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Autore: Sen    22/10/2014    3 recensioni
La moka borbottava bonaria ed ugualmente ignorata sul fuoco.
L’aroma di caffè si andava lentamente diffondendo in tutto il Santuario, come un balsamo.
Andava a lambire gli scalini bianchi che portavano da un tempio all’altro, le colonne secolari e robuste, la dolorosa assenza di quelle stanze, e l’altrettanto silente presenza di quanti, invece, erano ancora lì.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Prima della lettura: qui si fa riferimento all'universo creato da Francine, nel quale ogni Santo d'Oro ha una personale assistente chiamata “Attendente”. Pubblico con il benestare dell'autrice.


Le Zagare e i Cedri


La moka borbottava bonaria ed ugualmente ignorata sul fuoco.

L’aroma di caffè si andava lentamente diffondendo in tutto il Santuario, come un balsamo.

Andava a lambire gli scalini bianchi che portavano da un tempio all’altro, le colonne secolari e robuste, la dolorosa assenza di quelle stanze, e l’altrettanto silente presenza di quanti, invece, erano ancora lì.

La luce e l’oscurità, l’accesso ad altri mondi, l’equilibrio delle parti, l’eroe ed il suo coraggio, la tagliente lucentezza, il gelo del ghiaccio eterno e la distesa di rose.

Tutto sembrava piegarsi e distendersi, di fronte a quel profumo noto che per tanto, troppo tempo nessuno aveva più avvertito, in quei luoghi che sembravano, ora più che mai, spogli testimoni di sanguinante solitudine.

Non sarebbero più tornati.

Nessuno di loro.

Avrebbero affrontato, zoppi e soli, quell’ultima battaglia, quell’ultima prova.

Già stanchi e poveri di fiducia e di fede.

Il cuore sepolto o perso in una dimensione differente, al seguito di occhi scuri o taglienti o chiari come il cielo d’estate. Di quell’intenso, infinito blu da sconfinare nel mare profondo.

Di quel nero cangiante, come il velluto delle stelle.

Spense quel fuoco azzurrognolo che ancora ardeva, le fiamme basse, meste, sotto alla caffettiera italiana.

Poi si asciugò le mani, lentamente, su di un canovaccio di lino bianco a righe rosse.

Lo ripiegò accomodandolo di fianco al lavello in acciaio perfettamente lucido che aveva utilizzato per la prima volta dopo mesi.

Quindi recuperò due tazzine dal pensile di fianco al frigorifero, quello con le ante in vetro satinato, disponendole sul tavolo con i rispettivi piattini.

Si ricordò all’ultimo momento di aggiungere anche la zuccheriera, ché il caffè le piaceva intenso e vagamente dolce.

Le posate vociarono quando aprì il cassetto dove erano custodite, come anime riportate a nuova vita.

E a lei, sacerdotessa di questo peculiare rituale, salirono le lacrime agli occhi, mentre ricordava le serate trascorse in compagnia, tutti insieme, in quella Casa che avrebbe dovuto portare il pesante sentore della morte, ed era, invece, diventata teatro di vita conviviale.

Quegli attimi strappati di serenità ai quali spesso, era chiamata a partecipare dal suo Santo, che sapeva leggere così bene dentro di lei.

Tutto sembrava solo attendere l’arrivo del padrone di casa, come se tornasse da una semplice vacanza.

Come se tornasse.

Sospirò.

Invece, lui, non sarebbe più rincasato.

E lei non avrebbe più udito quella risata sguaiata mentre lui transitava per il tempio del Toro, diretto alla propria Casa.

Con il mantello lacero tenuto su una spalla, con l’espressione da manigoldo che gli segnava il volto, con quel lampo di malizia che gli attraversava gli occhi.

Qualunque fosse il risultato della missione.

Anche quando era crollato in ginocchio a pochi passi da lei, macchiando di sangue fresco il marmo antistante la Seconda Casa.

“E che minchia...”, ma non si era opposto alle sue cure, ché tanto, con lei, non l’avrebbe spuntata, anche se ci avesse provato centinaia di volte.

Centinaia di anni, ancora.

E quando erano arrivati, quei ragazzetti buoni solo a farsi prendere a bacchettate le nocche, lui era sceso da lei.

“Non ci arriveranno nemmeno alla Quarta”, ma aveva tremato.

“Sarà un gioco da ragazzi”, ma l’aveva amata con un calore profondo, urgente, portandola su da lui, tenendola vicina, anche dopo.

“Sei mia, A.”

A bassa voce, mentre veniva, insieme a lei.

Perché ammetterlo a mente fredda sembrava una bestemmia e dire il suo nome per intero sembrava un sacrilegio.

Come se lui non potesse parlare così – non ne fosse degno – a voce alta.

Allora lo sussurrava a metà tra un grugnito ed un ansito, mentre usciva dal suo corpo, disperdendosi in una nebulosa di stelle che conosceva bene.

Mentre la portava con lui, ché quegli occhi scuri gli ricordavano i chicchi di caffè e la sua terra bruciata al tramonto.

Così erano andati avanti per mesi, in silenzio e di nascosto, da quell’altra, che gli rassettava il letto tutte le mattine, da quell’altro, che attendeva paziente che lei gli preparasse la colazione.

Non per vergogna o per pudore, ma perché quello era il loro tipo di amore, uno di quelli che riluceva soltanto alla luce delle stelle di Praesepe.

Prima che tutti gli altri giungessero alla sua Casa, o dopo che tutte le luci al Santuario venivano smorzate e solo le stelle e la luna illuminavano i loro passi.

Nella Casa di lui, nella spiaggia di sabbia fine come cipria al di là del promontorio, nella stanza che Kostas gli cedeva, giù a Rodorio, nel Secondo Tempio, quando il Toro era impegnato in missione.

Come il primo, ruvido bacio sotto le stelle, proprio alla fine di una serata in compagnia, mentre lei era stata inviata a recare del vino come dono a Mu dell’Ariete da parte di Aldebaran.

“Ti do una mano, cchì tu sì troppo picciridda per portarle da sola”, aveva bofonchiato, prendendole lo scatolone da sei bottiglie dalle mani e facendole un occhiolino storto.

Poi, di ritorno, in mezzo alla scalinata, tra le prime due Case, l’aveva presa per mano, facendola voltare e registrando con un sorriso il rossore che le colorava le guance.

Poi, lento, gettando la sigaretta appena accesa, l’aveva stretta, come se si trattasse di un gesto familiare e quotidiano.

Quant’ sì bedda, piccirì”

Aveva sussurrato al vento, in quel suo dialetto di sabbia e mare, sorridendo ai suoi occhi stupiti, prima di catturare le sue labbra con un bacio che sapeva di sale e di fumo e di arance.

Poi erano stati pomeriggi nelle sue camere private, quando Francesca era salita alla Decima.

In quella stanza bianca, con il letto a baldacchino dalle tende d’organza, appena mosse dalla brezza salmastra.

Quando lui le carezzava la pelle abbronzata sollevandole la veste e, insieme, si perdevano nel canto di quelle cicale così maledettamente convincenti da creare mondi fatti di pizzo bianco e agrumi aspri.

Senza che nessuno sapesse o udisse le loro parole perse nel sole o nella luna.

Ché lei non aveva timore né dei suoi occhi ardenti, né dei cadaveri sulle sue mani, né di quella risata malvagia che aveva ghiacciato le budella dei nemici.


Poi era arrivato quel ragazzino, da un luogo lontano fatto di draghi e di acqua e di canne di bambù che ondeggiano nel vento.

E tutto era finito.

In silenzio, così come era cominciato.

Immerso nel canto delle cicale e nel cedro che diventava amaro come le sue lacrime.


Ma oggi, oggi, no.

Oggi doveva salire alla Quarta Casa, ancora una volta.

E preparare quella bevanda che era come balsamo sulle sue ferite riarse.

Oggi, avrebbe parlato con lui, con il suo ricordo, che le cose da dire erano tante ed importanti.

Che avrebbe voluto lui fosse lì con lei, almeno questa notte.

Ancora per una notte.

Così aveva preparato il caffè.


E il fumo si alzava come seta tra le fronde degli ulivi odorosi, mentre le stelle brillavano agitate, come moniti silenti.

E quella bevanda scura e severa che le bruciava la gola e gli occhi, le chiudeva il respiro.

E il tempo si fermò, mentre dita ruvide, decise, guantate di nero splendente, le sfilarono dalle sue la sigaretta fumata a metà.

“Buonasera, A”

Una voce nota, roca, che faceva vibrare e risuonare le corde della sua anima, fino ad arrivare al suo cuore.

Chiuse gli occhi alle sue labbra sull’incavo tra collo e spalla.

Fredde, necessarie come l’aria.

Si voltò, lenta, nel suo abbraccio storto e morbido, allacciando la terra all’acqua dei suoi occhi.

Sovrapponendo al suo nome, uno differente, di secoli prima.

“Ti dona, il nero.”

Dalle sue labbra assieme alla risata sottovoce di lui.

“Sono passato a salutarti, questa volta”, spiegò agli occhi lucidi di lei e al profumo del caffè fumante e delle arance nel cestino di vimini arrangiato sul tavolo.

Sedette accanto a lei, spostando una sedia che grattò rumorosa contro il marmo del pavimento.

“Ché l’ultima volta ti ho sentita piangere fin giù in Ade”, continuò sbuffando una nuvola azzurrognola e portandosi la tazzina di lei alle labbra.

Caffè, menta, lacrime.

Lei gli prese una mano.

“Per quanto tempo?”, senza guardarlo.

“Qualche minuto”, mentre lui cercava le sue labbra, una carezza a voltarle il viso.

Fece scorrere la spallina della sua veste accarezzandole un braccio.

“A te il nero non dona affatto, invece”, sussurrò contro le sue labbra, prima che l’unica cosa tra di loro fosse il respiro infranto, roco e gemiti appena sussurrati.

Mentre le prese le mani, forte, intrecciando le dita, inchiodandole sul legno del tavolo, le tazzine rovesciate e il caffè nero, forte, che le bagnava i capelli.


Si sistemò il diadema, d’onice questa volta, liberando i ciuffi ribelli e il sorriso sghembo di chi sa che non avrà un'altra occasione.

Salutandola, questa volta, come un soldato che non farà ritorno.

Baciandole le lacrime, amare come le arance estive.

Scendendo quelle scale, per l’ultimo atto, prima che il sipario calasse di nuovo, questa volta, sperava, per sempre.

Correndo incontro alle stelle esplose.


-----



E’ seduto su una roccia, nera, di lava rappresa, mentre rigira tra le mani un mazzetto di zagare che Ade gli ha concesso di recuperare per un’occasione speciale.

Alza gli occhi solo quando sente uno sbuffo sonoro accanto a lui, ed una veste nera, svolazzante, gli solletica un braccio.

“Seguimi. È arrivata”, gli intima Minos, un’occhiata appena accennata.

Ma lui scuote la testa, testardo, gli occhi distratti verso quel corteo di anime che, senza sosta, si getta nel cratere.

“È troppo presto”, sottolinea a bassa voce, “È passato solo qualche giorno”, conclude. Tuttavia si alza in piedi, scuotendo il retro dei pantaloni, come se potessero essere impolverati.

Minos ride.

“Seguimi, Death Mask”, ripete, con più urgenza, la medesima cadenza di un madre che riprende un figlio particolarmente difficile.

“Ché l’hai fatta attendere fin troppo”, sorride quindi.

Incede di un paio di passi, voltandosi un poco a sincerarsi che quel ragazzo ribelle non resti indietro.

“E le pietre del Santuario sono aguzze”, conclude, guardando fisso di fronte a lui, nella penombra di tramonto perenne.

E il Santo, che così tanto santo non era, nemmeno in vita, seguendo gli occhi di perla del giudice, la scorge, seduta poco distante, la veste bianca, solo un poco sgualcita, le mani mollemente appoggiate in grembo.

La vede, il sorriso sugli occhi di pianto, ché sa che si trova lì per lui, a causa sua.

In silenzio, come quei baci ruvidi, le appunta una zagara tra i capelli, accomodandosi accanto a lei e lasciando che Minos torni al suo tribunale.

  
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