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Autore: Gobbigliaverde    24/10/2014    1 recensioni
- Possibile che ho passato tre anni della mia vita a cercare di credere alla magia, e ora tutti mi dicono l'inverso? -
C'è chi perde la persona che ama, chi perde la strada, chi la famiglia, e chi la memoria. In questo mondo c'è di tutto. Ma siamo qui tutti assieme, su questo pianeta, per aiutarci a vicenda a ritrovare quel pezzettino di noi che abbiamo perso. In questa vita l'unica regola è rompere le regole... e queste regole sono dettate dalla magia.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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MEMORIES

 

 

Devo aver bevuto toppo ieri sera… tutta questa luce nella stanza è accecante. Devo aver anche lasciato la finestra aperta… non vedo nulla, solo luce bianca. Forse sono morta. Piano piano le cose prendono una forma: sono ancora in questo mondo. Mi alzo in piedi, e mi guardo intorno. Non sono in camera mia. E tanto meno a casa mia. Cerco di capire dove mi trovo, ma la vista è ancora appannata.  Un dolorino acuto mi tortura il braccio destro. Sono attaccata ad una flebo. E ho anche un respiratore.
    Mi gira la testa, mi sento svenire. Sono in una stanza di ospedale. Scivolo con la schiena sul lettino e chiudo gli occhi, l’ultima cosa che vedo è un uomo che mi si avvicina. Poi, solo buio.

Apro gli occhi. Ancora questa luce bianca, Mi lacrima la vista!
    Non riesco a dire nulla. Non ricordo nulla e non so perché sono qui. La luce bianca sparisce e le immagini si fanno reali. Davanti a me, quell’uomo. Provo a dire il suo nome. Dalla mia bocca non esce nessun suono. Ma credo che lui capisca il labiale, perché i suoi occhi sono diventati lucidi e la sua bocca si è inarcata in un meraviglioso sorriso.
    — Sì, Emma! Sono io, Neal! Ti ricordi di me… il dottore aveva detto che… — Si blocca. Continua a fissarmi con espressione addolorata.
    Diavolo, va’ avanti, penso io. Lo continuo a guardare. Sto sognando, perché lui è morto. Ma sembra così vero. Il suo profumo mi fa tornare alla mente il passato, e quanto lo avevo amato. Ora però non lo amo. Credo.
    — Aveva detto che non ti saresti mai potuta ricordare della nostra vita, del nostro matrimonio, dei nostri figli — dice lui, dopo un profondo respiro. Ha gli occhi lucidi, ma io non posso fare a meno di sgranare i miei.
    Figli? Matrimonio? Non è vero. Io ho solo Henry, non ho né un uomo né altri figli. Deve essersi accorto della mia espressione, e si è bloccato.
    — Non ricordi? Ok. Non ricordi. Magari vedendo Gemma e Henry ricorderai! — afferma torturandosi le mani. Ha paura. È spaventato, ma non più di me.
    Io non capisco. Gemma? Chi è Gemma? e Henry? Dov’è mio figlio? Ho bisogno di vederlo.
    Scivolo giù dal lettino. Neal prova a fermarmi, ma io lo scanso. Strappo i fili che mi collegano alle macchine e barcollante mi reco fuori. Scorgo il mio riflesso sulla vetrata della mia stanza. Sono in pessime condizioni. Il camicione da ospedale spiegazzato, la pelle pallida come un cencio, gli occhi cerchiati di nero e i capelli biondi arruffati come paglia.
    Il pavimento è freddo. Vorrei delle scarpe.
    Faccio quattro passi fuori della porta, ma non riesco più a tenermi in piedi… Mi manca… l’aria…
    Sento Neal che mi prende la mano e dice qualcosa. Non sento cosa. Vedo un medico in camice bianco correre verso di me.
    Lo conosco.
    Le gambe mi cedono, e io scivolo tra le braccia del dottore. Subito ritorno in me. Ho una mascherina in faccia. Ossigeno probabilmente. Guardo il medico. È così familiare, quel volto. Sorrido. Ho capito chi è. Non sembra capire il labiale, non con la mascherina in faccia.
    — Cosa… Mancino? — mi chiede.
    Io scuoto la testa in risposta. Possibile che non capisca? Sfilo la mascherina solo per un istante, quanto basta per ripetere il suo nome.
    — Ah. Uncino? — mi chiede nuovamente, spostando la mia mascherina a coprire naso e bocca.
    Esatto! Annuisco e sorrido. Prendo un lungo respiro di ossigeno, e la mia mente si rilassa.
    — Cosa vuol dire ‘uncino’? Cosa mi vuoi dire? — domanda, passandosi una mano tra i capelli neri, guardandomi con le sue perle azzurre e aspettandosi una risposta.
    Io non ce l’ho, però, una risposta alla sua domanda. Uncino è il suo nome. Lo dovrebbe già sapere che cosa vuol dire… Mi volto in cerca di una spiegazione razionale. Percorro con gli occhi tutti i volti dei presenti nel corridoio. C’è un gruppo di persone che hanno un’aria familiare, seduti su alcune sedie.
    Henry. Lo vedo. È seduto assieme al gruppo, sta aspettando. Mi libero della presa di Uncino, mi getto verso di lui urlando con tutto il fiato che ho in gola, anche se sembra solo un sospiro.
    — Henry! — Gli getto le braccia al collo, sembra interdetto.
    — Mamma… — sussurra.
    Sì, sì, annuisco per far capire che sono io.
    Lui si volta verso una donna e continua la frase. — Mamma, chi è questa donna?
    Regina si volta di scatto, mi guarda con astio e mi scaccia con violenza. — Non avvicinarti mai più a mio figlio! — grida.
    Sento le dita di Uncino stringersi attorno al mio braccio. Mi tira indietro, barcollo, quasi cado, ma lui mi sorregge. Non capisco. Lei lo sa che Henry è mio figlio. Perché tutti sembrano così strani?
    Vedo Neal raggiungermi velocemente e scusarsi con Regina. Mi sorride dolcemente.  — Amore, andiamo dai bambini, ti stanno aspettando.
    Mi guardo attorno spaesata mentre Uncino mi accompagna lungo il corridoio. Mi lascia solamente quando sono abbastanza distante da Henry da non vederlo più. Poi si allontana, raggiungendo un gruppo di altre persone in camice bianco.
    Quali bambini? L’unico bambino da cui voglio andare è Henry, il mio Henry. Neal mi trascina per un braccio, e sono costretta a seguirlo. Ci fermiamo di fronte ad un passeggino. Una bimba bionda sui quattro anni guarda sorridendo felice.
    — Mamma! Eri davvero tanto stanca, hai dormito taaaaantissimissimo — dice allargando le braccia, poi mi salta al collo.
    Non capisco, cosa vuol dire ‘dormito’? Un altro bambino mi osserva da lontano, con gli occhi lucidi e lo sguardo torvo.
    — Dai, Henry! Vieni, la mamma ti aspetta! — dice Neal, facendo un gesto con la mano al ragazzino. Quello non è Henry. Né tantomeno io sono la sua mamma. Guardo interrogativa Neal.
    — Amore, c’è qualcosa che devo dirti — asserisce.
    Annuisco. Ho bisogno di risposte, e lui sembra averle. Lascio i bambini per seguirlo dove mi sta portando, senza dire nulla.
    Neal appoggia le mani al muro. Non ha il coraggio di guardarmi negli occhi. — Vedi, c’è stato… un incidente. Tu… sei stata… sei stata in coma per due anni.
    Sgrano gli occhi. Cosa? Non è vero. Menti. Riesco a dire qualcosa con la poca voce che ho. — Magia… Storybrooke… — Lo ripeto più di una volta, ma lui non lo capisce.
    — Story… Emma, di cosa stai parlando? — domanda aggrottando la fronte.
    No. È impossibile. Voglio parlare con Uncino. Corro via, per quanto mi possano permettere le mie gambe instabili. Lo vedo entrare in una stanza sistemandosi il camice bianco. Afferro il suo polso e lo guardo negli occhi.
    — Killian… Uncino… — La mia voce è rauca, non mi piace.
    — Oh, Emma! La voce sta tornando! Sono molto contento dei miglioramenti — dice, voltandosi verso di me e aiutandomi a tenermi in piedi.
    Ripeto quello che ho detto, forse non mi ha sentito. — Killian… Uncino…
    Lui mi guarda, sorride e fa per andarsene. Gli afferro la mano e strattono il suo braccio. Mi appoggia l’altra mano sulla spalla. L’altra mano. Lo lascio, spaventata. Non ha l’uncino. Forse hanno ragione loro sul coma e tutto quanto.
    Lo lascio andare spaventata. Lui mi fa un mezzo sorriso e sparisce nella stanza. Mi spremo la mente. L’ultimo ricordo che ho risale al ritorno dall’isola che non c’è. Io e Killian da Granny’s. Il bacio.
    Scaccio i pensieri dalla mente: non è successo. Ero in coma. Devo cominciare una nuova vita. Possibile che ho passato tre anni della mia vita a cercare di credere alla magia, e ora tutti mi dicono l’inverso? È difficile integrarsi con il mondo per una che crede. Vorrei solo affrontare tutto questo con il mio Henry.
    Torno da Neal. Ha preparato le valige per tornare in quella che lui chiama casa, che io non ho mai visto. Mi vesto e mi tolgo quella vestaglia orribile che avevo addosso. Metto il mio giubbotto rosso in pelle, l’unica cosa che mi rimane della mia vecchia vita, del sogno, del coma.
    Esco dalla stanza e mi reco dalla mia famiglia. Quella bambina, Gemma, ha qualcosa di familiare. Forse è un bene. Sto ricordando la vita reale. Ma credo ancora nella magia.
    In macchina nessuno dice nulla. È la mia macchina. Il mio maggiolino giallo, questo mi consola. Neal parcheggia in un anonimo isolato di Manhattan, e mi aiuta a scendere portando con se i bambini e le valige. Ci incamminiamo oltre la soglia di un condominio. Arriviamo di fronte alla porta di quello che deve essere in nostro appartamento, l’interno 7. Istintivamente cerco le chiavi nella tasca, ma Neal mi batte sul tempo. Ha già aperto la porta e tutti si sono fondati dentro.
    Nella mano stringo una cosa fredda e liscia. Era nella giacca.
    — Tu vieni? — dice Neal.
    — Sì, dammi un minuto — sussurro. È l’unica cosa che riesco a fare.
    Aspetto che Neal e i bambini spariscano dietro la soglia e apro il palmo della mano. Forse sono loro ad aver dimenticato, non io. Faccio rotolare un paio di volte quella boccetta sul palmo della mano, mentre il liquido rosastro contenuto all’interno si sposta contro le leggi di gravità. L’etichetta rovinata, con il simbolo del sig. Gold cita: ‘Memories’.

  
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