Titolo:
Pine
cone
Personaggi:
Annie Cresta, Finnick Odair
Pacchetto:
Distretto 7
Contesto:
Ambientata dopo il ritorno
di Annie dagli Hunger Games
Genere:
Sentimentale, Romantico, Malinconico
Rating:
Verde
Avvertimenti:
Missing Moment
Introduzione:
«Lo sai?».
«Che cosa?», risposi stizzita.
La sua capacità di cambiare argomento mi stava
tornando utile, ma non gli avrei perdonato facilmente il commento di
prima.
«Ho sentito una storia sulle pigne, una volta, ma
probabilmente non
t’interessa».
Vedendo che esitavo, continuò: «Mio padre mi disse
che una volta
bagnate, si richiudono su se stesse nascondendo i semi e non si aprono
più».
La sua era una frase innocente, di per sé, ma non potei che
sentirmi chiamata
in causa.
Stava cercando di capire la mia reazione, e forse proprio per questo
motivo cercai di nascondere al meglio possibile ciò che
provavo, seppellendolo dentro
me stessa e lasciando che mi desse fuoco dall’interno.
Pine Cone
H |
o i ricordi un
po’ appannati, riguardo a quel momento. Ricordo che stava
facendo sera, e che
il cielo era, come sempre, privo di qualsiasi traccia anche solo
minimamente
accennata di nuvole. C’era un alone pallido che si levava
dalle case e si
rifletteva nell’acqua del mare, la quale iniziava, col
sopraggiungere del
crepuscolo, ad annerirsi. Era l’ora in cui i pescatori
tornavano con le loro
barche stracolme di pesci ed esausti consegnavano le prede agli
ufficiali di
Capitol per poi rifugiarsi in casa, infiacchiti cenare e spossati
infilarsi a
letto nell’attesa di un’altra nuova, estenuante,
giornata di lavoro. Proprio in
quel momento qualche campana suonava, in lontananza, come monito a
chiunque
fosse ancora in giro per le vie di girare i tacchi e correre
velocemente in
casa.
Camminavo lentamente, posando i piedi scalzi sul terreno umido e irto;
gli aghi
di pino mi pungevano il piede, ma quasi non me ne accorgevo mentre
percorrevo
il territorio della pineta che costeggiava la costa. I rumori di quel
giorno si
confondevano con quelli di settimane addietro; voci si sovrapponevano a
voci e
mi bruciavano la testa dall’interno. Osservavo smarrita le
luci delle boe che
emergevano e affogavano in un’eterna sequenza che pareva non
avere fine.
Il mare ha quest’ambigua
capacità di dare
agli uomini l’impressione di poter raggiungere
l’universo, di potersi
ricongiungere con l’infinito, di essere in grado di
abbandonare sulla
terraferma le preoccupazioni e di partire per mondi migliori,
e per questo,
il distretto quattro era invidiato da quelli più lontani per
la parvenza di
indipendenza che vi spirava sopra. Io, l’oceano, da un
po’ di tempo lo vedevo
solo come un pauroso nemico da cui stare il più possibile
lontana.
Le acque mi avevano preso, ridato e strappato di nuovo dalle mani la
vita, e
avevo ben poca intenzione di affidarmici nuovamente. Gli abissi si
erano
portati via mio padre, e a mano a mano che mi allontanavo dal ricordo
di lui,
mi distanziavo anche dal temibile killer che me l’aveva
sottratto. Per questo
motivo mi ero sempre considerata come una creatura di terra. Ero
scoglio,
roccia ben piantata a terra; non ero un pesce, né tantomeno
una bellissima
sirena, e non avevo alcuna intenzione di darla vinta
all’acqua, e di
abbandonarmi nella Sua morsa.
Tuttavia, ricordo che quel ragazzo un po’ lunatico ed
egocentrico era riuscito
a farmi superare la paura, darle uno schiaffo e farmi beffa della sua
impotenza. Mi aveva insegnato a nuotare, a trattenere il respiro e a
lasciarmi
andare. Lo avevo fatto, e nello stesso tempo avevo imparato ad amare,
il che
procurava un po’ la stessa sensazione di incertezza che si
prova a fluttuare
incessantemente tra la luce del sole e l’oblio del fondo
marino. Non avevo
avuto il tempo di rivelargli nulla. Lui era partito, e quando
finalmente
l’avevo riavuto indietro, Finnick Odair non era
più la persona che avevo
conosciuto.
Me ne allontanai, perché l’angoscia di non
riuscire più a vedere in lui il
ragazzo di cui mi ero innamorata era più grande ancora della
paura di
lasciarmelo sfuggire.
Non lo vidi per molto tempo, e quando infine gli rivolsi la parola fu
il giorno
in cui fui mandata a morire. E morii
veramente, in quell’arena. L’acqua era
riuscita a strapparmi ogni singolo
briciolo di umanità che mi era ancora rimasta. Io le ero
sopravvissuta. Gli
altri no. Io avevo vinto per quella stessa debolezza di cui avevo
sempre
sofferto. Io ero morta con loro. Con mio padre. La
vera me, da quel giorno, non era più esistita.
Ero sicura di aver sentito dei passi alle mie
spalle. Per qualche
strano motivo ero seduta per terra, appoggiata con la schiena a un
tronco
d’albero, le ginocchia al petto e in mano una pigna. Non
m’importava scoprire
chi fosse. Un pacificatore mi avrebbe riportato al villaggio dei
vincitori
senza proferire parola. Un qualsiasi altro abitante mi avrebbe
guardato,
avrebbe distinto in me la “povera pazza” del
distretto e avrebbe proseguito dissimulando
le occhiate che avrebbe lanciato nella mia direzione. In ogni caso, non
sarei
stata distratta dal piccolo vegetale legnoso che mantenevo in una mano
e da cui
toglievo i semi con l’altra.
Assorta nella mia opera, non mi accorsi che i passi si erano arrestati
a pochi
centimetri di distanza dal mio viso, e quando sentii una mano callosa
scostarmi
i capelli dal volto trasalii, arretrando per quanto la vicinanza con
l’albero
me lo permettesse. Alzai lo sguardo lentamente, notando poco
distintamente un
paio di sandali, delle gambe di uomo, un paio di pantaloncini di tela
beige,
una maglietta grigia, un sorriso sbieco e una chioma biondo cenere. Ero
sul
punto di capire chi fosse quando parlò.
«Annie Cresta», disse semplicemente. E
un’infinità di immagini prese ad apparirmi
come veloci flash di una vecchia pellicola cinematografica, di quelle
che anni
fa avevo visto in un documentario sui tempi antichi. Ricordavo la sua
voce.
«Finnick Odair», gli risposi. Mi aspettavo che se
ne sarebbe andato, così ripresi
ad occuparmi dei miei semi.
Mi accorsi che aveva ripreso a parlarmi solo quando mi toccò
la spalla e iniziò
a scuoterla delicatamente. Non pretese che lo avessi ascoltato,
così riformulò
la domanda.
«Come stai, Annie?».
«Bene, credo». E lasciai ancora una volta cadere la
conversazione nell’enorme
vuoto che si era creato tra di noi. Finnick aveva evidentemente
intenzione di
riempire quell’opprimente mancanza, ma io non gliene diedi il
modo. Ogni volta
che mi rivolgeva una domanda rispondevo, ma subito tacevo e contribuivo
ad
allargare quella già enorme lacuna. Lui rinunciò
a parlarmi, ma mi si sedette
accanto e mi osservò senza fiatare. Quando mi alzai lui fece
lo stesso, e mi
seguì fino al faro, nelle cui vicinanze mi sedetti ad
osservare l’alta marea.
«Sta per arrivare una tempesta», dissi. Non nascose
di certo la sorpresa nel
sentirmi rivolgergli la parola. Lo stavo guardando. I suoi occhi
azzurri si
erano accesi e aveva mostrato quel sorriso suadente che aveva incantato
tante
donne, da quando era partito per Capitol City. Al pensiero sentii una
gran
rabbia montarmi nel petto, ma appena parlò fui distratta dal
suo timbro di voce
e lo ascoltai volgendo lo sguardo al cielo.
«Come puoi dirlo? Ci sono appena un paio di
nuvole». Agli occhi di chiunque
poteva avere ragione, ma io conoscevo questo sentore, e non sarei stata
di
sicuro in grado di farlo comprendere a lui.
«Non posso spiegartelo, ma so che è
così. Tu non c’eri. Tu non puoi capire».
Avevo fiuto, per l’acqua. La sensazione che provavo sotto
pelle era la stessa.
Paura. E non cambiava nulla il fatto che quella fosse una diga e questa
invece
la più grande distesa d’acqua salata al mondo. Non
le avrei più permesso di
prendermi con sé. Risalii qualche scoglio e mi allontanai
dalla costa
velocemente.
Quando si sedette di fianco a me, lo osservai, stavolta più
attentamente. La
sua espressione era cambiata, nel giro di una mia sola frase. I suoi
occhi
correvano su e giù, dalle stelle all’oceano, e
continuava a far cadere il suo
sguardo nel punto in cui i due si univano e la luna si specchiava.
«Ehi Annie».
«Dimmi, Finnick».
«Stavo pensando…»
s’interruppe, quasi per riprendere fiato «Volevo
solo dirti
che mi dispiace, per tutto quello che è successo. Avrei
voluto starti accanto.
Non avrei dovuto lasciarti mai da sola. Io…».
«No, Finnick» lo interruppi «è
giusto così. Tu ed io non eravamo destinati a
stare insieme, e lo sappiamo entrambi. È inutile piangersi
addosso. Le lacrime
ci legano al passato, e noi siamo costretti ad andare avanti».
«Ma tu non ci riesci, non è
così?». A quelle parole mi zittii. Non avevo
distolto lo sguardo un attimo dalla sua figura, ma in quel momento
l’imbarazzo
era troppo e mi sentivo tradita. Mi stava fissando, ma io interruppi il
contatto visivo e sospirai, accorgendomi in quel momento che avevo
ancora in
mano quella maledetta pigna. La stavo per lanciare in acqua, quando
Finnick
riprese a parlare.
«Lo sai?».
«Che cosa?», risposi stizzita. La sua
capacità di cambiare argomento mi stava
tornando utile, ma non gli avrei perdonato facilmente il commento di
prima.
«Ho sentito una storia sulle pigne, una volta, ma
probabilmente non
t’interessa». Vedendo che esitavo,
continuò: «Mio padre mi disse che una volta
bagnate, si richiudono su se stesse nascondendo i semi e non si aprono
più».
La sua era una frase innocente, di per sé, ma non potei che
sentirmi chiamata
in causa. Stava cercando di capire la mia reazione, e forse proprio per
questo
motivo cercai di nascondere al meglio possibile ciò che
provavo, seppellendolo dentro
me stessa e lasciando che mi desse fuoco dall’interno.
Nonostante ciò, o forse
proprio per quello, non riuscii a contenere un commento freddo,
specchio dei
pensieri che mi avevano attraversato la mente in un intangibile e
fulmineo
secondo.
«Io non sono una pigna».
«Ma ti comporti come se lo fossi». Non so se avesse
previsto la mia reazione o
avesse semplicemente la risposta sempre pronta. In ogni caso,
m’irritò
parecchio.
«Io non sono una pigna», ripetei, più
per me stessa che per lui. Me la prese
dalle mani e la lanciò con forza nel punto in cui
l’avrei scagliata io attimi
prima. Mi afferrò dolcemente un braccio e mi strinse a
sé, inspirando a fondo
il mio profumo. Non potei evitare di fare lo stesso, e mi rilassai
contro il
suo petto solido.
Mi accorsi in quel momento che stavo scappando da lui come fosse
un’onda creata
apposta per sommergermi.
«Dobbiamo smetterla di scappare l’uno
dall’altro. Non devi aver paura di me». Finnick
Odair mi leggeva nel pensiero, o perlomeno riusciva a leggermi dentro.
Non ero
pronta per lui, non lo ero mai stata. Eppure ero sicura che se non
fosse stato
lui, non sarebbe stato nessun altro.
«Io non ho paura di te».
«Tu hai paura di noi». A quel punto non riuscii
più a stare zitta.
«Io non ho paura di te, Finnick. E non ho nemmeno paura di
noi. Io ho paura di
me, e di loro. Ho paura…» ero consapevole di
potergli sembrare irragionevole,
ma continuai col mio discorso «Ho paura che ti portino ancora
via da me. Tu non
sai cos’ho passato quando te ne sei andato e quando sei
tornato ma non eri più
tu. Quindi no, non ho paura di te, di quello che eri. Mi spaventa
quello che
loro ti hanno reso!». Mi fermai un secondo per prendere
fiato, ma quello che
sarebbe dovuto essere un normalissimo atto si trasformò in
un istante in un’impresa
problematica. Sentii il fiato mancarmi e gli occhi bruciare, come
fossero stati
pregni di acido. Avevo circoscritto e puntellato troppo
quell’argine, che non
era comunque riuscito a reggere il peso di quella pressante situazione.
Tutto a
un tratto mi sentii esausta, e appoggiai la testa sulle ginocchia,
cominciando
a singhiozzare.
«Io sono pazza, Finnick. Non staresti bene con me. Io stessa
non sto bene con
me».
«Annie…» non lo ascoltai
«Annie guardami». Era vicinissimo a me. Il suo
respiro
sul collo mi fece tremare e d’istinto sollevai lo sguardo. Mi
sfiorò una
guancia col palmo screpolato e mi prese il mento tra le dita. Non
esitò un
attimo e mi baciò.
Non avevo mai baciato un ragazzo, e il brivido che sentivo sotto pelle
non era
nemmeno paragonabile a quello che avevo avvertito poco prima; era il
fragore di
tuoni nello stomaco, lo sfarfallio di ali nel petto, il sussulto dei
polmoni e l’arcobaleno
negli occhi chiusi. Era il non esserne sazia, era il cedimento di
quella parte
di me che pensavo aver costruito con solide fondamenta.
Mi lasciai andare, lasciai che abbattesse i miei muri, lasciai che mi
curasse,
che mi amasse.
Quando ci staccammo, mi guardò negli occhi e avvertii
un’intensità e un’urgenza
che non avevo mai sentito prima. L’acquamarina dei suoi occhi
si scontrò con il
verde dei miei.
«Io ti amo, Annie Cresta», disse.
E io non fui mai così felice di essere una pigna in
balìa di questo avvolgente,
misterioso e profondo mare.