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Autore: Thiyori    24/10/2014    1 recensioni
«Lo sai?».
«Che cosa?», risposi stizzita. La sua capacità di cambiare argomento mi stava tornando utile, ma non gli avrei perdonato facilmente il commento di prima.
«Ho sentito una storia sulle pigne, una volta, ma probabilmente non t’interessa». Vedendo che esitavo, continuò: «Mio padre mi disse che una volta bagnate, si richiudono su se stesse nascondendo i semi e non si aprono più».
La sua era una frase innocente, di per sé, ma non potei che sentirmi chiamata in causa. Stava cercando di capire la mia reazione, e forse proprio per questo motivo cercai di nascondere al meglio possibile ciò che provavo, seppellendolo dentro me stessa e lasciando che mi desse fuoco dall’interno.

Quarta classificata al contest: “- The Civil War Games -” indetto da Darkmoon 90 e Ciara90 sul forum di Efp.
Fannie | One Shot | 1997 parole | Rating Verde
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Pine cone
Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair

Pacchetto: Distretto 7

Contesto: Ambientata dopo il ritorno di Annie dagli Hunger Games

Genere: Sentimentale, Romantico, Malinconico

Rating: Verde

Avvertimenti: Missing Moment

Introduzione:
«Lo sai?».
«Che cosa?», risposi stizzita.
La sua capacità di cambiare argomento mi stava tornando utile, ma non gli avrei perdonato facilmente il commento di prima.
«Ho sentito una storia sulle pigne, una volta, ma probabilmente non t’interessa».
Vedendo che esitavo, continuò: «Mio padre mi disse che una volta bagnate, si richiudono su se stesse nascondendo i semi e non si aprono più».
La sua era una frase innocente, di per sé, ma non potei che sentirmi chiamata in causa.
Stava cercando di capire la mia reazione, e forse proprio per questo motivo cercai di nascondere al meglio possibile ciò che provavo, seppellendolo dentro me stessa e lasciando che mi desse fuoco dall’interno.

Pine Cone

H

o i ricordi un po’ appannati, riguardo a quel momento. Ricordo che stava facendo sera, e che il cielo era, come sempre, privo di qualsiasi traccia anche solo minimamente accennata di nuvole. C’era un alone pallido che si levava dalle case e si rifletteva nell’acqua del mare, la quale iniziava, col sopraggiungere del crepuscolo, ad annerirsi. Era l’ora in cui i pescatori tornavano con le loro barche stracolme di pesci ed esausti consegnavano le prede agli ufficiali di Capitol per poi rifugiarsi in casa, infiacchiti cenare e spossati infilarsi a letto nell’attesa di un’altra nuova, estenuante, giornata di lavoro. Proprio in quel momento qualche campana suonava, in lontananza, come monito a chiunque fosse ancora in giro per le vie di girare i tacchi e correre velocemente in casa.
Camminavo lentamente, posando i piedi scalzi sul terreno umido e irto; gli aghi di pino mi pungevano il piede, ma quasi non me ne accorgevo mentre percorrevo il territorio della pineta che costeggiava la costa. I rumori di quel giorno si confondevano con quelli di settimane addietro; voci si sovrapponevano a voci e mi bruciavano la testa dall’interno. Osservavo smarrita le luci delle boe che emergevano e affogavano in un’eterna sequenza che pareva non avere fine.
Il mare ha quest’ambigua capacità di dare agli uomini l’impressione di poter raggiungere l’universo, di potersi ricongiungere con l’infinito, di essere in grado di abbandonare sulla terraferma le preoccupazioni e di partire per mondi migliori, e per questo, il distretto quattro era invidiato da quelli più lontani per la parvenza di indipendenza che vi spirava sopra. Io, l’oceano, da un po’ di tempo lo vedevo solo come un pauroso nemico da cui stare il più possibile lontana.
Le acque mi avevano preso, ridato e strappato di nuovo dalle mani la vita, e avevo ben poca intenzione di affidarmici nuovamente. Gli abissi si erano portati via mio padre, e a mano a mano che mi allontanavo dal ricordo di lui, mi distanziavo anche dal temibile killer che me l’aveva sottratto. Per questo motivo mi ero sempre considerata come una creatura di terra. Ero scoglio, roccia ben piantata a terra; non ero un pesce, né tantomeno una bellissima sirena, e non avevo alcuna intenzione di darla vinta all’acqua, e di abbandonarmi nella Sua morsa.
Tuttavia, ricordo che quel ragazzo un po’ lunatico ed egocentrico era riuscito a farmi superare la paura, darle uno schiaffo e farmi beffa della sua impotenza. Mi aveva insegnato a nuotare, a trattenere il respiro e a lasciarmi andare. Lo avevo fatto, e nello stesso tempo avevo imparato ad amare, il che procurava un po’ la stessa sensazione di incertezza che si prova a fluttuare incessantemente tra la luce del sole e l’oblio del fondo marino. Non avevo avuto il tempo di rivelargli nulla. Lui era partito, e quando finalmente l’avevo riavuto indietro, Finnick Odair non era più la persona che avevo conosciuto.
Me ne allontanai, perché l’angoscia di non riuscire più a vedere in lui il ragazzo di cui mi ero innamorata era più grande ancora della paura di lasciarmelo sfuggire.
Non lo vidi per molto tempo, e quando infine gli rivolsi la parola fu il giorno in cui fui mandata a morire. E morii veramente, in quell’arena. L’acqua era riuscita a strapparmi ogni singolo briciolo di umanità che mi era ancora rimasta. Io le ero sopravvissuta. Gli altri no. Io avevo vinto per quella stessa debolezza di cui avevo sempre sofferto. Io ero morta con loro. Con mio padre. La vera me, da quel giorno, non era più esistita.
Ero sicura di aver sentito dei passi alle mie spalle. Per qualche strano motivo ero seduta per terra, appoggiata con la schiena a un tronco d’albero, le ginocchia al petto e in mano una pigna. Non m’importava scoprire chi fosse. Un pacificatore mi avrebbe riportato al villaggio dei vincitori senza proferire parola. Un qualsiasi altro abitante mi avrebbe guardato, avrebbe distinto in me la “povera pazza” del distretto e avrebbe proseguito dissimulando le occhiate che avrebbe lanciato nella mia direzione. In ogni caso, non sarei stata distratta dal piccolo vegetale legnoso che mantenevo in una mano e da cui toglievo i semi con l’altra.
Assorta nella mia opera, non mi accorsi che i passi si erano arrestati a pochi centimetri di distanza dal mio viso, e quando sentii una mano callosa scostarmi i capelli dal volto trasalii, arretrando per quanto la vicinanza con l’albero me lo permettesse. Alzai lo sguardo lentamente, notando poco distintamente un paio di sandali, delle gambe di uomo, un paio di pantaloncini di tela beige, una maglietta grigia, un sorriso sbieco e una chioma biondo cenere. Ero sul punto di capire chi fosse quando parlò.
«Annie Cresta», disse semplicemente. E un’infinità di immagini prese ad apparirmi come veloci flash di una vecchia pellicola cinematografica, di quelle che anni fa avevo visto in un documentario sui tempi antichi. Ricordavo la sua voce.
«Finnick Odair», gli risposi. Mi aspettavo che se ne sarebbe andato, così ripresi ad occuparmi dei miei semi.
Mi accorsi che aveva ripreso a parlarmi solo quando mi toccò la spalla e iniziò a scuoterla delicatamente. Non pretese che lo avessi ascoltato, così riformulò la domanda.
«Come stai, Annie?».
«Bene, credo». E lasciai ancora una volta cadere la conversazione nell’enorme vuoto che si era creato tra di noi. Finnick aveva evidentemente intenzione di riempire quell’opprimente mancanza, ma io non gliene diedi il modo. Ogni volta che mi rivolgeva una domanda rispondevo, ma subito tacevo e contribuivo ad allargare quella già enorme lacuna. Lui rinunciò a parlarmi, ma mi si sedette accanto e mi osservò senza fiatare. Quando mi alzai lui fece lo stesso, e mi seguì fino al faro, nelle cui vicinanze mi sedetti ad osservare l’alta marea.
«Sta per arrivare una tempesta», dissi. Non nascose di certo la sorpresa nel sentirmi rivolgergli la parola. Lo stavo guardando. I suoi occhi azzurri si erano accesi e aveva mostrato quel sorriso suadente che aveva incantato tante donne, da quando era partito per Capitol City. Al pensiero sentii una gran rabbia montarmi nel petto, ma appena parlò fui distratta dal suo timbro di voce e lo ascoltai volgendo lo sguardo al cielo.
«Come puoi dirlo? Ci sono appena un paio di nuvole». Agli occhi di chiunque poteva avere ragione, ma io conoscevo questo sentore, e non sarei stata di sicuro in grado di farlo comprendere a lui.
«Non posso spiegartelo, ma so che è così. Tu non c’eri. Tu non puoi capire». Avevo fiuto, per l’acqua. La sensazione che provavo sotto pelle era la stessa. Paura. E non cambiava nulla il fatto che quella fosse una diga e questa invece la più grande distesa d’acqua salata al mondo. Non le avrei più permesso di prendermi con sé. Risalii qualche scoglio e mi allontanai dalla costa velocemente.
Quando si sedette di fianco a me, lo osservai, stavolta più attentamente. La sua espressione era cambiata, nel giro di una mia sola frase. I suoi occhi correvano su e giù, dalle stelle all’oceano, e continuava a far cadere il suo sguardo nel punto in cui i due si univano e la luna si specchiava.
«Ehi Annie».
«Dimmi, Finnick».
«Stavo pensando…» s’interruppe, quasi per riprendere fiato «Volevo solo dirti che mi dispiace, per tutto quello che è successo. Avrei voluto starti accanto. Non avrei dovuto lasciarti mai da sola. Io…».
«No, Finnick» lo interruppi «è giusto così. Tu ed io non eravamo destinati a stare insieme, e lo sappiamo entrambi. È inutile piangersi addosso. Le lacrime ci legano al passato, e noi siamo costretti ad andare avanti».
«Ma tu non ci riesci, non è così?». A quelle parole mi zittii. Non avevo distolto lo sguardo un attimo dalla sua figura, ma in quel momento l’imbarazzo era troppo e mi sentivo tradita. Mi stava fissando, ma io interruppi il contatto visivo e sospirai, accorgendomi in quel momento che avevo ancora in mano quella maledetta pigna. La stavo per lanciare in acqua, quando Finnick riprese a parlare.
«Lo sai?».
«Che cosa?», risposi stizzita. La sua capacità di cambiare argomento mi stava tornando utile, ma non gli avrei perdonato facilmente il commento di prima.
«Ho sentito una storia sulle pigne, una volta, ma probabilmente non t’interessa». Vedendo che esitavo, continuò: «Mio padre mi disse che una volta bagnate, si richiudono su se stesse nascondendo i semi e non si aprono più».
La sua era una frase innocente, di per sé, ma non potei che sentirmi chiamata in causa. Stava cercando di capire la mia reazione, e forse proprio per questo motivo cercai di nascondere al meglio possibile ciò che provavo, seppellendolo dentro me stessa e lasciando che mi desse fuoco dall’interno. Nonostante ciò, o forse proprio per quello, non riuscii a contenere un commento freddo, specchio dei pensieri che mi avevano attraversato la mente in un intangibile e fulmineo secondo.
«Io non sono una pigna».
«Ma ti comporti come se lo fossi». Non so se avesse previsto la mia reazione o avesse semplicemente la risposta sempre pronta. In ogni caso, m’irritò parecchio.
«Io non sono una pigna», ripetei, più per me stessa che per lui. Me la prese dalle mani e la lanciò con forza nel punto in cui l’avrei scagliata io attimi prima. Mi afferrò dolcemente un braccio e mi strinse a sé, inspirando a fondo il mio profumo. Non potei evitare di fare lo stesso, e mi rilassai contro il suo petto solido.
Mi accorsi in quel momento che stavo scappando da lui come fosse un’onda creata apposta per sommergermi.
«Dobbiamo smetterla di scappare l’uno dall’altro. Non devi aver paura di me». Finnick Odair mi leggeva nel pensiero, o perlomeno riusciva a leggermi dentro. Non ero pronta per lui, non lo ero mai stata. Eppure ero sicura che se non fosse stato lui, non sarebbe stato nessun altro.
«Io non ho paura di te».
«Tu hai paura di noi». A quel punto non riuscii più a stare zitta.
«Io non ho paura di te, Finnick. E non ho nemmeno paura di noi. Io ho paura di me, e di loro. Ho paura…» ero consapevole di potergli sembrare irragionevole, ma continuai col mio discorso «Ho paura che ti portino ancora via da me. Tu non sai cos’ho passato quando te ne sei andato e quando sei tornato ma non eri più tu. Quindi no, non ho paura di te, di quello che eri. Mi spaventa quello che loro ti hanno reso!». Mi fermai un secondo per prendere fiato, ma quello che sarebbe dovuto essere un normalissimo atto si trasformò in un istante in un’impresa problematica. Sentii il fiato mancarmi e gli occhi bruciare, come fossero stati pregni di acido. Avevo circoscritto e puntellato troppo quell’argine, che non era comunque riuscito a reggere il peso di quella pressante situazione. Tutto a un tratto mi sentii esausta, e appoggiai la testa sulle ginocchia, cominciando a singhiozzare.
«Io sono pazza, Finnick. Non staresti bene con me. Io stessa non sto bene con me».
«Annie…» non lo ascoltai «Annie guardami». Era vicinissimo a me. Il suo respiro sul collo mi fece tremare e d’istinto sollevai lo sguardo. Mi sfiorò una guancia col palmo screpolato e mi prese il mento tra le dita. Non esitò un attimo e mi baciò.
Non avevo mai baciato un ragazzo, e il brivido che sentivo sotto pelle non era nemmeno paragonabile a quello che avevo avvertito poco prima; era il fragore di tuoni nello stomaco, lo sfarfallio di ali nel petto, il sussulto dei polmoni e l’arcobaleno negli occhi chiusi. Era il non esserne sazia, era il cedimento di quella parte di me che pensavo aver costruito con solide fondamenta.
Mi lasciai andare, lasciai che abbattesse i miei muri, lasciai che mi curasse, che mi amasse.
Quando ci staccammo, mi guardò negli occhi e avvertii un’intensità e un’urgenza che non avevo mai sentito prima. L’acquamarina dei suoi occhi si scontrò con il verde dei miei.
«Io ti amo, Annie Cresta», disse.
E io non fui mai così felice di essere una pigna in balìa di questo avvolgente, misterioso e profondo mare.

   
 
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