Sono
viva. Sono tornata.
Dopo
una pausa lunghissima (un anno forse?) sono di nuovo qui a tediarvi.
Qualcuno non
ne poteva più di aspettare questo capitolo (come darvi
torto?) e sono sicura di
aver perso per strada qualche appassionato lettore ma ora… a
noi! Fuoco alle
polveri!
Non
mancano molti capitoli per arrivare alla fine di questa avventura
(forse 3)! Questo
capitolo è stato riscritto così tante volte che a
volte temevo che avrebbe
visto la luce alla fine del secolo. È ben lontano
dall’essere perfetto, ma
quando l’ho riletto per l’ultima volta e mi sono
accorta di avere un sorriso
ebete sulle labbra mi sono detta che c’eravamo, finalmente.
Spero
davvero che vi piaccia. Spero che tornerete a farvi sentire e che,
nonostante
le mie pause si protraggano spesso per lunghi periodi, sarete ancora
lì, quando
scriverò la parola “FINE” in fondo a
questa storia che mi ha accompagnata per
così tanto tempo.
CAP.
12 – O CHILDREN
“Ben
svegliata, mia cara.”
Suo
padre. Ne è quasi sicura nonostante i postumi
dell’anestesia e quella sensazione di improvvisa leggerezza
fisica e mentale.
“Come
sta?”, biascica ancora prima di aprire
completamente gli occhi.
Il
Dott. Brief gli appare in un sorriso radioso.
“Non
preoccuparti, tesoro. È un bambino
straordinario ed è sano come un pesce.”
Maschio.
Non aveva mai avuto dubbi al riguardo.
“Voglio
vederlo.”
Ha
paura. Ma ha bisogno che le immagini spaventose
che negli ultimi mesi hanno affollato i suoi incubi svaniscano nel
nulla o, al
contrario, finalmente si palesino.
È
sua madre a porgerle un fagottino da cui
inizialmente spuntano soltanto due minuscole mani. Bulma si rende conto
di
tremare vistosamente mentre si sporge per prenderlo e, nonostante
l’assenza di
dolore, non sa dire se la cosa sia imputabile alla paura o
all’intervento
appena subito.
Per
un istante si domanda confusa come ha fatto il
suo corpo a farlo. Non a sopravvivere; quello ha smesso di chiederselo.
Come ha
fatto a prendere tutto ciò che di più sbagliato
c’è in lei e a restituirle
quell’esserino soffice e caldo che sbatte le lunga ciglia
infastidito dalla
luce…
“Trunks?”,
gli domanda, come se lui potesse darle
davvero una conferma.
Il
neonato apre le piccole dita a ventaglio, facendo
smorfie graziose con le guance paffute.
È
bellissimo. Quasi non riesce a credere che quello
che ha tra le braccia sia davvero il figlio che ha sognato ogni notte,
da pochi
mesi a quella parte. A poco a poco diventa cosciente anche delle
piccole cose
che, prima di vederlo, sembravano avere tanta importanza: ha gli occhi
chiari,
una bocca carnosa e un ciuffo di capelli dello stesso colore di quelli
del
nonno. È un Brief in tutto e per tutto.
C’è
anche qualcosa di lui, ovviamente. Ma non è così
doloroso come credeva. Ogni volta che il piccolo apre gli occhi diventa
impossibile non notare quanto gli assomigli il suo sguardo.
Lo
contempla adorante. Non c’è niente di spaventoso
in lui. Non c’è oscurità; non
c’è vizio. È incorrotto. E mentre Bulma
posa un
bacio delicato sulla sua fronte, non ci sono più dubbi nel
suo cuore
palpitante: lotterà con tutta se stessa per mantenere
intatto e al sicuro quel
piccolo miracolo.
“Siamo
tu ed io, tesoro mio. Non avere paura.”
Il
piccino sbadiglia incurante del mondo
circostante. Ignaro di essere il motivo per cui calde lacrime solcano
il viso
della donna che lo stringe al petto. Beatamente all’oscuro di
cosa voglia dire
essere un figlio e di cosa significhi, venire al mondo per
amore…
Bulma
chiuse la zip del suo trolley firmato e tirò
un sospiro di sollievo. Non era proprio come se stesse partendo per le
vacanze,
quando dimenticarsi qualcosa equivaleva a dover rimanere senza
quell’oggetto
fino al rientro a casa; eppure non si era mai sentita così
agitata. Era già
successo un’altra volta e chiudere quella valigia aveva
significato porre fine
ad un periodo della sua vita ed entrare inevitabilmente in un altro,
pieno di
insidie, responsabilità, inattese gioie e prevedibili
dolori.
Non
aveva paura. Bulma Brief raramente ne aveva
avuta da quando era nata e di sicuro non la avrebbe avuta ora che stava
per
ottenere ciò che per anni aveva desiderato ardentemente, ma
ciò non bastava a
non riempirle le vene di adrenalina e a rallentare i suoi battiti
cardiaci.
L’essere investita di una responsabilità
così grande, di un onore che con il
tempo aveva assunto diversi significati, non poteva che infondere in
lei parte
dell’incredibile natura del figlio che stava aspettando;
ciononostante il suo
animo fiero e orgoglioso, che gli avvenimenti degli ultimi quindici
anni
avevano elevato ad un livello che nessun abitante della Terra poteva
vantare,
restava confinato in un involucro del tutto sprovvisto della forza
fisica che
invece permeava ogni cellula del suo regale consorte.
Aveva
pensato a quel giorno fin dall’inizio. Quando
molto tempo prima il suo bene più prezioso era venuto al
mondo, aveva voluto
solo i suoi genitori accanto, forse per provare a se stessa che essere
sola non
la aveva indebolita, né lo avrebbe mai fatto. E
così era stato, perché dal
momento in cui Trunks aveva stretto il suo minuscolo pugno attorno al
suo dito
anche i suoi genitori erano sembrati superflui. Quello straordinario
esserino
che aveva deciso di far nascere più per orgoglio che per
vero istinto materno
si era trasformato in pochi istanti nella sua sola ragione di vita. Il
suo
errore più grande, un mucchietto di organi dagli occhi
azzurri che il suo corpo
aveva assemblato a tradimento, era riuscito a farla sentire completa
come mai
nessuno prima di allora.
Ora
che invece stava per avere un bambino a lungo
agognato, ci si sarebbe aspettato da lei il desiderio di condividere
quella
rinnovata felicità con tutti i suoi amici. Ma i suoi
desideri al riguardo
avevano sorpreso persino lei stessa.
Lui
si era alzato presto per chiudersi nella Gravity
Room. Era stato freddo e scontroso nell’ultima settimana,
quasi non si erano
rivolti la parola. Niente di preoccupante, comunque. A Bulma piaceva
parlare,
la loquacità faceva parte della sua natura ed era sempre
stata una delle sue
migliori armi contro Vegeta. Tuttavia non ne aveva davvero bisogno per
sentirsi
vicina a lui. Quindici anni ad interpretare i suoi silenzi, i suoi
bisogni, le
sue rabbie, i suoi momenti di depressione ed apatia, lo rendevano ormai
un
libro aperto ai suoi occhi.
“Non
voglio nessuno in ospedale.”, aveva detto una
sera a cena, facendo andare di traverso la zuppa a suo padre.
Trunks
e sua madre avevano protestato, ma alla fine
si erano dovuti arrendere alla sua ferrea volontà. Vegeta
non aveva fatto una
piega, ma lei sapeva a cosa stava pensando. Apprezzava la sua
manifestazione di
indipendenza e che lei non si aspettasse da lui qualcosa che era
incapace di
gestire. Vegeta ci sarebbe stato comunque. Ci sarebbe stato in ogni
particolare
di quel figlio che presto sarebbe entrato a far parte delle loro vite,
in ogni
smorfia, colore e caratteristica che questa volta la donna non vedeva
l’ora di
scoprire, al contrario di quanto era accaduto alla nascita di Trunks.
Ci
sarebbe stato quando avrebbero fatto ritorno alla Capsule Corporation e
sì,
avrebbe tenuto le distanze per qualche tempo per proteggersi, ma lei
non
avrebbe dubitato della sua presenza. Non lo avrebbe fatto mai
più.
Bulma
raccolse la valigia, chinandosi faticosamente
quel tanto che bastava per afferrarla ed uscì dalla sua
stanza, gettando un
ultimo sguardo intorno. Quando fosse rientrata anche le cose
più familiari le
sarebbero sembrate molto diverse, come l’altra volta? In quel
momento si
sentiva tutto fuorché una debole terrestre,
perciò lasciando quel biglietto sul
cuscino non si era interrogata più di tanto sulle parole da
scegliere per
quello che avrebbe potuto anche essere l’ultimo messaggio a
suo marito.
A
presto.
Niente
di speciale. Niente che non avrebbe potuto
dire a voce passando dalla Gravity Room. E tuttavia non si era rivelato
nemmeno
superfluo; non tanto per quelle parole scribacchiate impulsivamente,
quanto per
rendere chiaro a lui e a se stessa che ormai non c’era
distanza fisica e
temporale che potesse realmente separarli.
Un
orologio nella Gravity Room. Inutile. Come quasi
tutte le cose che nel corso degli anni Bulma e suo padre ci avevano
infilato
dentro; dall’impianto stereo invisibile
all’asciugacapelli nella doccia.
Cose
terrestri. Cose da terrestri.
Poteva
immaginarsi la fastidiosa consorte inserire
quell’orpello per ricordargli quanto tempo passava chiuso
nella stanza. Come se
saperlo potesse farlo sentire in colpa per il tempo sottratto a lei e
al
ragazzo. Ragazzo che, tra parentesi, in casa passava meno tempo di lui
ormai.
Donna
cocciuta e molesta.
Donna
che da tutta la mattina non riusciva a
lasciare fuori dai suoi pensieri, nonostante la gravità
elevata, nonostante il
ritmo massacrante di allenamento che aveva tenuto per ore.
Il
giorno era arrivato dunque. Lo sapeva da tempo,
eppure non era preparato. Non era preparato al cambiamento; lui odiava
i
cambiamenti. Non era preparato agli imprevisti. Non era preparato
nemmeno a
quella frustrante sensazione di impotenza e meno che mai alla paura che
qualcosa andasse storto. E l’unico modo per affrontare la
cosa era ormai di
ripetersi che tutto sarebbe andato bene, dato che gli allenamenti non
stavano
dando i frutti sperati.
Lei
doveva essere già partita ormai. Le lancette
dell’orologio attirarono di nuovo la sua attenzione contro la
sua volontà e
allora lui cominciò ad analizzare analiticamente la
situazione per calmarsi.
Faceva la stessa cosa quando elaborava un piano, quando si preparava ad
affrontare
un nemico. La sola potenza non era mai stata abbastanza per lui;
l’intelligenza
e l’astuzia lo avevano reso un degno erede della sua stirpe e
Vegeta non aveva
mai mancato di affinare questi doni, insieme alle sue tecniche di
combattimento. Poter prevedere gli eventi, saper reagire
tempestivamente aveva
decretato la sua vittoria più di una volta. La sua mente
cominciò a seguire
quindi il corso degli eventi: Bulma doveva essere già
uscita, tra poco avrebbe
fatto il suo ingresso nella clinica in cui già Trunks era
nato; due ore dopo il
chirurgo avrebbe praticato un incisione appena sopra il suo pube,
esattamente
dove l’aveva già fatto tredici anni prima e a quel
punto suo figlio sarebbe
nato. Bulma sarebbe stata fuori pericolo e avrebbe avuto finalmente
quel
moccioso per cui si era data tanto da fare.
Era
uno strano modo di partorire, quello. Tra la sua
gente le donne lo facevano da sole nelle loro stanze; a volte sul campo
di
battaglia se quella feccia di Freezer e dei suoi sottoposti riteneva
che ci
fosse una missione di primaria importanza. L’unica eccezione
si faceva per la
nascita dei figli del Re: in quel caso la tradizione voleva che il
sovrano
dovesse essere presente per assicurarsi che il proprio figlio non
venisse
scambiato. Tuttavia era sicuro che nessuna donna sayan avesse mai avuto
bisogno
di assistenza. Ricordava di essersi sorpreso quando aveva visto per la
prima
volta la cicatrice sul ventre di Bulma, dopo il Cell Game. Ma quando
lei gli
aveva spiegato di cosa si trattava, si era dato dello stupido per non
averci
pensato. Era chiaro che un figlio ibrido con quella forza mostruosa non
potesse
nascere in modo naturale da un essere umano così debole.
Si
impose di smettere di pensarci e decise di fare
la doccia per cercare di lavare via quelle inutili preoccupazioni
insieme al
sudore.
Qualcuno
sarebbe presto venuto a dirgli che Bulma
stava bene e allora sarebbe stato libero di partire…
Un
suono acuto e un’improvvisa sensazione di
leggerezza gli segnalarono l’abbassamento repentino della
gravità. Per un
attimo ebbe la sgradevole sensazione che dalla porta stessero per
sopraggiungere cattive notizie, ma la comparsa di Trunks gli fece
riguadagnare
compostezza.
“Ciao.”,
disse il ragazzino entrando e richiudendosi
la porta alle spalle.
“Scusa
se ti ho interrotto.”
Vegeta
distese i muscoli del collo e lanciò al
figlio uno sguardo appena meno severo del solito.
“Cosa
vuoi?”
Il
ragazzo incrociò le braccia visibilmente
contrariato e si lasciò scivolare scomposto sul pavimento
lucido.
“Non
mi va di aspettare qui. Perché non posso andare
in clinica?”
“Perché
lei ha detto di non andare.”, sentenziò il
sayan.
Trunks
sbuffò e cominciò a digitare frenetico sul
suo smartphone; una cosa che a Vegeta faceva venire i nervi.
“Mi
sono già rotto le scatole di questo
moccioso…”
A
Vegeta non sfuggì il tono del ragazzino, volto
chiaramente a provocare in lui una qualche reazione. Dio solo sapeva
quale.
“Hai
piagnucolato per anni di volere un fratello, o
sbaglio?”, gli disse contrariato.
“Un
fratello come Gohan. Non un poppante che
piangerà tutto il giorno.”, rispose il giovane
senza degnarlo di uno sguardo.
“E sono pronto a scommettere che è una femmina del
cavolo.”, aggiunse.
A
Vegeta non importava un granché che il moccioso
fosse un maschio o una femmina. Avere un altro figlio lo avrebbe messo
in
difficoltà in ogni caso, a prescindere dal sesso. Doveva
ammettere però che una
parte di lui temeva di vedere entrare nella sua vita una ragazzina con
un mix
letale dei geni di Bulma e di quelli sayan. D’altronde le
poche donne che
avevano significato qualcosa nella sua vita, avevano lasciato segni
indelebili
su di lui. Nel bene e nel male.
A
prescindere da quello che pensava lui, le parole
di Trunks lo disturbavano perché l’idea che il
ragazzo potesse provare
sentimenti contrastanti, se non addirittura negativi, verso il fratello
non
l’aveva mai neanche sfiorato. In fondo non era una cosa
così impossibile:
Trunks aveva sempre mostrato invidia nei confronti del rapporto che
univa i
figli di Kakaroth, ma lui e Bulma non avevano certo testimoniato grandi
esempi
di amore fraterno. Tra Bulma e sua sorella non scorreva di certo buon
sangue e
lui aveva rapporti pressoché inesistenti con suo fratello
Tarble.
“Avere
una sorella non è poi così
male…”
Non
sapeva perché l’aveva detto. Non sapeva
perché
d’un tratto, nella diga che solitamente custodiva i suoi
sentimenti, si fosse
d’un tratto aperta una falla.
“E
come fai a saperlo?”, gli chiese il figlio,
alzando finalmente lo sguardo dal telefono.
“Ho
avuto una sorella anche io.”
Vide
Trunks sgranare gli occhi sorpreso. Eccolo lì;
uno dei segreti che nemmeno Bulma era mai riuscita a carpirgli,
sbandierato ai
quattro venti. Uno dei ricordi che con maggior fervore cercava di
seppellire
nei meandri del suo passato…
“E
com’era?”, chiese il ragazzo sinceramente
interessato.
Vegeta
sentì una fastidiosa sensazione stringergli
la gola. Ma se pensava a lei soltanto, senza evocare gli effetti
collaterali
che riguardavano Freezer, suo padre e la rabbia che provava per non
essere
stato in grado di opporsi agli eventi, non era poi così
brutto parlarne.
“Un
po’ come te. Una gran rompiscatole.”
Trunks
sorrise. Sembrava davvero rendersi conto di
quanto fosse importante quello che il padre gli stava confessando.
“Era
forte?”, domandò il ragazzo.
“Abbastanza.”,
disse. Ma una vocina dentro di lui lo
corresse subito.
Non
abbastanza.
Non
abbastanza da sopravvivere a Freezer, almeno.
Ammesso che si fosse sporcato le mani lui stesso per ucciderla. Nessun
sayan,
prima di Kakaroth, era mai sopravvissuto se aveva osato opporsi alla
volontà di
Freezer e lei aveva commesso un crimine imperdonabile: aveva cercato di
preservare l’animo del principe dall’oscuro operato
del viscido tiranno sulla
sua giovane mente. Strinse i pugni cercando di non pensarci. Cercando
di non
lasciarsi pervadere dal senso di fallimento che quel mostro instillava
in lui
fin dall’infanzia.
Katniss
era stata l’unica persona a volergli bene
prima di Bulma. L’unica a cui poteva attribuire un ricordo
felice, ora che
finalmente aveva riscoperto cosa fosse la felicità. Di sua
madre ricordava
soltanto il volto sprezzante, ogni volta che il suo sguardo altero si
posava su
di lui. Il disgusto con cui si riferiva a lui, chiamandolo
“il figlio del Re”.
Il pensare alla codardia di suo padre, invece, provocava il suo
ribrezzo. Poteva
senz’altro far risalire la sua lunga discesa nel baratro
della perdizione,
peraltro così tanto bramata da Freezer, al giorno in cui
aveva scoperto che suo
padre aveva chinato la testa di fronte al tiranno, permettendogli di
disporre
della vita dei suoi figli come meglio credeva. A patto che il piccolo
principe
restasse vivo…
Ma
Katniss gli aveva dato qualcosa a cui (solo ora
se ne rendeva conto) avrebbe potuto aggrapparsi nei momenti peggiori
della sua
vita. Qualcosa di più potente dell’orgoglio.
Qualcosa che, nonostante gli
orrori e la malvagità che gli sarebbe stata instillata, lo
avrebbe mantenuto in
vita. Qualcosa che sarebbe rimasta sopita dentro di lui, in attesa che
una
terrestre incosciente e irritante la trovasse….
A
volte, perlopiù nel sonno, la vedeva nella sua
piccola battle suit, pronta per partire per una nuova missione. I suoi
lineamenti ormai non apparivano più nitidi come un tempo, ma
ricordava bene
quanto fosse rassicurante vederla tornare ogni volta vincitrice da
quelle
spedizioni che a lui non erano ancora concesse, con il suo sorriso
scaltro
sempre in bella vista. Non gli era permesso di passare del tempo con
lei:
ordini di Freezer. Ma ricordava che ogni volta che lei tornava su
Vegeta-sei,
dopo essere sgattaiolato nelle sue stanze al calar del sole, le
domandava se
avesse ucciso molti alieni. Lei allora si faceva seria, lo prendeva per
le
spalle e lo guardava dritto negli occhi…
“Ricordati
che noi siamo un popolo di guerrieri, marmocchio. Non di
assassini…”
Lui
non capiva. Lo addestravano per uccidere, non
per sconfiggere. Gli insegnavano a provare piacere nel farlo. Lo
facevano con
tutti.
“Freezer
e i suoi non possono capire la differenza, Vegeta. Ma tu devi farlo.
Devi
promettermelo.”
Lui
prometteva. Ma avrebbe capito solo molti anni
più tardi il significato di quelle parole.
Prima
di addormentarsi, una volta, le aveva chiesto
perché allora uccideva tutti gli abitanti dei pianeti che
visitava. Aveva forse
paura di disobbedire agli ordini?
Katniss
non aveva esitato nemmeno un secondo a
rispondere.
“Morire
non è nulla, in confronto all’essere schiavo.
Faccio loro un favore.”
…
“Non
c’è più,
vero?”
Trunks
lo riportò bruscamente alla realtà.
Vegeta
non rispose. Si girò verso suo figlio e lo
guardò. A volte faceva ancora fatica ad accettare che ci
fosse così tanto di se
stesso in lui. Che uno strumento di morte come lui potesse aver dato la
vita ad
un essere così straordinario come quel ragazzino.
“Ascoltami
bene, Trunks. Una volta mi hai promesso
che ti saresti preso cura di tua madre, ricordi?”.
Trunks
si alzò in piedi, vagamente allarmato. Certo
che se lo ricordava, ma la sua espressione diceva chiaramente quanto
avrebbe
voluto evitare di parlarne.
“…
Sì.”
Vegeta
gli si avvicinò. Trunks arrossì appena, forse
spaventato dalla possibilità che suo padre volesse
abbracciarlo. A Vegeta
scappò un sorriso. Era così, dunque, che le colpe
dei padri ricadevano sui
figli.
Gli
mise una mano sulla spalla. Ormai era diventato
alto, presto lo avrebbe raggiunto.
“Difenderai
anche Bra, vero?”
Vegeta
lo vide irrigidirsi appena. Chissà se per un istante
di ribellione adolescenziale o se per la preoccupazione riguardo i
motivi della
sua richiesta.
“Non
ci sei tu per questo?”, gli chiese il giovane
titubante.
“Io
non sono immortale”. Un tempo avrebbe dato
chissà cosa per far sì di diventarlo. Ma
ora…
Trunks
gli sorrise. Aveva imparato anche lui ad
usare il sarcasmo per difendersi.
“Vorrà
dire che difenderò anche te, quando sarai un
vecchietto...”
“È
un sì?”, domandò il sayan, ignorando la
provocazione.
Trunks
chinò lo sguardo, tornando serio. Quando
rialzò la testa c’era una fiamma di fierezza nei
suoi occhi chiari.
“Te
lo prometto, papà.”
Vasil
le fece l’occhiolino da dietro la mascherina
chirurgica e Bulma ricambiò con un sorriso.
Era
suo amico fin dalla prima infanzia; fin dai
tempi in cui gareggiavano per il titolo di studente
dell’anno. Al contrario di
Bulma però, Vasil non aveva mai trasgredito alle regole
né aveva mai avuto il
suo spirito d’avventura. Se aveva mai lasciato la
Città dell’Ovest, lo aveva
fatto solo per il tempo necessario a prendere parte a qualche
importante
intervento chirurgico che richiedesse la sua bravura.
Quando
Bulma era rimasta incinta di Trunks non aveva
dubitato nemmeno un secondo nel mettersi nelle sue sapienti mani. Ed
anche
questa volta sarebbe stato lui ad aiutarla a mettere al mondo Bra.
“Sei
pronta, Brief?”, le domandò lui, infilandosi i
guanti.
Non
era come l’altra volta. Sapeva cosa aspettarsi
al suo risveglio e non c’era traccia di paura nel suo cuore.
“Mai
stata più pronta.”, rispose lei, nonostante
trovasse piuttosto scomodo il lettino su cui era distesa e la cuffietta
che le
raccoglieva i capelli.
“Allora
direi di far nascere questo bambino.”, disse
lui avvicinandole la maschera dell’anestesia al viso.
“Pensa
a cose belle, Brief…”
Bulma
chiuse gli occhi e sorrise. Poi fu il buio…
Vegeta
aveva appena finito di fare la doccia, quando
Trunks irruppe nella Gravity Room come un uragano.
“La
mamma sta bene. E … ovviamente è una
femmina!”,
senza più nessuna emozione, se non entusiasmo.
Stava
bene. Il suo stomaco tornò a distendersi,
istantaneamente. Era tutto ciò che doveva sapere.
Poi
anche il resto dell’informazione acquisì un
senso.
Femmina.
Aveva
una figlia.
Vegeta
non poté non restare sorpreso per un istante.
Quella donna ci aveva preso. Non aveva fatto altro che blaterare di
aspettare
una femmina per tutta la gravidanza.
“Vieni
a trovarle con me?”, domandò Trunks,
impaziente.
Vegeta
si diresse verso l’uscita superando il
ragazzo.
“Vai
tu. Io sto partendo.”
Quelle
parole uccisero l’euforia del giovane come
una doccia gelata.
“Cosa!?
E dove vai!?”
Il
sayan aveva previsto una reazione del genere da
parte del figlio; ma non era preparato a dover dare spiegazioni
riguardo a
questa decisione. Dovette sforzarsi di non rispondere in modo troppo
rude.
“Vado
ad allenarmi. Non starò via molto, comunque.”
“Aspetta!”,
lo fermò il ragazzo. “Perché vai via
proprio adesso?”
Rispondere
che aveva bisogno di altro tempo, che
sentiva il bisogno di allontanarsi per un po’ non sarebbe
stato del tutto
onesto. In parte era vero, ma non era la sola ragione.
“Non
t’interessa, vederla?”, gli chiese Trunks,
visibilmente demoralizzato.
Non
gli piaceva. Doversi giustificare. Ma non poteva
permettere che suo figlio pensasse che non era cambiato per niente, da
quando
era diventato padre per la prima volta.
“Quando
sei nato tu, non c’ero. Non sarebbe giusto.”
Trunks
continuò a fissarlo in silenzio. Quasi stupito
da quella osservazione. In un secondo momento, Vegeta lo vide
arrossire,
commosso dal significato di quelle parole.
Trunks
sapeva. Ormai era grande abbastanza da
intuire ciò che per anni gli era stato omesso. Il padre che
conosceva era ben
diverso dall’uomo che aveva abbandonato sua madre incinta, ma
di lui non gli
importava granché. C’era ancora qualcosa di quel
passato nelle coccole che non
era mai stato capace di elargirgli e nelle parole affettuose che Trunks
raramente aveva sentito uscire dalla sua bocca; eppure al giovane
bastava
sapere che fin dai suoi primi passi, quell’uomo severo e
riservato gli era
sempre stato accanto, e di lui non avrebbe cambiato nulla.
“Allora
a presto, papà.”, gli disse il ragazzino
apprestandosi
a spiccare il volo, per raggiungere la clinica e sua madre il
più velocemente
possibile.
“Ehi,
Trunks. Vuoi venire con me?”
Non
sapeva perché l’aveva detto. Non gli aveva mai
permesso di accompagnarlo nelle sue peregrinazioni negli angoli
più sperduti
del pianeta. Forse perché ogni volta che sentiva il bisogno
di allontanarsi da
casa era la solitudine, quella che cercava.
Trunks
si fermò a mezz’aria, incredulo.
“Sul
serio?”, disse. A poco a poco lo stupore sul
suo viso lasciò posto all’euforia.
Vegeta
sentiva che se ne sarebbe pentito. Se non
altro perché il ragazzo si sarebbe portato dietro quello
stupido telefono rumoroso
che ormai sembrava un’estensione naturale del suo corpo. Si
sarebbe lamentato. Avrebbe
piagnucolato per un letto comodo, un pasto raffinato…
Il
sayan sorrise.
“Sì,
sul serio.”
Cosa ne
pensate (se ancora c’è
qualcuno che segue questa storia dopo tanto tempo)?
Giustifichiamo
la licenza
poetica: la sorella di Vegeta, volevo introdurla da un po’,
ma diciamo che
questo mi è sembrato il momento migliore. Mi è
sempre piaciuto pensare che il
bambino-Vegeta sia nato non molto diverso da un comune bambino
terrestre e che
la schiavitù e la solitudine lo abbiano cambiato. Non ho mai
visto i sayan come
un popolo naturalmente spietato e incapace di provare sentimenti;
è logico che
essendo guerrieri, la violenza faccia parte della loro cultura, ma in
fondo
pensiamo a quello che noi stessi esseri umani abbiamo fatto nella
storia al cosiddetto
“diverso” che abitava il nostro stesso pianeta.
La sorella
di Bulma citata nel
capitolo (si chiama Tights, ovvero “calzamaglia”)
invece non è una mia
invenzione: esiste davvero! Se vi interessa vederla e sapere qualcosa
di lei
cercate “Jaco the galactic patrolman”, la recente
opera di Toriyama in cui fa
la sua comparsa insieme ad un’adorabile Bulma di 5 anni.
Riguardo la
trama: era importante
per me che Vegeta si allontanasse da casa per un po’. Ne ha
bisogno. Ma spero
anche che sia emerso come Bulma reagisca alla cosa in modo totalmente
diverso
rispetto alla nascita di Trunks. In quel caso era completamente sola.
Ora sa,
che per quanto Vegeta decida di andare lontano per proteggersi dalle
emozioni
che lo sopraffanno, vuole quel figlio e quella vita quanto lei.
Nel prossimo
capitolo Vegeta
incontrerà Bra, non vedo l’ora che lo leggiate!
Lasciamoci quindi con uno
scaramantico “a presto”.