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Autore: yoyo_whitehole    21/10/2014    2 recensioni
«Ha tradito. Ha ucciso. Ha torturato» Kevin diede le spalle al Pacificatore ammanettato, posizionandosi tra lui e la folla. «Ma non ha tradito me. Non ha torturato me, e direi che non mi ha ancora ucciso. I suoi crimini non sono contro me.»
Kevin ruotò la pistola tra le dita, allungò il braccio. Rivolse l’impugnatura alla folla.
Si chinò quel che bastava per poggiare l’arma a terra, con delicatezza. Si spostò, di lato, un solo passo; tra la folla e il Pacificatore rimase solo la pistola.
(...)
Imhor raccolse l’arma e tolse la sicura. Fissò Kevin un’ultima volta, non con l’aria di chi cercasse una conferma, o un tacito invito: con una pistola carica nella mano e un’imperscrutabile serietà nel volto.
«Uccidilo» sibilò il Pacificatore, la voce strozzata «Non avete mai avuto speranza, Capitol City vi sterminerà dal primo all’ultimo se non finite questa follia adesso. Se lo uccidete vi perdonerà…» guardò Kevin con odio disperato «Dimenticherà… Dimenticheremo tutto…»
Il gigante spostò lo sguardo sul Pacificatore, che si azzittì. Il silenzio strisciò ancora per qualche attimo, qualche attimo ancora, poi Imhor puntò la pistola.
«Io non dimentico» disse, e premette il grilletto.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Caesar Flickerman, Presidente Snow, Sorpresa, Tributi di Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Alba.
 

 Appena il primo angelo suonò la tromba, grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra.

Un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò.

-Tratto dall'Apocalisse.

 





-Per me e mia moglie. Da quando nostro figlio è nell’arena troviamo difficile dormire.-
-Capisco. Questo è il nostro prodotto migliore, vuole fare una prova?-
-L'ho già usato una volta. E’ un sonnifero famoso-
-Stenderebbe un plotone-
-Mi basta molto meno. Me ne può fornire una scorta annuale? Pago in contanti-
-Certo. Firmi qui.-
 
-Ma non mi dire, Eric Dalton! Che ci fai da queste parti?-
-Salutare un vecchio amico non è più una motivazione sufficiente?-
Il Capo Pacificatore afferrò la bottiglia dallo scaffale, poi si accomodò e gli riempì il bicchiere fino all’orlo. –Oh, andiamo. Quando mai sei venuto da me se non per… Affari?-
Eric Dalton bevve un sorso, mentre Iulius Nero faceva lo stesso. Quando andavo a trovare mio figlio.
–Oggi, sembrerebbe- ​
-Vino da due soldi- bofonchiò Nero. –Vorrei poter offrire di meglio, ma sono pur sempre le prigioni-
-Il vino è l’ultimo dei miei problemi-
-Ah- Nero non cambiò espressione. –Mi dispiace per tuo figlio-
Eric passò le dita sul bordo del bicchiere. –Lui non sembra dispiaciuto per me.-
-Non ti mentirò; penso questa storia ti possa mettere in pericolo.- Nero si scolò il resto del vino. Questa storia mi ucciderà, e lo sappiamo entrambi.
Nell’esatto istante in cui i numeri 11 erano caduti a terra, Eric Dalton aveva capito di essere un uomo morto. Strana sensazione, essere uccisi dal proprio figlio, il giorno dopo avergli salvato la vita.
-Voglio essere positivo. Il Presidente sa essere magnanimo, e non penso che Ronnie possa durare tanto a lungo da fare qualcosa di serio-
-Lo spero, amico mio.- Nero gli riempì di nuovo il bicchiere, sebbene non lo avesse finito. –Confido che, in caso di disordini nel distretto, possa contare su di te-
Eric rivide qualcuno dei volti che aveva denunciato, venduto, imprigionato, condannato a morte. La ladra orfana di tredici anni. L'uomo che cacciava nei boschi. La ragazza che rubava libri censurati.
Aveva sempre contato su di lui, e non se ne era mai pentito. Fino a quel giorno.
-Certo.- Certo, farò il possibile per rendere vano il martirio del mio stesso figlio.
-Fra due giorni sarà il tuo compleanno, mi sbaglio?- cambiò argomento Eric. Il Capo Pacificatore sorrise. –Lieto che qualcuno se ne ricordi. Sono dieci anni che non lo festeggio-
-E sono anche dieci anni da quando ci conosciamo- Eric tornò al suo solito tono leggero. –Ho un’ottima annata in cantina. Che ne diresti di dare una festa con del vino accettabile?-
Gli occhi di Nero scintillarono, allettati. -Non posso uscire dal carcere tranne che nei giorni di licenza. A volte, penso di essere io il prigioniero-
-Non devi uscire. Quanti Pacificatori ci sono qui dentro?-
-Sessantadue-
Sessantadue. Perfetto.
-Beh, credo di poter trovare abbastanza vino per tutti-
Iulius Nero lo guardò in silenzio per un momento. –Ti conosco, Eric. Non dai mai niente per niente. Cosa vuoi in cambio?-
Eric sorrise, piantando i suoi occhi azzurri in quelli castani del Pacificatore. -Stavolta? Solo una visita-
Di solito, aveva bisogno di corromperlo per vedere Ronnie. Ma anche lui lo conosceva, Iulius Nero, e sapeva che parlare di vino era altrettanto efficace.
 

 
Xen si sfilò la cintura dalla tuta e la avvolse attorno al mucchio di fascine. Cercò di legarle ma le sue dita non gli obbedivano.
Si concesse un solo, preziosissimo istante per imporsi di fermare il tremito, poi finì il nodo e i suoi occhi risalirono involontariamente verso l'alto. E a quel punto fu impossibile distogliere lo sguardo.
I canali di lava si stagliavano nitidi nell'uniforme manto della notte, lampeggianti di quella luce che sembrava nutrirsi dal buio stesso. Un'unica, brillante e sottile striscia arancione si faceva strada tra la lava solidificata verso il mare. Senza riuscire a raggiungerlo.
Xen ci aveva messo un'ora, dall'anello rosso sopra di lui, ad arrivare dov'era. Ma si sa, la lava è molto più veloce di un bambino.
Serpenti scarlatti straripavano dal canale e scendevano in linee casuali, tracciando complessi disegni di luce lungo il fianco della montagna. Ogni istante più numerosi, più rapidi, più vicini, rigagnoli che diventavano ruscelli e ruscelli che diventavano fiumi.
Due foreste bruciavano.
Xen si passò lentamente la lingua sui denti, incapace di capire quanto tempo stesse passando, se tutto quello che vedeva fosse reale. Anche la notte sembrava rifulgere, nero vivido e lucente, straziato dal vento gelido.
A interrompere l'incantesimo fu l'infrangersi di un'onda sulla sabbia. Xen si voltò di scatto verso la spiaggia e non seppe capire da cosa dovesse fuggire. Il mare in tempesta era un inferno di inchiostro che si riversava in lenti cavalloni alti come macigni.
Xen avrebbe dovuto scattare, lo sapeva. Invece riuscì solo a rimanere fermo, con il suo salvagente di legna sotto il braccio, cercando di realizzare che a breve sarebbe morto.
Poi, una zaffata di fumo lo investì come schiaffo in pieno viso. -No- sussurrò Xen. Lasciatemi morire qui, lasciatemi morire qui. Non voglio lottare. Non posso.
Fu il puro istinto di sopravvivenza a muovere le sue gambe verso il mare. L'acqua ghiacciata gli arrivava al petto quando la prima onda lo trascinò giù. Il nero lo inghiottì. Xen spalancò gli occhi e non riuscì a vedere altro. Era tutto troppo irreale anche solo per il terrore. Quello che sentì fu un lento abbandonarsi.
La corrente lo riportò in superficie. Xen prese una boccata d'aria disperata, muovendo convulsamente le gambe per allontanarsi dalla riva, rendendosi conto di non aver la più  pallida idea di come fare.
La sensazione di galleggiare, completamente nuova, bastò perché la vertigine prendesse possesso di lui. Xen si aggrappò con ogni briciola delle sue forze al mucchio di legna, mentre il cielo stellato compariva e scompariva tra turbini di bolle scure. Respirò acqua e spuma di un bianco sfavillante gli si riversò addosso con la forza di un uragano. 
Un sibilare avvolgente e confuso gli invase la testa. E capì. Capì che la lava aveva raggiunto il mare.
Al freddo che gli divorava la pelle succedette una vampata di vapore bollente. Avrebbe urlato, ma tutto intorno a lui c'era solo acqua. Una spinta e si rimise a distanza, prima che la seconda onda lo trascinasse di nuovo verso la riva.
Nel suo distretto, sua madre lo abbracciava ogni volta che scoppiava un temporale. Sei al sicuro, sussurrava, ma non serviva. Perché il terrore che lo assaliva ad ogni tuono, a ogni fulmine, nel vedere il cielo schiantarsi sulla terra, era il non poter essere altro che uno spettatore. Non poter essere al sicuro. Non poter controllare niente, osservare niente, comprendere niente, quando si è solo qualcosa di insignificante nell'immenso.
Un brivido di dolore nella forza primordiale di un mare infuocato, una scintilla di vita in abissi infinitamente più grandi. Anche la paura annegò.
Un istante prima di scivolare nell'incoscienza, Xen capì davvero cosa significasse perdersi.
 

 
Bartheon inghiottì un gamberetto, fissando incuriosito la pazza dell’1. Tutta Capitol City la adorava, ma un vincitore malato di mente non sarebbe stato accettabile. Pensava che la colata di lava avrebbe risolto il problema, ma la ragazza per ora era ancora viva. Saltava tra i ruscelli rossi, con il suo paracadute argentato sotto braccio, alla ricerca di un via verso l’altro lato del canale. In effetti era piuttosto vicina.
Tic. Si connesse alla telecamera 5045. I Favoriti stavano fronteggiando gli ologrammi, come la notte prima. Probabilmente come tutte le notti da lì a quando sarebbero morti.
-Stratega chimico?- Bartheon tamburellò le dita, senza staccare gli occhi dallo schermo mentre l’uomo lo affiancava. L’unico che avesse una qualche utilità lì dentro.
-Signor Greyson?-
-Voglio un’illusione nuova-
-Un ologramma?-
Nello schermo, i Favoriti cercavano di attaccare i camaleonti. Ma finché non riuscivano ad essere certi di averli colpiti a vuoto, non potevano neanche essere certi che non fossero reali.
-Un’illusione personale- rispose Bartheon, poi fermò il video. Ingrandì.–Voglio lui. Il Favorito del distretto 2. E preparate anche la sua compagna-
-E’ un disegno complesso- obiettò Chimico. –Potrei farlo completare in parte da un ricordo. Ma ci vorranno comunque…-
-Ho ideato io le illusioni e pensi che non sappia quanto ci vorrà?- Bartheon sbuffò. –Ti do cinque giorni. Prendilo come un dovere patriottico.-
Chimico boccheggiò, ma prima che potesse dire qualcosa la porta si aprì sbattendo.
-Il Presidente Snow richiede la sua presenza- affermò un Pacificatore. Bartheon inarcò un sopracciglio, vedendone altri dietro di lui. E chi se lo sarebbe mai aspettato?
-Quell’uomo riesce sempre a sorprendermi- commentò.
-Cosa sta succedendo?- strillò Lucius, che era riuscito a rimanere in silenzio per quasi cinque minuti.
-Snow ha deciso che ho tempo da perdere- Bartheon si alzò dalla sedia e avanzò verso la porta, mentre il Pacificatore lo squadrava a braccia conserte.
-Lucius- continuò –Tieni i Favoriti fuori dai guai, mi servono vivi o addio tutto. Invia le illusioni personali all’alleanza ribelle, per il resto... Attento… A non toccare… Pulsanti-  scandì. Chissà, forse avrebbe fatto meglio a fidarsi dello Stratega dei Gamberetti piuttosto che di lui. –Chimico, il futuro di Panem dipende da te, quindi raduna il tuo branco di scienziati schizzati e mettetevi al lavoro-
-Andiamo- ordinò il Pacificatore. Bartheon fece un altro passo verso l’uscio, poi si voltò. –E tu- si rivolse all’unica stratega della sala. –Vedi di procurarmi fegato d’oca-
 
 
  
Harvey la tirò per un braccio, gridò qualcosa che non sentì. Un albero si schiantò a terra, un fiume di lava serpeggiò tra i rami in mille rigagnoli, protraendosi verso di loro. Amina ne sentì il richiamo, silenzioso e invisibile. Fino a quel momento, ignorarlo era servito solo a consumarsi giorno dopo giorno.
Alzò una mano, le sue dita si stesero lentamente verso la lava.
Harvey cercò ancora di scuoterla. Amina lo fissò. Lui era come tutti gli altri. Stava marcendo in un mondo insensato proprio come tutti gli altri.
Non si mosse.
 
-Buonanotte- dice Dray.
-Buonanotte- dice Amina. E cala il buio.
 
Harvey la guardò, la implorò, stava piangendo. Le sue dita lasciarono il suo braccio, lentamente. Resta, avrebbe voluto dirgli Amina. Guardiamo il mondo bruciare, insieme. Resta con me.
Ma Harvey era come tutti gli altri. Fuggì. Amina inspirò fuoco ed espirò furia. Non poteva, lo aveva promesso.
Il rosso non glielo avrebbe permesso, mai. Non sarebbe riuscito a scappare.
Amina sorrise.
 
La finestra che si rompe. Vetri rotti a terra. L'urlo ucciso da una mano sulla sua bocca.
-Va tutto bene, piccola. Va tutto bene. Voglio portarti in un posto-
 
Amina sorrise. Un sorriso obliquo, che scopriva i denti, un sorriso cattivo.
Rovesciò la testa all'indietro, sentendo la carezza spietata del fuoco sul viso. Un altro albero cadde, artigli grigi si liberarono nell'aria. Lo sfrigolio, familiare, pieno di promesse.
 
Due bambini, due bambine. Sono legati, bendati, ma nessun fazzoletto copre la loro bocca.
-Ci divertiremo, Amina...- l'uomo del dolore, l'uomo del buio. Il rapitore. Suo zio. Parker Seen prende la benzina e la rovescia sul primo bambino. Il bambino urla, sputa, piange. Amina osserva.
 
Amina fece un passo in avanti, mentre tutto attorno a lei fremeva e danzava, oro, rosso, arancio, blu, i colori del fuoco. L'odore del fumo si stese su di lei come un vecchio mantello.
 
Fumo. Odore di carne bruciata. Il bambino ha smesso di urlare, ma le fiamme non si sono estinte. Divorano, metodiche, instancabili.
Amina osserva. Il secondo bambino singhiozza.
-Vi state divertendo?-
 
Il suo sorriso si allargò in un ghigno demoniaco, pregno di ira euforica. Amina corse, mentre la lava ribolliva, mentre il fuoco esplodeva dietro di lei, con lei, vivo e devastante. Scorreva ebbro nelle sue vene, bruciava rovente nei suoi polmoni. Amina sfiorò con le dita la corteccia di un albero, avvolto da lingue rosse ed oro che guizzavano e scomparivano, squarciando la cortina grigia del fumo. Assaporò il dolore fino all'ultima stilla, posò lentamente la mano sul tronco. Le fiamme la lambirono, fuoco su cenere.
Erano sette anni che non si sentiva così viva.
 
La bambina giace nuda, con la gola squarciata e gli occhi aperti verso un cielo vuoto. L'eco delle sue urla riempiva il buio.
 
L'aria si dilatava in nuvole di fuoco, contorcendosi in spirali di luce. Sette anni prima le fiamme avevano risparmiato la sua vita. Quella era solo la resa dei conti.
Lei apparteneva al fuoco, il fuoco apparteneva a lei. Non esisteva altro. Solo un debito mai ripagato, e la sua, personale, fine del mondo.
Il cerchio si stava per chiudere.
 
La bambina è ancora viva quando la pala comincia a ricoprirla di terra. C'è sangue sul suo viso, dove dovrebbero esserci gli occhi. C'è sangue, e una lingua sul pavimento.
Nel quarto rogo, sulle fiamme, solo un bulbo oculare.
 
Un colpo di cannone. Amina aprì le braccia e sollevò il volto al cielo, un cielo rosso e non più vuoto.
Rise. Una risata infinita e liberatoria, mentre riprendeva a correre. Verso il dolore e le fiamme e sé stessa.
Perchè c'era lei, in quel rogo. La sé stessa bambina, che era diventata cenere sette anni prima. Doveva solo trovarla.
La bambina che Amina reclamava e il fuoco che reclamava la sua vita.
Il cerchio si stava per chiudere.
 
-Ti è piaciuto?-
Il fiato dell'uomo del buio. Amina mente, fa cenno di sì.
Non l'ha risparmiata. Respira, ma non è viva, è bruciata nel rogo insieme a un bulbo oculare.
 
Crollò in ginocchio. Il fumo correva intorno a lei, le fiamme ruggivano nella sua testa.
Amina smise di ridere.
Ansimò, sollevò davanti a sé la mano ustionata, un terrore divorante le afferrò le viscere.
La sua vita era stata soltanto paura. Troppa paura quella notte per fare qualcosa. Troppa paura per cercare la sua voce. Troppa paura di scoprire che la sua voce fosse diventata cenere, come il resto di lei.
Ma mai aveva avuto paura come in quel momento, proprio dopo aver pensato di essersene liberata per sempre.
 
Parker le tiene la mano mentre la accompagna a casa. Si ferma davanti alla finestra della sua stanza, in mille pezzi, si inginocchia davanti a lei e le toglie il fazzoletto dalle labbra.
-Nessuno saprà cos'è successo- un sorriso bianco nell'ombra. -Non dirai niente, vero, piccola mia? Non dirai niente...-
 
 
Aveva paura perché aveva sentito una risata. Una risata che divampava nell'aria, piena di vita, la normale risata di una quindicenne.
Il cerchio della lava era sempre più vicino.
 
Amina torna nel suo letto. Il piumino la avvolge, tiepido e morbido. Ora può dimenticare,  pensa, dimenticare tutto.
Ma appena chiude gli occhi sono fiamme quelle che si stagliano contro il buio. Cerca di urlare, cade dal letto, piange. È sola. Non c'è nessuno con lei per salvarla.
 
Amina cadde a terra, rannicchiandosi su se stessa. Il fuoco tacque.
Il mondo sbiadì e si oscurò lentamente, lontano, sempre più lontano. Poteva quasi sentire il battito del suo cuore, flebile e irregolare. Restò ad ascoltarlo, sentendo i pensieri svanire, ad uno ad uno, annullandosi in esso. Un torpore strano iniziò a chiudersi su di lei.
Ma la sentiva ancora, quella risata, la sua risata. La sua voce non era cenere.
Lei non era mai stata cenere.
Non poteva salvare quei bambini, ma forse avrebbe potuto salvare sé stessa. Rimettere insieme i pezzi, dimenticare, ricominciare a vivere.
Non era mai stata cenere. Lo sarebbe diventata, ora.
 
La sua mano urta il vetro rotto. Amina la solleva davanti a sé, le sue dita tremano. C'è una goccia di sangue sul palmo.
È ancora viva, forse. Stringe il vetro tra le dita, forte, più forte che può, e chiude di nuovo gli occhi.
Le fiamme ci sono ancora, rosse contro il nero.
Ma adesso, Amina pensa solo che non ha mai visto niente di così bello.
 
La fitta caligine le bruciava gli occhi. Ogni istante che passava le palpebre diventavano più pesanti, e lei era stanca, stanchissima. Sentiva il buio premere ai margini della sua mente.
-Buonanotte- sussurrò Amina. L'ultima cosa che aveva detto sette anni prima.
Era la stessa voce. La sua voce.
-Buonanotte- sussurrò, con l'unico soffio di fiato che le restava. Era troppo tardi per qualsiasi altra parola.
Il cerchio si era chiuso.
 
-Buonanotte- dice Dray.
-Buonanotte- dice Amina. E cala il buio.
 
 
 
Alyson si rigirò il paracadute argenteo tra le mani, prima di aprirlo. Molto più dubbiosa che felice, prese l’oggetto metallico e lo rigirò alla luce fioca delle stelle per esserne certa. La cerbottana era fredda contro il suo palmo.
La ripose a terra accanto a sé, estraendo il resto. Uno dei sei dardi acuminati le punse il dito.
Restò a guardarlo con le labbra schiuse, affascinata e stupita. Più stupita che affascinata, forse.
Aveva detto chiaramente al suo mentore che non voleva sponsor e che non avrebbe combattuto contro nessuno; in più, lei una cerbottana sapeva a stento cosa fosse.
Qualche veleno saprei prepararlo, però. Forse qualche capitolino fuori di testa aveva scommesso su di lei, ma comunque non poteva sapere che aveva passato metà della sua vita fuori dal distretto a studiare erbe.
Le sue ipotesi si spensero ad una ad una mentre leggeva il biglietto del suo mentore sul fondo del contenitore.
Usa te stessa nel modo migliore possibile.       - Jaime.
Alyson si alzò, ripose il foglio e chiuse il paracadute. Da una parte il tutto aveva perso ancora più senso, dall’altro forse ne aveva trovato uno. Tanto, di alternative non ce ne erano; la cosa migliore che poteva fare era liberarsi di quell’oggetto e darlo a qualcuno che avesse ancora bisogno di combattere per qualcosa. Qualcuno che non potesse ricevere sponsor.
Alyson cominciò a camminare nella direzione opposta da quella prefissata, scorrendo con gli occhi le piante che la circondavano, oltre il buio, attenta e concentrata. Perché era sicura di averla vista, la Stella del Tramonto.
Era a metà strada quando chiuse le mani su un candido fiorellino a forma di stella a cinque punte, vellutato e bianco. Nel suo distretto aveva un mortaio, ma il contenitore metallico e un bastone di legno sarebbero bastati ugualmente.
Da sola, una cerbottana non serviva a molto.
Olio essenziale di Stella del Tramonto. Potenzialmente letale. Esitò qualche istante, prima di sradicare l’intera pianta. Dose massiccia per un effetto rapido, minima per proprietà guaritrici. Un solo fiore in meno e sarebbe stato un semplice rimedio per il mal di stomaco, uno in più e forse si sarebbe resa complice di un omicidio. Non uccideremo nessuno che non tenti di ostacolarci, avevano detto. Gli ibridi non erano il loro unico nemico in quell’arena.
Eppure mai le sue mani erano mai state tanto ferme, mentre riponeva il quarto fiore nel contenitore. Era una sensazione strana, più affascinante che spaventosa, creare la morte dalla vita. Il mondo le mostrava un altro lato di sé, completamente diverso da quello che era abituata ad amare, opposto, inscindibile. C’era tutta la candida bellezza di un fiore bianco, in quel sottile cerchio di liquido scuro.
Non l’avrebbe diluito. Alyson rimase per un po’ a contemplare il risultato, con una sorta di vertigine immobile che le faceva formicolare le dita.
Aspetta che cominci a nevicare. Aspetta solo questo.
Fu quella voce quieta a riscuoterla. Distolse lo sguardo e chiuse il coperchio, stringendo quasi convulsamente con le mani che le tremavano. Raccolse la cerbottana, si alzò, si rimise in marcia. Ogni passo più disperatamente veloce, guidata da una frenesia bruciante che assomigliava fin troppo alla paura.
Fu una fitta al petto a fermarla. Una fitta al petto, e il brusio di voci in lontananza.
Alyson si piegò su sé stessa, con il fiatone. La vista si oscurò, il sangue le pulsò nelle tempie in una lenta ondata di dolore fin troppo familiare. No, non ora, non ora...  Si accasciò su un tronco, cercando di contrarre dita che non sentiva più. No, no, no…
Pensieri sconnessi si agitarono dentro di lei. L'immagine di fiore bianco a forma di stella a cinque punte. Un sorriso pieno di sangue. Un tramonto dello stesso colore. Aspetta solo che cominci a nevicare. Fiocchi bianchi a coprire la cenere.
Una boccata d’aria bruciante le assalì la gola, amara come fiele, ma sentì la morsa del buio allentarsi per un altro respiro. Riaprì gli occhi, e li vide. Erano lì, tre sagome scure in piedi e una quarta seduta in disparte.
Non si era persa. Loro non si erano allontanati.
Per un attimo, Alyson riuscì a provare solo un sollievo esultante, poi la frase del suo mentore la assalì di nuovo con il suo strascico di tristezza indistinta. Usa te stessa nel modo migliore possibile.
Voleva che lei si unisse a quell’alleanza, era chiaro. Lei non aveva niente da perdere. Era una nuova occasione, nuova vita, un nuovo scopo, tutto quello che fino a un giorno prima avrebbe voluto.
Alyson chiuse gli occhi e ci provò davvero, a immaginare un futuro per cui combattere, un significato al di fuori di quell'Arena. Vide solo una mezzaluna di liquido scuro. Riuscì quasi a sentirne l'odore, avvolgente e affilato.
Era giunta sull’orlo dell’abisso e non poteva più distogliere gli occhi da esso. Ci era arrivata lentamente, in cinque anni, l'aveva accettato, si era liberata di tutto un passo dopo l'altro.
Aspetta che cominci a nevicare. Un sussurro. Un ordine. Aspetta solo questo.
Ricominciare avrebbe fatto solo male. Alyson sfiorò con le dita la Stella del Tramonto nella tasca del mantello. L'unica bellezza che le appariva ancora vivida in un mondo che ogni giorno diventava più estraneo.
Aspetta che cominci a nevicare. Era quell'unica frase, quell'unico pensiero a tenerla ancorata alla vita. La sua morte, però, le apparteneva ancora.
L'unica cosa che potesse offrire. E l'avrebbe fatto. Ma non in quel modo.
Alyson si rialzò, prese un ultimo respiro pesante. Voltò le spalle al contenitore argentato ai suoi piedi.
E scappò via.
 
 
Bartheon inclinò la testa.  –Presidente-
-Signor Greyson- Snow sorrise. Un sorriso gelido, che non si rifletteva sul volto inespressivo. Era il sorriso di un teschio.
-Gradisce del thè?-
-Sarebbe scortese rifiutare-
Snow gli fece cenno di accomodarsi, mentre un senzavoce riponeva un vassoio con due tazze sul tavolino.
–Dopo quasi un anno, mi rincresce che il nostro incontro debba avvenire in circostanze tanto sgradevoli-
-Devo dire che mi rincrescono più le circostanze.- replicò Bartheon.
Snow si accarezzò la barba nera, con calma misurata. –E’ strana, la pace, il potere. Con il tempo ci si abitua, si comincia a dimenticare cosa significa sentire il fiato della guerra sul collo. A dimenticarne l’esistenza-
-Già, dimenticare. - Bartheon inarcò un sopracciglio. –Sembra che a voi venga facile-
Avrei voluto che fosse facile anche per me. Ma dopo aver visto i corvi banchettare con le orbite dei cadaveri, lui non era tornato sé stesso e Capitol City non era tornata il suo mondo.
-I distretti sono irrequieti, e i sobillatori aumentano ogni anno.- continuò il presidente. -Ci sono stati disordini nell’8, dopo l’ultima Edizione della Memoria.-
–Sorprendente- commentò Bartheon, con uno sbuffo sarcastico, senza distogliere gli occhi da quelli freddi di Snow. Ricordò il tavolo del Consiglio, cinquantuno anni prima. -Forse non avrei dovuto votare a favore-
Coriolanus sorseggiò il suo thè, non concedendogli più di un’occhiata penetrante. Ma lo sapeva, lo sapeva benissimo, che quella per cui Bartheon aveva votato a favore era una punizione seria, non la stupida festa capitolina in cui Snow aveva lentamente trasformato gli Hunger Games. Una punizione che non avrebbe permesso di sbandierare su tutti gli schermi di Panem la ricchezza di Capitol City.
-Voltarsi verso il passato può essere pericoloso, visto cosa ci riserva il presente- sussurrò il presidente. Apparentemente, il suo tono di voce non era cambiato. Bartheon gli regalò una scheggia di sorriso.
-Non mi farò prendere alle spalle, se è questo che intende.- Prese la tazza tra le mani, fissandola per un istante. Non poteva essere avvelenata, non finché gli fosse stato più utile che pericoloso. Forse è solo questione di tempo. Tutta la politica di Snow, compresa quella facciata degli Hunger Games, mirava a sudditi stupidi e superficiali, vuoti e manipolabili; lui sapeva di non essere niente di tutto ciò.
-Ha un piano?-
A quanto pareva, le amichevoli chiacchiere introduttive erano finite. Bartheon bevve un lungo sorso, poi posò il thè. –Ci stavo lavorando, prima che mi trascinassero qui-
Parve non averlo sentito. -Per ora, cerchi di tenere in vita il tributo dell’11, o almeno quello del 9-
-Perché?- Bartheon alzò le sopracciglia. –Forse lui è l’unica cosa che li tiene uniti.-
-Non amo gli interrogativi, signor Greyson. Preferisco pensare a soluzioni che possa controllare- Snow tacque, assorto. -Se rimarranno soli, in Arena, e nessuno volterà gabbana… Li uccida tutti. Tutti tranne il leader-
Bartheon aveva la sgradevole sensazione di aver capito. –Vuole Ronnie Dalton come vincitore?-
-Oh, no- Snow si passò di nuovo le dita sul mento, lentamente. –Non sarà un vincitore. Solo un pezzo di carne viva nelle mie mani-
-…E dimostrerà che è quello che siamo noi tutti. In diretta. Un bel messaggio, e un finale grandioso per gli Hunger Games- completò Bartheon. Sensato e abominevole. Nello stile di Snow. –Non si arriverà a tanto, se andrà come immagino-
L'altro lo fissò. -Posso chiederle cosa immagina, signor Greyson?-
-Non ne sono ancora certo. Sto cercando il modo migliore di barare.- Bartheon accennò un sorriso amaro. -Per adesso, presidente, si goda pure i Giochi-
 Snow annuì pacatamente. -Se l’ho nominata Capo Stratega, è perché mi fido della sua intelligenza-
Bartheon non si trattenne dall'inarcare un sopracciglio. –Allora posso chiederti perché sono qui? Mi stancano le minacce velate, Snow, e so bene quanto te che se fallirò verrò impiccato-
-Mi fido della sua intelligenza, e di nient’altro.- Adesso, Coriolanus non sorrideva. Lasciò passare qualche istante gelido, poi rimarcò il concetto. –Per questo lei è qui. Volevo assicurarmi che fosse… Dalla parte giusta della sparatoria-
Non ho l’aria di un lealista capitolino?  Bartheon ampliò il sorriso. Tanto, se si conoscevano abbastanza, Snow non si sarebbe bevuto un’espressione intimorita. –Penso che le sparatorie siano antiquate. Chi dice che l’uomo non progredisca? Ad ogni guerra si uccide in modi diversi e nuovi.-
-Estrazione retorica dai tempi andati- disse Snow. I suoi occhi erano pieni di ghiaccio, in attesa di una risposta.
Quando Bartheon gliela diede, era serio. –Credimi. Se c’è qualcosa per cui posso ancora lottare, è per non rivivere mai più una sparatoria.-
 
 
 
-Ester!- Ronnie la afferrò per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi. -Qui non c'è niente-
Momo sbuffò. -Solo alberi.- Erano nel cuore della notte e quella storia andava avanti da ore intere.
Ma Ester scattò all'indietro, sottraendosi alla presa. -Era un artiglio- sussurrò. -E c'è ancora. Si sta nascondendo-
Sembrava il delirio di un folle. E, Momo ne era certa, era quello che stavano pensando tutti.
-L'altra notte cosa vedevi?- sospirò Liam.
-L'altra notte?- echeggiò Ronnie.
-Eri incosciente- chiarì Momo.
-No, no... Era diverso- Ester indietreggiò, gli occhi fissi sul bosco. -Adesso ne sono sicura. Io... io l'ho visto-
L'ho visto, lo vedo, lo vedo. Non sembrava capace di dire altro.
-Dove? Dimmi solo dove- Momo sbuffò ancora, spazientita. La ragazza continuò a fissare un cespuglio di more. Aprì la bocca per parlare, me ne uscì solo un mormorio strozzato.
Momo affondò il giavellotto nei rovi con un gesto secco, lo rigirò, strappò e affondò di nuovo. Ester si lasciò sfuggire un gemito atterrito.
-Se continui a fare rumore i Favoriti ci troveranno- le disse Momo, ritirando l'arma. Era un dato di fatto.
-Non so voi, ma io gradirei dormire- bofonchiò Liam.
Ester guardò Ronnie, supplice. -L'ho visto- ripeté in un sussurro. -L'ho visto davvero...-
Momo sbuffò di nuovo. Non aveva senso. Non aveva senso niente da quando avevano messo piede lì.
Ronnie si era bloccato con una mano sulla tempia e una smorfia strana in viso. -Qualsiasi cosa fosse- tentò di calmarla -Adesso non è qui, giusto?-
Ester si lasciò scivolare contro un albero, la testa tra le mani. -Sì- soffiò, la voce incrinata.
-Se ci avessero voluto uccidere l'avrebbero già fatto- sentenziò Momo.
-E non ci vogliono uccidere- concordò Ronnie. Aveva l'aria di chi stesse vivendo l'emicrania peggiore della sua vita. -Ester?-
Nessuna risposta.
Poi, un mormorio. Lento e chiaro, come se stesse cercando di realizzare sillaba per sillaba.
-Vedo cose che non ci sono-
Vedo cose che non ci sono. Momo pensò con orrore che non era la prima volta che sentiva una frase del genere.
Numero 47. Martin, si chiamava, ed era un orfano dislocato nel suo stesso cantiere.
Aveva iniziato dicendo di sentire voci, sussurri e risate, poi credendo di vedere demoni e chissà cos'altro. Dopo una settimana aveva cominciato a delirare. Dopo due si era rotto il polso contro un vetro.
Dopo un mese, i Pacificatori l'avevano abbattuto come si fa con i cani rabbiosi.
Momo fissò Ester lottando contro la disperazione. Era la stessa sensazione di impotenza di quel periodo, impotenza che diventava inutile senso di colpa. Non si può salvare nessuno da se stesso, le aveva detto Colette mille volte. Ma non era servito.
-Hai bisogno di dormire- Momo sapeva che era una scusa stupida, ma non aveva altro. -Siamo svegli da due notti-
-Ho dormito fin troppo ultimamente- Ronnie sorrise appena. -Resto io per il turno di guardia-
Lo scrutò critica. -No. Non stai ancora bene, lo farò io-
-È solo mal di testa- Ronnie afferrò un giavellotto appoggiato a un albero. -E fa meno male degli incubi-
-Vi prego- la voce di Ester era sempre un bisbiglio incerto, ma qualcos'altro aveva sostituito il panico. -Il... Paracadute, lì. C'è davvero?-
Era più probabile che ci fossero artigli ed ombre piuttosto di quello.
Piuttosto di un paracadute argenteo steso sotto un barattolo di metallo.
Eppure, era esattamente ciò che Momo stava fissando.
Ad ogni passo l'incredulità aumentava, mentre distingueva l'oggetto accanto al contenitore.
-Una cerbottana?- rilevò Ronnie, non meno attonito.
Momo si chiuse in un silenzio quasi sacrale, mentre ruotava il tubicino argenteo tra le dita e i colori di un'intera vita la assalivano.
La sua vecchia cerbottana nelle mani, i Pacificatori di guardia che le voltavano le spalle, distratti dal rumore di un sfera di legno lanciata lungo il corridoio. Gli schermi delle telecamere messi fuori uso dai dardi.
-Qualcuno l'ha già aperto. Non era destinato a noi- mormorò Ester.
Forse, la Mietitura non aveva cambiato niente. Non c'era Colette, non c'era nessuno che conoscesse, ma era una missione come le altre. La notte era la stessa, muoversi nelle ombre le dava la stessa sensazione di eccitazione fredda, anche se si trattava di studiare l'Arena invece che recapitare un messaggio.
In un certo senso, anche in quel momento aveva un messaggio tra le mani, anche se infinitamente più grande di una semplice lettera. Era una granata già attivata.
E in quel momento, Momo seppe di aver quasi raggiunto la meta.
-Non a noi- disse. -Era destinato a me.-
Fronteggiò lo sguardo interrogativo di Ronnie con un inevitabile accenno di sorriso. Era la fierezza, quel fervore caldo che iniziava a riempirla. Fierezza verso la sua gente.
-Questo è un metallo strano, modificato e leggero, lo stesso con cui costruivamo gli hovercraft. Io lo so, ero incaricata del trasporto nelle fabbriche. E sapevano che usavo la cerbottana. Non tutto il distretto, ma molti-
Momo fu costretta a frenarsi. Non poteva parlare di traffici illegali di lettere e gruppi rivoluzionari davanti a chissà quante telecamere. Non poteva tradirli.
Fortunatamente, nessuno chiese dettagli. -Di solito è il sindaco a sponsorizzare, nei distretti poveri- disse Ester -oppure qualcuno con la sua autorizzazione.-
-Comunque proviene dal distretto 6- ribadì Momo. -È costoso, devono averlo pagato in tanti. Tantissimi. Ed è qui anche se Capitol City non l'avrebbe mai permesso.-
-Ci sono le basi- sussurrò Ronnie. -E sono più solide di quanto avessi sperato. Non...- prese un respiro veloce, la speranza palpabile nella voce. -Non siamo i soli-
-Sono l'unico a chiedermi chi l'ha portato qui?- Momo si voltò verso Liam. Fino a un attimo prima credeva che stesse dormendo. -E come faceva il distretto a sapere che l'avrebbe fatto?-
-Non lo so- rispose Ronnie. -Ma dubito che sia di qualcuno che lo ha dimenticato in una foresta, e non c'era prima di oggi. Chiunque sia stato è vivo, e sa cosa sta facendo.-
-E quali sono i tributi ancora vivi?- provò Ester.
Momo si ricordava a stento un paio di volti. Il suo compagno di distretto e l'alleanza dov'era finito, di cui era rimasta solo Hazel Tunner.
-Dal distretto 12 e lasciando stare i Favoriti- iniziò Ronnie -Diana Jensen... Non riesco a immaginarmela. Di Amina Seen non so niente, Abigail Hiddenwood non la escluderei. Avrei tentato di farla unire, ma aveva sia un'alleanza sia una famiglia abbastanza numerosa da formare un esercito. Ricordate la sua intervista? Il cappello lanciato per terra?-
Momo avrebbe risposto di no, ma doveva essere una domanda retorica.
-Xen è improbabile, Hazel non saprei. Non sembrava avere tanto carattere per fare qualcosa del genere, ma ci ho parlato una volta in tutto. Harvey Lewis Cadwalader. Beh, non era abbastanza folle, e aveva solo quattordici anni. Alyson... Prima della sua intervista l'avrei esclusa- qui fece una pausa. -Al Bagno di Sangue era una pedana a sinistra della mia e all'inizio è fuggita nel bosco vicino al nostro. Noi ci siamo mossi poco, quindi la tempistica ci potrebbe stare-
-Grazie per il resoconto- finì Liam. -Beh, Diana cacciava illegalmente nei boschi, nonostante fosse figlia di un capitolino.-
-Quindi potrebbero essere Abigail, Alyson e forse Diana- Ronnie annuì tra sé, con un sorriso sempre meno incredulo. Forse il mentore del 6 si era messo d'accordo con un altro. Forse qualche tributo aveva saputo, prima o durante l'Arena.
O forse, più semplicemente, niente aveva senso.
Visto ciò che era successo in quell'Arena, non era una teoria del tutto improbabile.
-Non c'è solo una cerbottana-
Era stato Liam a parlare.
Momo prese il contenitore che le porgeva, in silenzio. Ci mise qualche attimo a comprendere, poi capì.
E si ricordò perché non era affatto una missione come le altre.
 
 
 
Era l'alba. Il momento migliore per nascondere il fumo.
Alek sfilò l'ascia a una mano dalla cintura, mentre i suoi piedi si muovevano da soli, passo dopo passo.
Un coniglio su un fuocherello di pigne e legna secca. Nient'altro.
Non aveva sentito colpi di cannone, quindi chiunque l'aveva arrostito era ancora in giro. C'erano due soli motivi per cui dovesse essersi allontanato mentre la carne ancora cuoceva: fuggire, oppure... tendere un'imboscata.
-Se urli muori.- E dovette dire che c'era riuscita.
Alek si girò lentamente verso di Axe. La freccia già incoccata, la corda tesa per metà.
La fissò negli occhi senza degnare l'arco di più di uno sguardo. E si accorse di non avere paura.
-Non mi hai tirato alle spalle- notò.
-Perché voglio sapere dove sono i Favoriti.- la sua voce era ferma, le sue labbra una linea dura.
Sorrise tristemente. -Chiedi a uno di loro-
Lei si limitò ad socchiudere gli occhi. -Se hai fatto quello che penso tu abbia fatto, sei persino più idiota di quanto credessi-
-Mi sopravvalutavo anche io, quando ho accettato- convenne. La sua voce era tanto calma da rasentare la follia. -Cosa stai...-
-Sto valutando le possibilità-
-Ah-
Continuò a scrutarlo, assorta. -Se finissi di tendere questo arco mi attaccheresti. Forse farei in tempo a scoccare, ma potresti parare con lo scudo e avresti tutto il tempo di lanciarmi quell'ascia. Anche se non riuscissi a parare, una freccia non ti fermerebbe all'istante e...-
La sua ascia cadde a terra, scivolò fino ai piedi di Axe con qualche stridio metallico. Un riflesso d'argento ne accarezzò la lama, affilato, letale.
-Rivaluta- disse Alek.
Lei alzò gli occhi dall'arma e lo fissò. Si fissarono. A lungo.
Poi, Axe inarcò un sopracciglio. Alek non seppe bene come interpretare il lampo nei suoi occhi, finché non sussurrò: -Fatto. Sei morto-
In quel momento una figura comparve da dietro di lei, scostando quasi distrattamente l'arco con la mano. -Chi mi spiega che sta succedendo?-
Axe cercò di rimettere in linea l'arma, ma Diana si era già piazzata tra lei e il bersaglio.
Alek sentì le proprie percentuali di sopravvivenza salire sopra lo zero. -Togliti di mezzo- ringhiò Axe, ma non fece nulla per spostarsi.
-Non ci vuole uccidere. C'è tutto il tempo per parlare- disse Diana, semplicemente.
-Cosa vuoi che cambino le parole? Non siamo bambini che hanno litigato- sibilò Axe -E non c'è nessuno che ucciderei più a cuor leggero di un traditore-
Alek aggrottò appena la fronte. Faceva male, nonostante tutto. Detto da lei faceva male.
 -Avrei potuto non dirvi di essere tra i Favoriti. Meno possibilità di essere ucciso al bagno di sangue e più di uccidervi. Non vi ho mai tradite.-
-Non si tratta di tradire noi- ribatté Axe -Hai lasciato tutte le tue alleanze e adesso vuoi implorarne un'altra? Sei solo troppo codardo per non sperare di sopravvivere- lanciò un'occhiata cupa all'ascia a terra. -E troppo codardo per avere la decenza di combattere-
Alek non negò.
Abigail fece lentamente un passo verso di lui, scostando Diana. -Se cambiassi idea di nuovo?- domandò. -Durante il tuo turno di guardia? Cosa faresti?-
Alek aprì e chiuse la bocca. Avrebbe potuto contraddirla. Fingere. Ingannarla o ingannarsi.
-Non lo so- mormorò. -Ma sto cominciando a fidarmi di più di me stesso-
-Hai preso quattro asce- si intromise Diana. Axe non ci mise molto a capire cosa voleva intendere.
-Ci stavi cercando, vero?-E L'idea non sembrò piacerle. -Cosa ti faceva credere che non ti avremmo ucciso?-
-Niente- le sorrise, scrollando le spalle. -Volevo fidarmi di voi-
Axe aveva l'aria di chi non avesse mai sentito un'idiozia più colossale. Il ché era assolutamente plausibile. -A questo punto potevi fidarti anche dei Favoriti e rimanere con loro-
-Cosa?- Alek alzò le sopracciglia, stupito. -No, non me ne sono andato dai Favoriti perché non mi fidavo di loro. Me ne sono andato perché volevo farlo.- tacque un attimo, prima di aggiungere: -Dovresti farlo anche tu-
-Fidarmi?- Axe si lasciò sfuggire uno sbuffo incredulo, ma Alek non la lasciò continuare.
-No. Scegliere in base a quello che vuoi, non a quanto ti fidi. Vuoi avermi come alleato?- aprì le dita delle mani. -Allora fallo. Io ho cominciato dal Bagno di Sangue e, beh, tutto ha molto più senso di prima-
Abigail lo guardò, inespressiva. -Mio fratello ha scelto quello che voleva-
-Sì? Anche il mio- sorrise. -Questo dovrebbe dirci qualcosa-
Axe aggrottò le sopracciglia, confusa. Per la prima volta da quando la conosceva, Alek vide il suo sguardo vacillare. -Anche il tuo?- ripeté.
Annuì pacatamente. -Si chiamava Khem ed è morto per una follia. Sapeva come sarebbe andata a finire, l'ha scelta comunque. Io sapevo qual era il prezzo quando ho lasciato i Favoriti. Tuo fratello sapeva quali erano i rischi quando si è alleato. Come può essere sbagliata una scelta che vogliamo fare?-
-Forse quando ti fa finire ammazzato- disse Axe.
-Prima o poi, tutte le scelte portano alla morte. Forse prima, forse dopo, non lo saprai mai. Potresti vincere per merito mio, Axe, o morire per colpa mia.- Alek sfiorò distrattamente il flauto nella sua cintura. -Non ti sto chiedendo di non uccidermi, ti sto chiedendo di non lasciar scegliere al ricordo di tuo fratello. Marcus...-
-Marcus probabilmente sarebbe ancora vivo, se non si fosse fidato- lo interruppe Axe. -Era tra gli ultimi tre-
-Oppure sarebbe morto comunque. Dopo qualche giorno o qualche anno, ma chiedendosi ogni attimo cosa sarebbe successo se avesse scelto quello che voleva scegliere. Rimpianti e nessuna risposta, eppure la stessa, identica fine. La ragione conduce a morti molto più stupide della follia-
-Mio fratello si è alleato perché non ha avuto il coraggio di uccidere un tributo- specificò Axe. -È morto per codardia. Questa non la consideri una morte stupida?-
Alek scosse appena la testa. -Non lo è. Non ci si può pentire di qualcosa che si ha voluto fare, a qualsiasi strada porti. Tuo fratello ha deciso di rischiare anche se non si fidava, di mettersi in gioco, di compiere la sua scelta e affidare a sé stesso il suo destino. Pensi che ci voglia più coraggio per fare una cosa del genere o per lasciarsi trascinare dall'istinto di sopravvivenza?-
Axe tacque, lo sguardo fisso su di lui. Alek ebbe quasi l'impressione di sentire i suoi denti scricchiolare.
-È un peso terribile, ma è anche l'unica cosa per cui abbia senso vivere. O morire. Io non pensavo all'essere o meno un codardo mentre lasciavo i favoriti. Ho solo deciso che preferisco morire per quello che ho voluto fare, piuttosto che per quello che ho fatto cercando di non morire.-
-Non parli come qualcuno che si è unito ai Favoriti.- disse infine Axe. C'era un'amarezza nuova nel suo tono. -Perché, Alek?-
Sollevò gli occhi al cielo, appena schiarito dall'alba. -Fingevo di essere una persona ragionevole. Dev'essere bello, quando la cosa che vuoi fare coincide con quella più logica. Poi mi sono ricordato che sono molto più simile a mio fratello di quanto sperassi essere. Anzi- si corresse -Mi sono ricordato che io sono orgoglioso di mio fratello.-
Di nuovo, fu silenzio.
-Tu lo sei del tuo?- chiese Alek, piano.
Non ci fu risposta.
-Il coniglio è pronto- Diana fece di nuovo sentire la sua voce, china sulle ceneri del fuoco.
Alek prese il coltellino dalla cintura, staccò una coscia e si sedette su un tronco abbattuto. -Fallo, Axe- ripeté, in tono leggero. -Scegli quello che vuoi scegliere, infischiatene del resto- e nel frattempo, addentò.
Rivolse un sorriso sereno agli sguardi attoniti di entrambe. Era per metà troppo crudo, per metà troppo cotto, andando per il sottile anche povero di sale.
-Pensateci- masticò il secondo boccone. -Mangio anche poco-
Carne di coniglio. Non sentiva quel sapore da quando suo fratello aveva finito di cacciare. Da quando era scomparso.
Fu Axe a spezzare l'ennesimo silenzio. Piombò seduta a terra di spalle a lui. -Alek- disse.
-Sì?-
Scagliò via l'arco. -Fottiti-
 
 
 
-E tu saresti?-
Le celle erano tutte uguali: senza telecamere, come quella di Ronnie.
Fu la prima cosa che Eric Dalton controllò. Dopo, posò lo sguardo sul prigioniero.
Alto e slanciato, con i capelli neri scarmigliati e gli occhi color pece che brillavano di diffidenza, non era difficile immaginarlo a bruciare case di Pacificatori.
-Eric Dalton-
Era solo un nome. Il suo nome. Ogni giorno più pesante.
Lo sguardo cupo di Kevin si assottigliò. –Oh, Eric Dalton- ripeté, e il sorriso si spalancò sul suo volto come una ferita. -Conosco una persona chiamata così. Che spiava e denunciava crimini ai Pacificatori. Che nessuno riusciva a spiegarsi da dove prendesse i soldi. Un gioiello di…-
-Ronnie ti ha parlato di me?-
Kevin fece un passo verso di lui, sovrastandolo. –Solo dopo che ci sbatterono in prigione. Quando non potevo cacciarlo fuori dai Dogs per il sospetto che fosse una spia anche lui, né diffondere la voce-
Eric inspirò. Non aveva ancora iniziato e già erano cominciati gli imprevisti. –Vedete gli Hunger Games dalle prigioni?-
-Il tuo interesse verso le nostre condizioni è commovente.- Kevin si avvicinò ancora, lentamente, senza distogliere gli occhi dai suoi. Eric non arretrò. –Mi stavo chiedendo… Chi ci ha fatto rinchiudere qui? Ci avrebbero davvero scoperto? L’attacco dei Pacificatori è stato sorprendentemente… Tempestivo.-
Eric prese un lungo respiro, senza scomporsi. Non gli capitava spesso di incontrare persone tanto stupide.
-Certo. Sono così disumanamente privo di scrupoli da non veder l’ora di vendere mio figlio. Credi quello che vuoi, Kevin, se avere qualcuno da odiare ti fa stare meglio.- rispose pacatamente. Ma in qualche modo doveva convincerlo a fidarsi di lui. –Chiediti anche altro, però. Ad esempio, se i Pacificatori non avessero intenzione di giustiziarvi tutti, prima che io ci parlassi-
Sul volto di Kevin non c’era più traccia di sorriso. –Perché sei qui?-
Eric Dalton intrecciò le dita delle mani, senza fretta.
–Per liberare Panem.-
Qualche istante di silenzio, poi Kevin si piegò in due e scoppiò a ridere. Una risata graffiante, forzata, disperata. –Scusa- fiatò, riprendendosi. –Non avevo mai…-
Eric lo zittì con un gesto secco. -Eri il capo, vero?-
-In persona. Kevin Heaven.-
Kevin Heaven, che gli aveva portato via suo figlio. Kevin Heaven, che l’aveva solo raccolto quando Eric l’aveva perso.
Il dolore gli appesantì la voce. –Vedete gli Hunger Games dalle prigioni?- ripeté.
-Vai al punto-
-Ronnie-
-Ronnie. A differenza di te ha spina dorsale-
E servirà solo a farci ammazzare tutti, così che possa continuare a crogiolarsi in un'utopia. Gli idealisti pensavano che bastasse schioccare le dita per mettere su un rivolta, che la giustizia fosse sempre dalla parte della morale più alta. Che le morali avessero senso quando si cominciava a spargere sangue.
Sorrise. -Non mi considererai mai un amico, e non devi. Ma ti assicuro… Per esperienza…-
-La metà di chi ti credeva suo amico ti ha confidato i suoi segreti per poi finire in questo carcere.-
Eric odiava essere interrotto, ma non lo diede a vedere. –Quello che volevo dire. E’ dagli amici che bisogna guardarsi le spalle- sorrise ancora di più. E vide l’odio nei suoi occhi.
-Per esperienza. Certo. Mai fidarsi di un amico. E di chi dovrei?-
Di nessuno. –Di chi ha i tuoi stessi nemici-
Kevin tacque.
-Avvisa i prigionieri, tutti i prigionieri. Fra due giorni, all'alba- Eric lo guardò a fondo per un momento, come per valutarlo. –Ci sarà una festa.-
Non seppe quanto tempo fosse passato, prima che uscisse da quella cella. Chiamò il Pacificatore, che la richiuse non senza lanciargli un’occhiata torva.
-Qual è il tuo nome?- chiese Eric.
-Domitius. Perché?-
Scrollò le spalle. Quando poteva, voleva sapere come si chiamavano le persone, prima di ucciderle. Perché si dimentica troppo in fretta.
–Iulius, Domitius- mormorò, allontanandosi. Due nomi. Ne mancavano altri sessanta.
Scrollò le spalle di nuovo, poi accelerò il passo.
 





Note dell'autrice che è valorosamente riuscita a non far schiattare Alek di infarto 


Scaletta dei morti:

Harvey Lewis Cadwalader, distretto 3
Amina Seen, distretto 10

 
Scaletta dei malati, feriti, morti di fame, senza tetto, bisognosi etc.

Xen Miranx, distretto 6



Buongiorno a tutti! *balla di fieno che rotola in lontananza*
No, veramente, non so quale folle potrebbe seguire una ff con i miei tempi di aggiornamento. Se continuo così dovrei inserire un "riassunto del capitolo precedente" ad ogni pubblicazione. Io vi consiglierei di leggere la storia solo dopo che l'ho completata, per non odiarmi e non dimenticarvi niente.
Il motivi del ritardo di stavolta è *rullo di tamburi* Alek. In generale, questo è stato il capitolo più impegnativo di tutta la mia vita. Ci credete se vi dico che il paragrafo di Alek l'ho riscritto dieci - DIECI- volte? E non voglio parlavi della convocazione di Bartheon e Eric. Un inferno di capitolo. Sappiate che era tutto pronto da due settimane e mezza, se non fosse stato per Alek. Lo voglio uccidere. Veramente, sta rischiando di brutto.
Dunque, è troppo tempo che non faccio un elenco numerato.
  1. Comincio con i convenevoli: mi dispiace per Harvey e Amina. Lui è morto soffocato, ho provato a scrivere un suo punto di vista ma toglieva fascino. Il POV di Amina è una matassa di roba verosimile o meno, un miscuglio tra la svalutazione di Harvey (perché Amina è era un personalità borderline), il semipassaggio da un atteggiamento vittimistico post trauma e un atteggiamento aguzzino post trauma, in mezzo al tipico flusso di ricordi post trauma, il tutto dentro uno stato dissociativo causato dalla piromania. La presa di coscienza finale forse ha senso e forse no, io non sogno neanche di poter esprimere opinioni su chi è stato traumatizzato; quello era un giudizio di Amina su se stessa. Tanto per darsi la colpa per l'ultima volta.
  2.  Sono l'unica a trovare gli Hunger Games un'idea idiota? Spesso le dittature si fondano sul fatto che il popolo non si rende del tutto conto della diversa distribuzione dei beni. Per questo ho immaginato che all'inizio non fossero una festicciola sfarzosa con tanto di sfilata etc, ma una vera carneficina in diretta. Snow potrebbe averli cambiati lentamente, lungo il processo per rendere i capitolini... Capitolini. Finché la Collins non spiega, interpreto.
  3.  Io ho dadi eccessivamente socievoli, bisogna darci un taglio. Però adesso l'arena è di un terzo più piccola, saranno tutti ammucchiati. Spero si sia capito il processo della colata. E sì, l'Apocalisse è scritta in modo così elegante che non potevo non citarla.
  4. Con tutta probabilità il prossimo capitolo - il prossimo notte/giorno- sarà cortissimo. Massimo quattro, cinque punti di vista. Effettivamente non sarebbe realistico se tutti i giorni in Arena succeda chissà che cosa.
  5. Kevin era già apparso alla Mietitura di Ronnie circa un anno fa, Eric è suo padre e mi sono francamente innamorata del suo nome. Eric Dalton, Eric Dalton, suona mostruosamente bene. Comunque, se non sapete cosa pensare di lui ho raggiunto il mio scopo.
  6. Sappiate che Xen è esausto, ustionato, intento a sputare e gorgogliare acqua mentre muore di sete su una spiaggia.
  7. Sappiate che Gehenna è stata sponsorizzata u.u ah, e se si muove più degli altri nella mappetta è perché di notte non dorme.
  8. Ah già, la mappetta. Comunque, la lava del terzo anello è adesso riunita in canaletti distinti, ma all'inizio della colata è straripata ovunque e il 90% delle foreste è bruciato. Ovvero niente da mangiare per Xen.
  
 
 
  
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