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Autore: riccardoIII    22/10/2014    5 recensioni
"Erano dei reietti, i Malandrini, una leggenda senza tempo e senza un tempo da vivere."
I pensieri di Remus Lupin sul treno che lo riporta a Hogwarts come insegnante, dodici anni dopo.
I personaggi appartengono a J.K. Rowling; scrivo senza scopo di lucro.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Remus Lupin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Seduto nel vagone, la testa poggiata al finestrino, teneva lo sguardo fisso lungo il binario avvolto dalla nebbia senza realmente vedere i ragazzini salutare i genitori, i gufi strepitare nelle loro gabbie, gli adulti lanciare occhiate tristi accompagnate dalle ultime raccomandazioni. Guardava invece con gli occhi della mente un uomo alto con una mano impegnata a scompigliare nervosamente i capelli già disordinati e l’altra stretta a quella di una giovane donna con gli occhi lucidi al suo fianco, ed entrambi sorridevano a un ragazzino di fronte a loro; quello però non poteva vederlo bene, era come sfocato nella sua visione, sapeva solo che ghignava all’indirizzo dei due giovani intenti a fissarlo con amore sconfinato.
 
Quell’amore che aveva fatto brillare gli occhi di James quando per la prima volta aveva messo tra le sue braccia un fagottino verde da cui spuntavano fitti capelli neri disordinati, lo stesso amore che aveva illuminato il viso di Lily quando gli aveva annunciato con orgoglio che si sarebbe chiamato Harry James. Sapeva esattamente che se i due fossero stati lì avrebbero reagito così alla partenza del figlio: Lily sarebbe stata commossa eppure si sarebbe mostrata forte di fronte al bambino per non rovinare la gioia del suo ritorno a Hogwarts, e James avrebbe dissimulato il suo disagio a separarsene con il gesto che ormai tutti i suoi amici riconducevano ai momenti di stress pur sorridendogli con fierezza, raccomandandosi di non comportarsi troppo bene per non farlo sfigurare per poi arrendersi ad abbracciarlo e ricordargli quanto bene gli voleva. E forse ci sarebbero stati anche loro con la famigliola, i loro amici, gli zii di Harry; forse avrebbero avuto qualcun altro da salutare, qualche altro ragazzino che sarebbe partito con lui verso un futuro ricco di meraviglie e felicità.
 
Ma non c’era un James sulla banchina, non c’era una Lily a salutare Harry tredicenne di ritorno a scuola. Non lo guardavano e non gli sorridevano da troppo tempo, talmente tanto che il ragazzino non conservava probabilmente alcuna memoria dei gesti affettuosi che i due avevano avuto per lui.
 
Remus invece li ricordava bene e a volte si chiedeva se non sarebbe stato meglio dimenticarsene, nella speranza che ciò bastasse a eliminare il dolore che le memorie portavano con sé. Ma sapeva, oltre ogni ragionevolezza sapeva che perfino se i ricordi gli fossero stati rimossi non avrebbe avuto scampo dall’angoscia, dal dolore, dalla colpa e dal vuoto che da dodici anni lo accompagnavano di tramonto in tramonto, ogni giorno di ogni mese, meno dodici ore o giù di lì; andava pur sempre considerato che la voragine che aveva nel petto era ben più profonda del solito nelle ore che precedevano e succedevano “l’agognato oblio”, così da non risparmiargli nemmeno una stilla del dolore che la vita aveva deciso di riservargli. Sorrise, un sorriso mesto che inarcò gli angoli della sua bocca provocandogli qualche fitta al volto ancora sconvolto dal recente attacco del suo “Piccolo Problema Peloso”, pensando che dodici anni, una guerra, un tradimento dei più vili, numerosi morti di cui tre dei suoi migliori amici, la solitudine più profonda, la povertà, il disprezzo e la sua “condizione” non erano bastati a portargli via il sarcasmo. O non gli avevano lasciato altro, che dir si voglia.
 
Chiuse gli occhi e si abbandonò completamente contro lo schienale. Si era ripromesso di non lasciarsi sommergere dai ricordi, di non rimuginare sul passato. Si era posto questa condizione quando aveva accettato il lavoro. Come se avesse mai avuto la possibilità di rifiutarlo poi, vista la sua situazione economica, come se ci avesse mai creduto sul serio di poter essere tanto forte da ignorare le memorie che quei luoghi rievocavano in lui. Non riusciva a smettere di chiedersi se la necessità di Silente di averlo a scuola per i suoi piani non l’avesse spinto a far leva, per altro in modo molto poco onorevole, sulla sua povertà e sul bisogno di accettazione. Aveva toccato i tasti giusti, se era così; era stato convincente quando aveva parlato di come la scuola l’avesse accolto una volta e l’avrebbe fatto ancora, di come fosse stato un brillante studente e avrebbe potuto facilmente trasformare il suo talento naturale in una professione redditizia, di come sarebbe stato accettato dai suoi colleghi e rispettato dai suoi studenti, di quanto Hogwarts sapesse di casa e di calore, cosa di cui la sua vita era terribilmente priva. Ma soprattutto il Preside gli aveva detto che i suoi amici avrebbero voluto che lui fosse lo zio Remus, che si prendesse cura del loro bambino rimasto così solo e indifeso, lo stesso bambino che ora aveva disperatamente bisogno di lui, in pericolo a causa dell’uomo, se poteva davvero essere definito così, che gli dava la caccia.
 
Gli aveva detto che nessuno avrebbe mai protetto Harry come poteva fare lui e Remus per poco non era scoppiato a ridergli in faccia: Silente non aveva idea di quanto fosse vero ciò che aveva detto, del fatto che nessun’altro ancora in vita sapesse cosa realmente fosse il fuggiasco e quante armi egli avesse per ottenere ciò che desiderava. Non che lui avesse fatto in alcun modo notare questa grave lacuna di informazioni al Preside, certo; aveva preferito svicolare verso un dettaglio che ribaltava le posizioni, mettendo Silente in una più scomoda della propria, chiedendogli come mai “lo zio Remus” dovesse entrare nella vita di Harry solo ora, domandando perché non l’avesse affidato a lui quando l’aveva supplicato di non mandarlo da quella sconsiderata della sorella di Lily, perché non l’avesse degnato di considerazione quando gli aveva fatto presente come il bambino veniva trattato in quella casa di matti (non era riuscito a resistere, infatti, ed era andato a Privet Drive anni prima travestito da barbone per trovarsi davanti il figlio dei suoi migliori amici denutrito e tiranneggiato, eppure la lettera in cui aveva denunciato i maltrattamenti su Harry non aveva mai avuto risposta né conseguenze).
 
Ma il Preside era al di sopra di schermaglie di così bassa lega e si era educatamente sottratto alle sue domande inquisitorie affermando che ci sarebbe stato un momento per quelle risposte, un momento che tuttavia non era ancora giunto, e il seme del dubbio e dell’ansia che aveva posto in Remus con le sue insinuazioni sulla necessità di vegliare su Harry era riuscito a scatenare in lui il desiderio di fare qualcosa, di essere una persona normale, di proteggere l’ultima porzione del suo passato ancora in vita e di vendicare ciò che era stato distrutto, il tutto nel luogo che più aveva amato al mondo e da cui lui stesso era stato amato. Sarebbe stato come vincere a una lotteria, avrebbe avuto tutto ciò che poteva desiderare. O no?
 
No, perché il dolore si sarebbe riacutizzato fino a raggiungere i picchi che l’avevano fatto urlare silenziosamente al funerale di Lily e James, e i lembi della voragine si sarebbero squarciati come quando andava a piangere sulla tomba bianca di Godric’s Hollow; avrebbe rivisto i suoi amici ovunque, nelle classi e tra i corridoi, li avrebbe rivisti in Harry; avrebbe dovuto combattere i suoi fantasmi e i mostri che erano reali, oggi più che mai. Sarebbe stato straziante, giorno dopo giorno, passo dopo passo, ripercorrere i tragitti familiari rendendosi conto che era irrimediabilmente, completamente solo, abbandonato dai suoi fratelli, dai suoi progetti, dai suoi sogni e desideri. Avrebbe dovuto accettare che il suo tempo, quello dei Malandrini, era finito e non sarebbe più tornato, che non c’era più spazio per loro in quella Hogwarts, che ora era le casa dei figli della loro generazione. E tuttavia non c’era posto per loro nemmeno nel mondo degli adulti, da cui erano stati brutalmente scacciati, uccisi, imprigionati ed emarginati; erano dei reietti, i Malandrini, una leggenda senza tempo e senza un tempo da vivere. Era ora di mettere via ciò che erano stati insieme e diventare ciò che doveva essere in solitudine.
 
Prese un respiro e buttò fuori l’aria, riaprendo gli occhi e osservando lo scompartimento. Non c’era nessun James, non c’era Lily, non c’era Peter e non c’era lui, non c’erano Dorcas e Frank, non c’erano Mary e Sarah. C’era solo il professor Remus John Lupin, non un ragazzino, non uno studente, non un amico, non un Malandrino. Un uomo logoro quanto i suoi abiti, segnato da cicatrici sottili e rughe di dolore, con trentatré anni sulle spalle, i capelli grigi, una valigia consunta reduce da giorni decisamente più felici e un bagaglio ancora più scrostato pieno di emozioni forti, colmo di una vita troppo breve per contenere tanta angoscia, tante privazioni, tanta tristezza e tanto abbandono. Era stato uno dei tanti uomini distrutti dalla guerra, eroi rimasti a camminare su questa Terra per un disgraziato incidente e che avrebbero dato qualunque cosa per essere sottratti a un tale ignominioso destino. Avrebbe preferito essere morto, Remus John Lupin, per non dover sopravvivere con la consapevolezza che il suo mondo non esisteva più. Aveva perso tutto, Remus John Lupin, gli era stata sottratta la sua esistenza un pezzo dopo l’altro, e ora si ritrovava a impersonare un ruolo che non conosceva per cercare di legarsi per quanto possibile a ciò che era rimasto dopo l’uragano che aveva raso al suolo il suo futuro. Avrebbe indossato una maschera nuova, l’ennesima, e forse sarebbe stato abbastanza fortunato da dimenticarsi chi fosse in realtà, chi si nascondesse davvero dietro le toppe cucite insieme che formavano il suo abito; era un uomo spezzato, Remus, e la sua maledizione era stata essere circondato da persone che invece erano state polverizzate. Avrebbe voluto giacere inerte, abbandonarsi al dolce conforto del nulla, e non rialzarsi più, ma aveva perso il treno anche per la morte ormai, nemmeno quella grazia gli era stata concessa.
 
E, a proposito di treni, la locomotiva rossa in quel momento fischiò. Si udì un gran sbattere di porte chiuse all’ultimo momento, un tramestio di piedi che si muovevano veloci nelle carrozze e di pesanti bauli che venivano trascinati a fatica. Il professore richiuse gli occhi ascoltando i versi di gufi a gatti e il vociare di ragazzini eccitati e decise che visto che avrebbe dovuto fingere sarebbe stato meglio cominciare ad allenarsi, così tenne le palpebre serrate, simulando un sonno che da troppo tempo mancava. Tuttavia mentre lasciava correre la sua mente tra pensieri sempre più infelici una sorta di torpore le invase e lui si lasciò completamente in balia di esso; udì come da una grandissima distanza la porta dello scompartimento aprirsi e delle voci bisbigliare qualcosa, poi la porta si richiuse dolcemente e i passi di quelli che dovevano essere ragazzini cessarono; probabilmente si erano seduti, pur mantenendosi ben lontani da lui. Continuò ad avvertire i discorsi sibilati dei coraggiosi occupanti dello scompartimento di un docente ma non ne afferrò le parole, non ne seguì il filo, non riusciva a riemergere dallo stordimento che tanto aveva agognato nei giorni passati. Poi però un nome bucò l’involucro oscuro che stava rivestendo la sua mente, e il nome si portò dietro milioni di ricordi che si affastellavano e si rincorrevano, e in quel momento seppe che non avrebbe mai avuto la forza di staccarsi da ciò che era stato. Non sarebbe mai stato soltanto il professor Lupin. I Malandrini non muoiono mai; i Malandrini sono per sempre.



 
   
 
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