveva persa.
«Quindi… stai dicendo che…»
«Sì. Abbiamo concepito tuo fratello la notte in cui decisi di aiutarlo. Però, tuo padre si abituò al successo, alla ricchezza, e divenne arrogante, convinto di essere meglio di chiunque altro. Dopo qualche anno, sono dovuta intervenire una seconda e ultima volta, perché era mio dovere farlo, e…»
«Ed è stato allora che sono stata concepita io» intervenni, mentre una morsa mi stringeva il petto. Ora riuscivo a capire l’odio di mio padre nei miei confronti: ero, letteralmente, figlia della sua rovina. Come avrebbe potuto amarmi?
Nemesi annuì, studiando la mia espressione. Non avevo alcuna intenzione di scoppiarle a piangere davanti, quindi trattenni le lacrime.
«C’è un’altra cosa. Ed è il vero motivo per cui sono qui ora.»
Un brivido di paura mi attraversò. Qualcosa era cambiato nel suo tono di voce.
«Tuo fratello Ethan è morto.» E cominciò a raccontarmi di semidei, di Titani e di guerre.

***

Tuo fratello Ethan è morto.

«Non piangere mai più, Dali.»
Ethan mi guardava, sorridendo. Aveva questo sorriso incredibile, non potevi fare a meno di sentirti subito meglio.
«Than, papà non mi vuole bene.»
Il soprannome Than era rimasto fin da quando, ancora piccola, non riuscivo a pronunciare bene il suo nome.
Avevo sei anni, ma avevo già capito tutto. Sapevo interpretare i silenzi di mio padre, il suo evitare di guardarmi o a leggere il disprezzo nei suoi occhi, quand’era costretto ad abbassare il suo sguardo su di me. La maggior parte del tempo, fortunatamente, si limitava ad evitarmi.
«Papà è malato, Dali. Non riesce più a provare sentimenti, è una cosa molto dolorosa. Lui sbaglia a sfogarsi su di noi, ma non è colpa sua.»
Ethan riceva un trattamento leggermente migliore rispetto a quello riservato a me. Non disprezzo, ma indifferenza. E questo, credetemi, era già qualcosa.
«Non devi piangere, Dali. Finché io sarò con te, non ne avrai bisogno.»
E io gli avevo creduto.

***

«Perché non te ne vai?»
La voce di mio padre era calma, come se stessimo amabilmente discorrendo riguardo il tempo.
«P-papà…» balbettai, fingendo di non aver sentito. Ero immobile sulla soglia del suo studio.
«Seriamente, vattene. Liberami dalla tua presenza» aggiunse lui, annoiato. Non alzò nemmeno lo sguardo dai documenti che stava leggendo «Vai da tua madre, o vai al diavolo. La scelta è tua.»
Gli occhi cominciarono a bruciarmi, ma trattenni le lacrime. Ero abituata a quelle scenate, non riuscivano più a ferirmi come all’inizio. Ma facevano comunque male.
«Piangi?»
Per un istante, sembrò preoccupato, e osai sperare, sperare che qualcosa avesse finalmente penetrato la sua corazza. Poi, il suo volto si deformò in una smorfia di scherno.
«Povera piccola. Come ti senti a non essere amata da nessuno?» ghignò, e tornò a leggere le sue carte. Conversazione finita.
Mi chiusi alle spalle la porta dello studio, crollai sul pavimento  e mi imposi di non piangere. Avevo promesso ad Ethan di non piangere, mai. Di non lasciarmi scalfire dall’odio di quell’uomo patetico, che mi addossava la colpa del suo fallimento. Strinsi i denti e mi rialzai, stampandomi in faccia un bel sorriso.
Ero forte, io. Ero una combattente.

***

«Than?»
Mi dava le spalle, fissando un punto imprecisato al di là del vetro della finestra.
Ethan si voltò a guardarmi. Aveva un’espressione strana, distante, che aveva sostituito il solito sorriso che riservava a me sola.
«Dali, credo che presto dovremo andar via da qui» affermò.
«Perché? Inizi a spaventarmi.»
«Non saremo al sicuro ancora per molto, restando qui.»
«Ti riferisci a papà?» domandai, sorridendogli. Era fin troppo protettivo nei miei confronti, ma era il suo modo di dimostrarmi il suo affetto, ormai ci ero abituata.
Ethan era la mia àncora di salvezza, la mia Stella Polare, a cui guardavo come punto di riferimento. Solo grazie a lui, crescendo, mi ero trasformata in una ragazza solare e allegra, nonostante l’atmosfera triste e opprimente che si respirava in casa nostra.
«Non è per papà.» E rispose forzatamente al mio sorriso. Capii che non avrebbe aggiunto altro.
La mattina dopo, Ethan mi aveva svegliato all’alba, mi aveva ordinato di vestirmi e di preparare uno zaino con ciò che avrei voluto portare con me. Aveva un’aria risoluta, quindi non osai fiatare e obbedii.
Aveva portato con sé un coltello. La cosa mi spaventava un po’, del resto avevo appena dieci anni, all’epoca. Ethan mi disse che mi avrebbe difesa, ad ogni costo.
E andammo via dal posto che più odiavo al mondo.

***

La notte in cui il mondo mi crollò addosso la prima volta, faceva un freddo terribile. Stavamo scappando verso questo posto, che Ethan chiamava “Campo Mezzosangue”. Continuava a ripetere che lì saremmo stati al sicuro, ma al sicuro da cosa? Ci eravamo accampati in un bosco, poco distante dall’autostrada.
Ethan era nervoso. Non riusciva a stare fermo, anche se non significava molto, dal momento che siamo entrambi iperattivi e dislessici.
Quella sera, però, era diverso. Aveva paura, mi resi conto.
A un certo punto, saranno state le tre del mattino, mi svegliò.
Tremava, per il freddo e la paura, e aveva uno sguardo folle.
«Dali, ti fidi di me?» mi domandò, mentre raccoglieva freneticamente le mie cose.
Annuii, ancora stordita.
«Allora prendi le tue cose e scappa. Io devo assicurarmi di una cosa.»
Interdetta, feci per domandargli qualcosa.
«Fidati di me, ti prego. Verrò a prenderti» mi interruppe lui, porgendomi il mio zaino.
Perché non lo fermai? Perché non rimasi?
Invece, afferrai il mio zaino e scappai, nascondendomi nelle tenebre del bosco.

***

Non era tornato a prendermi.
Forse non era riuscito più a trovarmi, o forse aveva creduto che sarei stata più al sicuro senza di lui. E così era cominciata la mia odissea.

***

«Eravate inseguiti da un mostro, quella notte.»
Nemesi sembrava aver letto i miei pensieri, e forse era davvero così.
«Ethan lo ha attirato verso di sé, pensando che il mostro stesse inseguendo solo lui. È riuscito ad ucciderlo. Ed ha pensato di proseguire da sola, perché così saresti stata al sicuro. Non aveva idea del fatto che tu fossi una semidea, proprio come lui.»
Annuii, stancamente. Avevo ascoltato il suo interminabile racconto, ma ora ero stanca. Volevo il tempo di piangere mio fratello, di realizzare il fatto di averlo perso per sempre.
«Dalila.»
Nemesi mi stava fissando, così mi costrinsi ad incrociare il suo sguardo.
 «Ho un favore da chiederti.»
E mi aveva regalato un motivo per continuare a vivere, anche senza di lui.
Mi aveva promesso la vendetta nei confronti di chi era responsabile per la morte di mio fratello e mi aveva dotato di un’arma per combattere.
«C’è un prezzo da pagare, ovviamente» aggiunse, alla fine.
Avevo già intuito che, per quanto fosse mia madre, non avrei ricevuto un trattamento preferenziale.
Accettai. Nemesi mi regalò uno dei suoi rari sorrisi.
«Sei così bella, figlia mia.» Sfiorò lo chignon in cui tenevo legati i miei capelli corvini, così simili ai suoi. Per un istante, sembrò una mamma come le altre, quasi affettuosa. Ma poi tornò la divinità fredda e calcolatrice che era.
«Fidati dei sogni che farai. Ti indicheranno la via fino al Campo.»

***

«E tu chi saresti?»
Mi voltai in direzione della voce. Una ragazza di qualche anno più grande di me mi stava fissando. I suoi grandi occhi grigi erano imperscrutabili.
Un sorrisetto malizioso si aprì sul mio volto.
«Una fonte di guai, chiaramente» le risposi, avvicinandomi a lei con passo sicuro.
La ragazza si ritrasse, circospetta.
«Il mio nome è Dalila Nakamura, figlia di Nemesi.»
La vidi impallidire.
Le rivolsi un’occhiata di commiserazione e la superai, dirigendomi verso la Casa Grande. Non avevo tempo da perdere con lei.
Dovevo compiere la volontà di mia madre.
Dopo aver pagato il suo aiuto concedendole i miei sentimenti, del resto, la vendetta era l’unica cosa a cui potevo ambire.


 




   
 
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