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Autore: Kary91    24/10/2014    8 recensioni
[Finnick Odair| Insieme di Missing Moments | Annie/Finnick |Mags&Finnick |Gale&Finnick]
“Questa baia è fatata” rivelò poi la donna con un sorrisetto enigmatico. “Gli abitanti del Distretto 4 la chiamano ‘la Baia delle Impronte Dimenticate’. Si dice che le persone che abbiamo amato – quelle che abbiamo perso, o quelle che ci mancano – camminino su questa spiaggia tutte le sere, per vegliare sui loro cari. E, la mattina, si possono vedere le loro impronte.”
************
Quella notte, nei sogni di Finnick, le impronte tornarono bianche e prive di chiazze di sangue. Le orme dei suoi genitori inseguivano il suo percorso lungo i tubi sotterranei e le loro voci si mescolavano al ronzio continuo dei macchinari. Gli sussurravano di essere forte. Lo supplicavano di resistere.
A quel punto, il capitano si svegliò; quello fu il suo ultimo sogno.

{Questa storia partecipa al contest "La vuoi una zolletta di zucchero? Finnick Odair's Contest" indetto da ticci.EFP}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Bimbo Cresta-Odair, Finnick Odair, Gale Hawthorne, Mags
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Peter Pan del Distretto 4.'
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Premessa. La (maxi xD)one-shot è suddivisa in 6 momenti: i primi due sono ambientati durante l’infanzia di Finnick.

Il terzo durante i saluti post-mietitura, quando viene estratto per i primi Hunger Games. Il quarto è ambientato durante Mockingjay: Boggs è appena morto.

Le ultime due scene sono ambientate dopo la morte di Finnick.

Consiglio di pigiare qui prima della lettura, perché questa canzone ha largamente ispirato questo racconto!

 

 

 

Questa storia partecipa al contest "La vuoi una zolletta di zucchero? Finnick Odair's contest" indetto da ticci.EFP sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

Footprints in the Sand

fis

 

La sabbia della baia situata vicino al faro era bianca e finissima; come ogni mattina, la sua superficie era intarsiata d’impronte.

Impronte paffute, frettolose, ravvicinate. Impronte di bambini piccoli che giocavano a rincorrersi in riva al mare. C’erano anche le orme di due adulti, un uomo e una donna: il loro percorso proseguiva verso il porto, ma si interrompeva a metà baia prima di riprendere, accompagnato dalle stesse tracce paffute che poco prima inseguivano le orme di qualche ragazzino.

Erano le impronte di una famiglia unita, quelle che ricamavano la spiaggia l’una di fianco all’altra.

Le impronte di un’infanzia felice.

 

“Finnick!”

Vivianne Odair sventolò la mano per richiamare l’attenzione dei bambini che scorrazzavano lungo la riva. Suo figlio era uno dei più piccoli e in quel momento stava inseguendo un altro ragazzino, la solita espressione vispa a illuminargli il viso. Ogni volta che riusciva a toccare la spalla di un coetaneo sorrideva soddisfatto e gonfiava il petto, appoggiandosi le mani sui fianchi.

Finn!” lo richiamò ancora Vivianne, incrociando lo sguardo divertito di suo marito Gannet.

L’uomo tornò poi a osservare il figlioletto, scuotendo la testa con espressione rassegnata: chiedere a Finnick di rinunciare a giocare con i suoi amici equivaleva a pretendere che un pesce smettesse di nuotare. Sua moglie, tuttavia, non desistette.

“Finnick Gannet Odair!” esclamò, con tutta l’autorità che riuscì a inserire nel suo timbro solitamente dolce.

Il grido sortì l’effetto desiderato: Finnick rivolse un sorriso malandrino alla madre e disse qualcosa ai compagni di gioco, prima di correre verso i genitori.

“Ma dopo torni, vero, capitano?” gli urlò dietro uno dei ragazzini più piccoli, aggrottando impensierito le sopracciglia. Finnick alzò il pollice nella sua direzione e si voltò verso il padre, portandosi di nuovo le mani sui fianchi.

“Stai già partendo, papà?” domandò, lasciando ben visibile la finestrella che aveva al posto di uno degli incisivi superiori.

La madre gli passò una mano fra i capelli, notando con apprensione quanto fosse sudato.

“Il mare non aspetta, capitano!” rispose Gannet, facendo l’occhiolino al figlio. “E i marinai come tuo padre devono sempre rispondere al suo grido!”

Finnick gli sorrise, prima di gonfiare il petto e rivolgergli un saluto militare.

“Come mai sei senza maglietta?” chiese a quel punto Vivianne, solleticandogli un fianco. “Finn, hai avuto la febbre solo due giorni fa!”

Il bambino fece spallucce e strinse una mano di ogni genitore.

“Non mi piace giocare con i vestiti, poi mi viene caldo!” spiegò, indirizzando alla donna il suo sorriso sdentato.

La madre scosse la testa con espressione rassegnata, mentre il ragazzino tirava con forza, guidandoli verso il porto.

Una volta arrivati, Finnick corse fino alla barca a vela del padre e si accovacciò sul molo, attendendo con pazienza che i genitori lo raggiungessero.

“Torni presto, questa volta?” chiese, quando Gannet si arrampicò a bordo dell’imbarcazione.

“Prestissimo” promise l’uomo, chinandosi verso terra per prendere in braccio il figlio. “Oh capitano, mio capitano!” recitò poi, mettendogli in testa il suo berretto da marinaio. Finnick si mise a ridere, cercando di sistemarselo meglio sui capelli.

“Il nostro viaggio tremendo è terminato!” esclamò, snocciolando a memoria i primi versi della sua poesia preferita. Gliel’aveva insegnata il padre e il giorno prima il bambino ne aveva recitata una strofa in classe, aiutato dai costanti suggerimenti della maestra. “La nave ha superato ogni ostacolo, l'ambito premio è conquistato[1]” proseguì, con orgoglio.

Gannet e Vivianne si misero a ridere. L’uomo l’aiutò a sistemarsi il cappello in maniera che gli occhi restassero scoperti, prima di dargli un bacio sulla fronte.

“Vai a combattere i pirati?” chiese poi il ragazzino, sorridendo al padre con fare da birbante. “Tutti tutti?”

“Tutti tutti!” confermò l’uomo. “Come Capitan Sebastian” aggiunse, menzionando la favola preferita di suo figlio. Raccontava le imprese di un capitano eroico ed era stato lui a inventarla, quando il bimbo era ancora molto piccolo.

“Un giorno mi porti con te?” domandò Finnick, appoggiando le mani sulle guance del padre.

“Quando sarai più grande, capitano” promise Gannet, facendogli di nuovo l’occhiolino.

“Grande tipo così?” chiese Finnick, sollevando la mano sopra il cappello. Il padre sorrise sotto i baffi e gli afferrò le dita, alzandole poi di una trentina di centimetri.

“Più così, direi.”

Il bambino mise il broncio.

“Ma è troppo!” si lamentò, mettendosi le mani sui fianchi. “Io non diventerò mai grande. I grandi sono stupidi!”

Finn!” lo rimbeccò la madre, trattenendo a stento una risata. “Si dicono certe cose?”

Il bimbo si strinse nelle spalle, abbozzando un sorrisetto malandrino; Gannet scosse la testa con aria divertita, prima di fargli il solletico sotto le ascelle.

“Sei proprio un Peter Pan, eh?” osservò poi.

Il ragazzino aggrottò le sopracciglia.

“Chi è Peter Pan?”

“Te lo racconto quando torno” promise l’uomo, baciandogli un’altra volta la fronte, prima di metterlo a terra. “Ti basti sapere che era un piccolo furfantello come te”.

Finnick sorrise fiero, mettendo in mostra la finestrella fra i denti.

Rimase alla banchina con la madre fino a quando l’imbarcazione non partì, prendendo poi il largo.

Gannet salutò a lungo la moglie e il figlio, sorridendo della vivacità con cui il bambino si sbracciava per ricambiare, con il volto semi-nascosto dal suo berretto.

Quando la barca non fu più visibile dal porto, Vivianne prese il figlio per mano e i due tornarono alla baia per fare una passeggiata.

“Mamma?” esclamò vivacemente Finnick, saltellando su un piede solo. “Posso raccontarti la storia di Capitan Sebastian?”

La donna annuì, abbozzando un sorriso rassegnato. Conosceva quella favola a menadito, ma suo figlio sembrava trarne conforto, le volte in cui era costretto a salutare il padre; glielo faceva sentire più vicino.

Finnick prese fiato e lasciò andare la madre, per mettersi entrambe le mani sui fianchi.

“Allora… C’era una volta un capitano di nome Sebastian…” incominciò, saltellando avanti e indietro lungo la spiaggia.

Le sue impronte paffute si disegnarono sulla sabbia, seguite da quelle della madre.

“…Ed era un capitano coraggioso e invincibile…” proseguì fiero il bambino, tornando indietro e aggrappandosi nuovamente alle dita di Vivianne.

Le impronte continuarono a intarsiare la sabbia, raccontando la loro storia: erano un bambino e una persona adulta che si tenevano per mano.

Una vecchia favola risuonava per la baia, mescolandosi al sussurro del vento.

In lontananza, appena visibile, si stagliava l’albero di una barca a vela.

Le onde si infrangevano sugli scogli.

*

Le impronte lasciate sulla sabbia quella sera erano sempre paffute, ma sparse e più profonde, come se qualcuno avesse pestato i piedi con forza.

Erano le impronte di un bambino arrabbiato, che litigava con il mare. Un ragazzino che giocava con le onde, senza tuttavia sorridere.

C’erano anche delle orme più grandi, un po’ in disparte: il loro disegno intarsiava lentamente la sabbia, in maniera placida e silenziosa.

Erano impronte stanche, di una donna ormai anziana.

Le sue e quelle del bambino erano le orme di due persone costrette a crescere troppo in fretta.

 

Finnick sbatté i piedi nell’acqua, dando un calcio al fondale sabbioso.

“Oh Capitano! Mio Capitano!” esclamò, senza la traccia di orgoglio che di solito segnava il suo volto, quando recitava quella poesia. “Il nostro viaggio tremendo è terminato, la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambito premio è conquistato. Vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo es…”

Si bloccò, non riuscendo a ricordare la parola successiva. Mise il broncio e diede un altro calcio alle onde. Erano giorni che cercava di ripetere quella strofa tutta d’un fiato, ma si fermava sempre a quel punto. Era molto arrabbiato, per quella sua difficoltà: si era convinto che, se solo fosse riuscito a recitare tutta la prima strofa per intero, senza mai interrompersi, suo padre sarebbe finalmente tornato. L’avrebbe sentito – il vento avrebbe spinto la voce di Finnick fin da lui - e si sarebbe precipitato a casa. Come aveva fatto Capitan Sebastian quella volta che era stato sorpreso da una tempesta. La sua nave era stata fatta a pezzi dalla tormenta, ma lui era riuscito a resistere, aggrappandosi a un asse di legno.  Aveva quasi deciso di cedere alle onde, travolto dalla stanchezza, ma poi il vento aveva portato fino a lui il suono di una vecchia ninna nanna: quella che sua moglie cantava ogni notte al figlioletto ancora in culla. La melodia aveva convinto il capitano a non arrendersi e, grazie all’astuzia e al suo coraggio, era riuscito a tornare a casa dalla famiglia.

Finnick sperava che sarebbe successa la stessa cosa anche a suo padre. Era trascorso più di un mese da quando la sua barca a vela era partita, ma il bambino era sicuro che prima o poi avrebbe fatto ritorno.  Non poteva essere altrimenti, perché aveva lasciato al figlio il suo cappello. E Gannet Odair non si separava mai da quel berretto.

Si schermò gli occhi con la mano e controllò l’orizzonte, per assicurarsi che non ci fosse qualche barca a vela in arrivo ma, con delusione, si accorse che il mare era vuoto e desolato.

Ricominciò a recitare la poesia del capitano, ma si fermò al solito verso, non riuscendo a proseguire.

“Vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo es… es…” mormorò, strizzando forte gli occhi mentre cercava di ricordare il resto. Il suo sguardo si ravvivò tutto a un tratto.

“Esulta!” esclamò, sorridendo trionfante. “Occhi seguono l'invitto scafo, la nave arcigna e… e…”

Si bloccò di nuovo, smettendo di prendere a calci le onde; quell’ultima parte non se la ricordava proprio.

Si lasciò cadere sul fondale, bagnandosi completamente i jeans. Le lacrime incominciarono a scivolare dispettose oltre le sue palpebre, mentre il bambino nascondeva il volto dietro le ginocchia.

“Non è giusto…” mormorò, tirando su col naso. “…Non è giusto, non è giusto, non è giusto!”

“Ragazzo…” una voce soffice, dal timbro dolce, attirò l’attenzione del ragazzino. Una mano gli accarezzò con tenerezza i capelli e, quando Finnick si voltò, notò una signora anziana accovacciata nell’acqua di fianco a lui: non si era nemmeno accorto del suo arrivo. “…Perché piangi?”[2]

Finnick tirò nuovamente su col naso e si passò il dorso di una mano sugli occhi, per nascondere le lacrime alla donna.

“Mi manca mio papà” ammise in un sussurro, chinando la testa e giocherellando con la sabbia bagnata del fondale. “Questa volta doveva tornare presto, me l’aveva promesso. Invece è andato via con la barca e non è più tornato.”

La donna gli fece un’altra carezza sulla testa, sorridendogli con aria triste. Finnick la guardò meglio: qualcosa nel suo aspetto gli era familiare; era sicuro di averla già vista, da qualche parte.

La osservò mentre si sedeva di fianco a lui, stringendosi le gambe al petto. I lunghi capelli grigi le coprirono il volto, mentre la signora anziana si chinava per sussurrargli qualcosa all’orecchio.

“Vuoi sapere un segreto?”

Il bambino annuì; il suo sguardo si fece un po’ meno imbronciato.

“Questa baia è fatata” rivelò poi la donna con un sorrisetto enigmatico. “Gli abitanti del Distretto 4 la chiamano ‘la Baia delle Impronte Dimenticate’. Si dice che le persone che abbiamo amato – quelle che abbiamo perso, o quelle che ci mancano – camminino su questa spiaggia tutte le sere, per vegliare sui loro cari. E, la mattina, si possono vedere le loro impronte.”

Finnick la ascoltò rapito, sfregandosi le guance umide con la mano di tanto in tanto.

“Non è una bugia, vero?” chiese, un po’ esitante.

La donna gli sorrise, prima di scuotere la testa.

“È tutto vero” lo rassicurò, sfiorandogli il naso con l’indice. “E, se hai pazienza, domani mattina lo scoprirai da te” promise infine, alzandosi da terra e scuotendo l’orlo zuppo dei pantaloni che indossava. “Adesso avrei proprio bisogno di fare una passeggiata! Sono troppo vecchia per restare con il sedere a mollo tutto questo tempo!”

Finnick ridacchiò, prima di scattare in piedi.

“Vengo con te!” esclamò poi, tendendole la mano.

Camminarono lungo la riva per qualche minuto, mentre il cielo incominciava a tingersi di rosa.

“Quanti anni hai?” chiese a un certo punto il bambino, rivolgendole un’occhiata incuriosita.

La donna si mise a ridere.

“Troppi, bambino mio.”

Il ragazzino fece spallucce.

“Io ho cinque anni” la informò poi, battendosi una mano sul petto. “Sono Finnick, ma papà mi chiama sempre ‘capitano’. E tu?”

“Io mi chiamo Margaret” rispose lei, sorridendogli materna. “Mio padre, però, mi chiamava Maggie.”

“E la tua mamma e i tuoi amici come ti chiamano?”

“Di solito Mags” rispose la donna.

Mags è fico!” decise il bambino, annuendo energicamente. “Ti chiamerò anch’io così. Mags?”

“Che cosa c’è, Finnick?”

“Io un pochino ti conosco” ammise il piccolo, rivolgendole un sorriso furbetto. “Tutti ti conoscono.”

“Ah, sì?”

L’espressione benevola della donna si inombrò leggermente.

“Sì… Il papà dice che è perché una volta hai combattuto contro i pirati. E li hai sconfitti tutti!” dichiarò allegramente il piccolo, assestando qualche pugno a un nemico immaginario. “Mags…” mormorò poi, aggrottando appena le sopracciglia. “…Sembri triste.”

Si era accorto che la sua nuova amica aveva perso il sorriso gentile che gli aveva rivolto fino a poco prima. La donna scosse lentamente la testa.

“Non mi piace molto ripensare ai pirati” rispose poi, accarezzandogli con tenerezza i capelli. Il bambino le rivolse un’occhiata apprensiva, prima di annuire.

“Ti va di giocare con me?” chiese infine, indicandole la spiaggia. “Possiamo costruire un castello, o una nave di sabbia. Anzi, ci sono! Costruiamo il veliero di Capitan Sebastian! Ma dentro ci mettiamo solo lui, niente pirati: te lo prometto.” aggiunse solenne, posandosi una mano sul petto.

La donna rise di cuore e, in quel frangente, l’ombra scura sul suo volto tornò ad affievolirsi.

Mano nella mano, il piccolo Finnick e l’anziana Mags raggiunsero la riva: il percorso delle loro impronte s’interruppe nel punto in cui i due incominciarono a costruire una piccola imbarcazione fatta di sabbia e conchiglie.

L’indomani mattina, il bambino tornò alla baia e Mags gli mostrò una serie di orme che proseguivano fino al mare: erano impronte grandi, di stivali da uomo adulto.

Le impronte di un marinaio come Gannet Odair.

*

Quel pomeriggio la spiaggia della baia era immacolata, del tutto priva di tracce: era giorno di Mietitura.

Le impronte di sabbia sporcavano il piazzale, dove i giovani del Distretto 4 si erano raccolti: erano orme appena accennate, mescolate a qualche pietruzza. Impronte ben calcate, di adolescenti fieri, e altre nervose, pasticciate, di ragazzini sperduti.

C’erano anche delle orme rassegnate, di sabbia bianca, accostate alla porta del palazzo di giustizia: impronte di un giovane capitano che stava per ormeggiare e abbandonare il porto.

 

Vivianne spalancò la porta, frugando la stanza con sguardo atterrito. Trovò Finnick intento a camminare avanti e indietro, con gli occhi spauriti che fissavano il vuoto e le mani serrate a pugno in un evidente tentativo di mantenere la calma. I sandali sporchi del ragazzo seminavano granelli di sabbia per terra a ogni suo movimento.

Quando la madre gli andò incontro per abbracciarlo, ricambiò la stretta con energia.

“Non possono portarmi via anche te” mormorò la donna, aggrappandosi alla sua camicia. “Non possono farlo, Finn, non possono…”

“Mamma…” mormorò il quattordicenne, cercando di calmarla. “…Mamma, guardami.”

Si ritrasse con gentilezza dalla presa della donna, per poter incrociare il suo sguardo.

Mags si prenderà cura di me” promise infine, sforzandosi di controllare il tremito nella propria voce. “Andrà tutto bene, te lo prometto.”

Vivianne incominciò a scuotere la testa, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta.

Specchiò i suoi occhi chiari in quelli verdi del figlio, altrettanto umidi di lacrime, e gli sfiorò con tenerezza il volto.

“Sei solo un bambino…” mormorò infine, accarezzandogli una guancia: era così bello, suo figlio.

Assomigliava a Gannet, ma c’era qualcosa nei suoi modi fare scanzonati che apparteneva solo a lui, e che lo rendeva ancora più attraente. Attirava spesso l’attenzione delle coetanee per via del suo bell’aspetto, ma agli occhi di Vivianne quella di suo figlio era una bellezza ancora pura, da ragazzino. Il suo sorriso era quello di un bambino e i suoi occhi verdi si facevano più vispi, quando lei gli nominava scherzosamente il suo eroe d’infanzia, Capitan Sebastian; proprio come quando era piccolo.

Lo guardò a lungo, scuotendo più volte la testa; la paura di perderlo le attanagliò tutto a un tratto lo stomaco.

“Oh capitano, mio capitano…” mormorò a quel punto, abbozzando un sorriso triste.

Il figlio ricambiò, concedendosi per un istante l’espressione malandrina che l’aveva caratterizzato sin da ragazzino.

“Il nostro viaggio tremendo è terminato” recitò poi, cancellando con l’indice la riga che una lacrima aveva lasciato sul volto della madre.

In un angolo della stanzetta uno dei pacificatori incominciò a dare segni d’irrequietezza, lasciando intuire a Vivianne che il tempo a sua disposizione stesse per finire. La donna strinse a sé il figlio ancora una volta, decisa a non lasciarlo andare fino a quando non gliel’avessero più permesso.

“Torna a casa, capitano” mormorò, accarezzandogli il viso.

Finnick annuì, chinandosi in avanti per darle un bacio sulla fronte.

“Tornerò” promise, stringendole le mani.

I due pacificatori presenti nella stanza si scambiarono un cenno d’intesa, prima di chiedere a Vivianne di uscire.

La donna rifiutò, ma uno degli uomini l’afferrò per le spalle, intimandole di separarsi dal ragazzo. Vivianne lottò per liberarsi, ignorando le rassicurazioni di Finnick, trattenuto dal secondo pacificatore.

“Guarda le impronte!” le gridò infine il giovane, mentre la madre veniva condotta fuori dall’edificio. “Le mie impronte sulla baia, come facciamo sempre con quelle di papà!”

La donna si arrese alla presa del pacificatore, che la spinse all’esterno del palazzo di giustizia, facendole perdere l’equilibrio; cadde in ginocchio, graffiandosi le mani sul cemento. Percepì all’istante il contatto ruvido dei granelli di sabbia sotto i polpastrelli e se li lasciò scorrere lungo i palmi, mentre le lacrime tornavano a rigarle gli zigomi.

Una serie di impronte sfatte, a mala pena riconoscibili, si inseguivano fino all’ingresso del palazzo: le orme di suo figlio.

Versi sparsi di una poesia incominciarono a risuonarle nella testa, accentuando il dolore che avvertiva all’altezza del petto; era la preferita di suo marito, la stessa che Finnick si era sforzato così tante volte di imparare a memoria, da piccolo. Non era mai riuscito a memorizzarla per intero, ma lei l’aveva fatto.

Ed erano proprio gli ultimi versi di quella poesia che le rimbombavano nella mente in quel momento.

O gocce rosse di sangue,

là sul ponte dove giace il Capitano,

caduto, gelido, morto.”

 

Note conclusive.

Anzitutto, chiedo scusa per la lunghezza spropositata di questa storia! Di solito mi piace riprendere più momenti della vita di un personaggio nelle one-shots, partendo dall’infanzia per arrivare all’età adulta, ma una volta ero in grado di inserire più mini-scene senza andare oltre le 10 pagine -\- Adesso, a quanto pare, non ne sono più in grado. Perciò mi è uscita fuori una maxi-one shot di circa 18 pagine, per sfortuna della povera giudicia a cui tocca valutare c__c Per pubblicare l’ho divisa, mi vergognavo piazzare un capitolazzo di 8000 parole! Nei prossimi giorni pubblicherò la seconda parte. Il titolo della storia è legato a una canzone di Leona Lewis che si chiama appunto “Footprints in the sand” e che mi ha dato l’ispirazione per plottare questa storia.

L’immagine dell’albero della barca a vela e delle onde che s’infrangono sugli scogli come chiusura della prima scena le ho inserite perché sono, rispettivamente, la prima e l’ultima immagine che Katniss “vede” nel momento in cui Finnick muore.

I riferimenti a Peter Pan li ho inseriti per allacciarmi a un’altra mia storia intitolata, appunto, “Il figlio di Peter Pan” e che parla di Sebastian, il figlio di Finnick (e che a sua volta era collegata a un’altra one-shot scritta un annetto fa, “Un bimbo sperduto”). È la storia che avevo scritto inizialmente per partecipare al contest, ma a cui poi avevo dovuto rinunciare, perché avevo dovuto strutturarla come una long e nel contest erano vietate. A me Finnick ha sempre ricordato molto Peter Pan, sia fisicamente che nei modi, e ci tenevo a sottolineare questa somiglianza soprattutto parlando del Finnick bambino. Anche i riferimenti alla baia e alla leggenda delle impronte si legano al racconto su Sebastian.

Mags nei libri non si esprime molto bene, ma ho pensato che questo problema potesse essere sorto più in là con il tempo e che quindi a questo punto della storia riuscisse a parlare ancora fluentemente. Inoltre, non penso che in quel periodo potesse avere più di una sessantina d'anni, ma ho immaginato che agli occhi di un bimbo piccolo come Finnick, potesse apparire come una donna piuttosto anziana. I “pirati” che Mags ha sconfitto a cui accenna Finnick sono, ovviamente, i tributi. Suo padre gliene ha parlato a quel modo per non dover scendere nei dettagli sugli Hunger Games.

Credo di aver detto tutto! Ricordo a tutti i fanwriters e i lettori del fandom di fare un salto nel gruppo FacebookThe Capitol”, che sta organizzando un sacco di iniziative legate proprio al far conoscere maggiormente le proprie storie. Ci sono anche giochini e discussioni varie legate alla saga di Hunger Games! È in lavorazione anche una pagina facebook dedicata alle fan fictions su Hunger Games!


Un abbraccio e a presto!

Laura

 



[1] Le frasi che Finnick e suo padre recitano sono tratte dalla prima strofa della poesia “O capitano! Mio Capitano!” di Walt Whitman (“O Captain! My Captain!” In originale). Ci sono varie traduzioni, io ho scelto questa: http://www.paroledautore.net/poesie/straniere/whitman/whitman-capitano.htm

[2] “Ragazzo perché piangi?” sono le parole che  un’ormai anziana Wendy rivolge a Peter Pan nel film “Hook”. Ogni riferimento al film che ha ispirato “Il figlio di Peter Pan” è puramente casuale u.u

   
 
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