In
bianco e nero
“There is nothing to writing.
All you do
is sit down at the typewriter and bleed.”
(Ernest Hemingway)
9. Rosso sangue su bianco immacolato
Il
lettore ha un'unica, grande e salda convinzione che sarà in grado di salvarlo
sempre, anche quando i sensi alterati dalle preoccupazioni gli faranno vedere
un mondo che gira al contrario: tra le pagine di un libro si troverà sempre
conforto, in una sorta di alienante e rassicurante rifugio. Lo scrittore, poi,
ha un'altra grande fortuna: quella di essere in grado non solo di sentire sulla
propria pelle le storie degli altri, ma anche di vivere quelle che da sempre
sogna e quelle che desidera far sognare agli altri.
Yusaku,
seduto su quella panchina sotto cui danzava una scomposta ragnatela, fissava il
suo taccuino. In realtà, non avrebbe saputo dire se era lui ad osservare quella
pagina bianca o quel colore vuoto a implorargli di riempirlo. Lasciò scivolare
la matita sul foglio, fermandosi ad ascoltare, al di là di ogni voce e di ogni
comune rumore, il suono strisciante e familiare della grafite che si infrangeva
sulla carta. Quello era il momento più frustrante, era il momento in cui di
storie da raccontare ce n'erano, ma mancavano le parole per farlo. Era una
sensazione di orribile impotenza che chi non è abituato a vivere nei propri
personaggi non avrebbe mai potuto capire. Si morse il labbro, chiudendo il
taccuino con stizza, e lasciando la matita come segnalibro.
Guardò
il mondo che si agitava intorno. I banchetti del mercato poco distante, il volto
stanco dell'uomo oltre la bancarella che fissava sconsolato i possibili clienti
passare avanti, pensando che anche quel giorno avrebbe venduto, come sempre,
troppo poco. La mamma con un bambino in una mano e nell'altra il passeggino,
dove dormiva indisturbato il neonato a cui in quel momento non interessava
scoprire le bellezze di quello che lo circondava. E poi, di fronte a lui,
dall'altra parte del sentiero, due anziani segnati dagli anni che discutevano,
i bastoni poggiati accanto alla panchina, e i sorrisi che di tanto in tanto
mostravano i pochi denti sopravvissuti agli anni. Per un misero secondo Yusaku
fu tentato di avvicinarsi, di sedersi accanto a loro, con una domanda stupida
nel cuore da porre a chi sembrava aver voglia di rispondere. Che cosa si prova
ad invecchiare? E' quello che stava facendo anche lui, che facevano tutti ogni
giorno, era la vita che imponeva semplicemente la sua legge dura e chiara,
eppure lui in quel momento non lo sapeva, non sapeva che cosa avrebbe provato
lì, su quella stessa panchina, con un paio di denti in meno, i dolori alle
ginocchia, un bastone accanto e, quasi per consolazione, un po' di saggezza in
più.
C'era
così tanta vita da raccontare in quei pochi metri, eppure il suo taccuino era
ancora bianco. Aveva bisogno di bianco e nero, perché sono quelli i colori di
cui vive uno scrittore, e di cui sente sempre la pungente mancanza. Morse di
nuovo il labbro, e questa volta così forte da sentire il dolore scuotergli il
cervello da quel torpore. Si portò un dito alla bocca, e vide che il labbro
sanguinava, regalando al suo indice una piccola chiazza rossa. Senza sapere
cosa stesse facendo, aprì di nuovo il taccuino, fissò per un attimo la pagina
bianca, e poi lasciò il dito scivolare su di essa. Una striscia rossa dipinse
la carta, fondendosi con essa e rendendola appena ondulata. Forse per quel
giorno non avrebbe potuto raccontare a quella pagina una storia, ma lì, in
quella piccola striscia, c'era tutto quello che avrebbe voluto dire o di cui
non sapeva nemmeno di voler parlare. La fissò per un secondo, e poi rischiuse
il taccuino, chiedendosi se stesse impazzendo. Lo ripose nella tasca della
giacca senza pensare altro, e si alzò, dando le spalle ai due vecchietti che
continuavano a parlare tra loro. Covava dentro di sé la sensazione di non
potersi avvicinare, di essere un estraneo in quel mondo di anime registrate
negli archivi di un'anagrafe. Lui in quel momento non era Yusaku Kudo, lui non
era nessuno agli occhi di quella società, non rappresentava nulla per quelle persone,
non aveva una data di nascita, una carta di identità o un passaporto per
accedere al mondo dei vivi riconosciuti. In un'altra occasione, in un altro
stato d'animo avrebbe forse chiamato tutto quello libertà: ora non era altro
che una grande solitudine.
Si
incamminò lontano da quelle voci, non accorgendosi che i suoi passi lo
guidavano verso il grande fiume che attraversava quel quartiere. Era
incredibile la vita: fino a qualche giorno prima non si sarebbe nemmeno
soffermato a guardare quell'acqua, a tratti sporca e malconcia, ed ora invece
l'avrebbe implorata di restituirgli almeno il corpo di quell'assassino che,
seppur a torto, non poteva fare a meno di compatire come vittima. Attraversò la
strada e si appoggiò alla balaustra, lasciando che l'alito di vento che si
sollevava appena tra i palazzi gli rinfrescasse il volto. Si grattò la guancia,
infastidito dalla barba che Yukiko gli aveva magicamente fatto crescere in
qualche minuto. Fu allora che vide quello che inizialmente non gli sembrò altro
che una macchia di sporcizia sul velo teso dell'acqua. Strinse gli occhi nel
tentativo di correggere quello che nemmeno gli occhiali compensavano e capì che
quella chiazza incagliata sulla riva del fiume altro non era che una scarpa.
Una scarpa che ben conosceva. Sentì il cuore perdere un battito e il corpo
sudare in un solo secondo quello che non avrebbe sudato nemmeno ad una marcia
olimpica. Strinse tra le mani la balaustra fino a sentirla tremare sotto i suoi
palmi, e per un attimo fu tentato di scavalcarla, lasciarsi scivolare sul
cemento, poi arrivare lì sulla riva, tra quei fili di erba che crescevano alla
faccia dell'inquinamento e dell'asfalto, e prendere quella scarpa che sembrava
incagliata, o che forse lo stava solo aspettando. Avrebbe significato avere
qualcosa, qualcosa che gli dicesse che quello non era stato solo un brutto
sogno e che non l'avrebbe mai potuto cancellare: sarebbe stata il macigno
indelebile sul suo cuore, eppure non poteva fare a meno di sentire che saltare
quella protezione e correre giù era la cosa più giusta da fare. Stava già
facendo forza sulle braccia quando la corrente sterzò, prese quella scarpa tra
le sue grinfie e la trascinò via, prima forte, e poi sempre più piano, finché
non divenne che un piccolo puntino all'orizzonte, e poi solo un ricordo
annebbiato. E Yusaku non poté fare altro che restare lì, la balaustra stretta
tra le mani e una certezza insidiata dalla marcia speranza provocata dal suo
senso di colpa, che sarebbe stato infinitamente più lieve senza una vita persa sulla
coscienza. Se fosse stato tutto soltanto un sogno, di quelli in cui ti svegli
nell'esatto momento in cui senti che il peggio sta per accadere e che non hai
più alcuna possibilità di sfuggire alle tue peggiori paure, allora sarebbe
stato tutto più semplice e forse addirittura più vivo.
I
passi risuonavano nervosi e pesanti nel corridoio. Era ormai quasi sera, e di
ritorno dal quartiere di Beika non erano bastate a Gin tutte le sigarette di
questo mondo per rilassarlo dopo quanto aveva visto. Era più che sicuro che
Shinichi Kudo li avesse anticipati, portando via il suo piccolo angioletto in
un luogo che riteneva sicuro. Si morse il labbro per la rabbia, pensando che
forse Kudo sorrideva soddisfatto da qualche parte in quella stessa città,
ritenendo di avere in mano le redini del gioco. Avrebbe voluto spegnere
immediatamente quel sorriso che vedeva impresso nella sua mente: se solo
l'avesse avuto tra le sue mani in quel momento, lo avrebbe fatto pentire per
quell'affronto. Nel suo cuore freddo e calcolatore era convinto che li avrebbe
presi, entrambi, Shinichi Kudo e il suo angioletto, anche a costo di inseguirli
fino in capo al mondo. Cercò di mantenere la calma, di distendere i nervi,
pensando che doveva agire con cura per acciuffarlo una volta per tutte, senza
possibilità di errore. Eppure la sola idea di essere stato raggirato da quel
moccioso liceale lo faceva andare su tutte le furie, impedendogli di ragionare
lucidamente. Aveva bisogno di uno sfogo per la sua rabbia.
Accanto all'ascensore con cui terminava il lungo corridoio vuoto trovò Vodka. Stava lì, le spalle appoggiate al muro. Lo stava aspettando. Gin sapeva che Vodka aveva portato lì quel tale Arthur Newman: gli aveva fatto sapere che presto sarebbe arrivato, e di aspettarlo per scambiare due parole con il ragazzo. Quando aveva pronunciato scambiare due parole, aveva sentito Vodka sogghignare dall'altro capo del telefono. Erano in una delle loro basi, nella periferia di quella gigantesca metropoli.
“Capo.”
lo salutò Vodka con un cenno della testa. Sembrava quasi di buon umore, e
pareva aver ritrovato le forze: doveva probabilmente aver dormito alla meno
peggio dove gli era capitato, considerando che la giacca era in più punti
stropicciata e la cravatta era rimasta chissà dove.
“Come
sta il nostro uomo?” chiese diretto Gin, senza un minimo accenno ad un saluto.
Vodka capì che il suo capo era nervoso, e decise di tastare lentamente il
terreno.
“Dovrebbe
essersi svegliato dal suo pisolino.”
“Nessuno
sa che è qui?”
“No.
Comunque credo che Vermouth non sia in città. Non c'è pericolo che si
immischi.”
Salirono
in ascensore e Gin premette il pulsante che portava al seminterrato. In qualche
secondo furono a destinazione, e si ritrovarono in un corridoio uguale a quello
del piano superiore. Bianco e spoglio.
“Perfetto.”
I
loro passi risuonarono per quello che sembrava un groviglio di corridoi
disabitato, illuminato dalla luce dei neon che rendeva opache le pareti e le
piastrelle bianche del pavimento. Al lato, con regolarità, si susseguivano
delle porte completamente nere, eccetto per un piccolo quadrato di vetro che
permetteva di guardare all'interno. Sembravano molto spesse e, a prima vista,
resistenti a ogni tentativo di manomissione.
“Com'è
andata a Beika, capo?” chiese Vodka, sapendo che quello doveva essere il nodo
cruciale della questione. Di sicuro Gin doveva aver notato qualcosa, e proprio
per quello aveva ritenuto opportuno fare una visita al prigioniero.
“Credo
che Shinichi Kudo sia stato più veloce di noi: l'agenzia del padre della
ragazza era chiusa, le persiane dell'appartamento erano abbassate.”
“Magari
erano semplicemente usciti.” ipotizzò Vodka, e notando il sospiro furioso di
Gin, si affrettò a dire: “Credi che Kudo abbia capito che siamo sulle sue
tracce?”
L'uomo
con gli occhiali si fermò davanti ad una delle porte nere, facendo un cenno con
il capo, come a dire: “E' questa.”
Gin
mise in funzione un piccolo schermetto elettronico incastonato nel muro accanto
allo stipite della porta. Sullo schermo apparve una tastiera di numeri e
lettere, e veniva richiesta una password da digitare.
“E'
questo il problema, Vodka.” rispose Gin, cominciando a sfiorare la combinazione
esatta, “Noi non siamo sulle sue tracce. Noi stiamo cercando le sue tracce.
Prima o poi ne lascerà qualcuna, forse è solo questione di tempo. In fondo si
dice che la vendetta sia un piatto che vada servito freddo: ma io non ho voglia
di aspettare tanto.”
Premette
un ultimo numero e mandò l'invio. La porta scattò, ma Gin aspettò ancora un
attimo prima di entrare.
“Venendo
qui con la macchina, sono passato davanti casa dei Kudo. Sembrava tutto chiuso.
Forse i suoi genitori sono tornati in America, forse il figlio ha cercato di
far fuggire pure loro. Ma questo tizio,” disse, indicando con un'occhiata la
porta, “potrebbe saperne qualcosa. In fondo era uno degli ospiti della serata
all'Haido City Hotel organizzata dal padre di Kudo. Magari si rivelerà ancora
più utile di quanto pensiamo: vedremo di farlo parlare.”
Un
ghigno si dipinse sul volto di Vodka, mentre Gin spingeva la porta ormai
aperta. Entrarono in quella che era una stanzetta non molto confortevole: il
pavimento era costellato dalle stesse piastrelle bianche del corridoio, mentre
la parete e il soffitto erano di un intonaco bianco e scrostato, con qualche
crepa a ravvivarlo di tanto in tanto. Dal soffitto si spigionava la solita luce
bianca che compensava la poca che riusciva a entrare dalla piccola finestrella
in alto, sbarrata da una grata. Sulla destra, in un angolo c'era un lavandino e
un gabinetto alla turca. Dall'altra parte, solo una piccola branda. Gin storse
il naso vedendo in un angolo una macchia di sangue incrostata che ancora
sporcava il bianco delle piastrelle: doveva essere del precedente inquilino,
che aveva ben pensato di lasciare un suo ricordo prima di andarsene all'altro
mondo. L'aria non era il massimo lì dentro e Vodka avanzò lasciando la porta
aperta, per far entrare un po' di ossigeno respirabile. Ad un'occhiata di Gin
la richiuse immediatamente. Sulla branda stava sdraiato supino Arthur Newman.
Era sveglio, fissava il soffitto con uno sguardo perso e mormorava qualcosa,
come se stesse pregando o recitando sottovoce. Non sembrava essersi accorto di
loro.
Ci
fu un attimo di infinito silenzio.
“Ehi
tu.” tuonò poi la voce roca di Vodka, con fare che voleva essere intimidatorio.
Ma l'attore non si girò, né staccò gli occhi dal soffitto. Smise solo di
mormorare quello che stava sussurrando. Gin alzò la mano, facendo intendere a
Vodka che doveva tacere. Poi estrasse dalla tasca un piccolo coltellino
svizzero, si chinò, prese la mira e lanciò. Il coltellino volteggiò nel
silenzio della stanza e andò a conficcarsi nel materasso, a pochi centimetri
dal corpo del ragazzo. Quello sembrò scosso da un brivido.
“Ti
conviene parlare.” suonò gelida la voce di Gin. “Ne ho un altro esattamente in
questa tasca, e non ti illudere che ora non abbia fatto centro per sbaglio.”
Vodka
lanciò un'occhiata ammirata al suo capo, paragonando i due modi differenti di
entrare in scena che avevano adottato. Dovette indubbiamente ammettere che quello
di Gin era molto più maestoso e convincente, a giudicare dal fatto che il
ragazzo ora li stava osservando, si era messo a sedere, rannicchiato su quella
branda, le spalle completamente spalmate sul muro.
Lanciava
occhiate a intermittenza, oscillando tra loro due e il coltellino ancora
conficcato nel materasso. Teneva il mento sulle ginocchia, stringendo a sé le
gambe con le braccia.
Gin
sorrise, anche se quella strana smorfia che si era impossessata della sua
faccia assomigliava forse di più ad un ghigno. Si avvicinò a passi lenti al
letto, e ad ogni sguardo tremante che il suo ostaggio gli riservava sentiva la
soddisfazione e la sensazione di immane potere crescere dentro di sé. Gli
bastava muovere un dito per ucciderlo, la vita di quel ragazzo era appesa ad un
filo che avrebbe potuto recidere quando più gli sembrava opportuno: ed era
questa la sensazione che più lo appagava e che gli permetteva di sfogare le
tensioni dovute a qualsiasi noioso e seccante imprevisto. Si fermò a pochi
centimetri dal lettino, ed estrasse il coltellino, rigirandoselo tra le mani,
senza staccare gli occhi dal ragazzo. I loro sguardi erano ora legati
indissolubilmente da terrore ed egemonia.
“Vedo
che ci siamo decisi a dare qualche segno di vita. Ho delle domande da farti, e
spero tu sia disposto a collaborare senza fare tante storie. Anzi..” e qui si
fermò un attimo, spostando lo sguardo sul coltellino, per poi tornare a colpire
Arthur con una serie feroce di parole taglienti, “.. credo proprio che lo
farai. A differenza di quanto sembra, sono convinto che tu non sia un ragazzo
stupido.”
Il
labbro del ragazzo tremò, gli occhi erano immobili e i capelli scarmigliati gli
conferivano un'aria terribilmente adolescenziale. Sentiva il fiato di quella
belva sul collo, il fetore del tabacco e si chiedeva se quella fosse la giusta
punizione per il suo crimine. La sua richiesta di morte era stata respinta, e
Dio gli aveva riservato un misero destino di tortura. Si immaginò da solo, in
mezzo ad una distesa infinta di terra bruciata, con un giudice davanti a lui
che pronunziava una sentenza diversa da quella che l'attore si attendeva. Un
attimo dopo fu di nuovo lì, in quella stanza dall'elettricità bianca e opaca, a
fronteggiare un uomo dallo sguardo poco incline alla compassione.
“I..
I don't speak Jap..” iniziò titubante, ma le sue parole furono stroncante dalla
furia del mastino che gli stava addosso. Gin, senza permettergli di pronunciare
un'altra sillaba, scattò liberando in un attimo il suo nervosismo: la sua mano
avvinghiò il collo di Arthur, spingendolo indietro fino a fargli sbattere la
testa contro il muro. Un grido mozzo e soffocato provò a levarsi dalla gola di
Arthur, ma non ne uscì che un rantolo. Gli occhi di Gin sputavano fuoco e le
sue parole lasciavano trapelare che la sua pazienza era in frantumi.
“Non
provare a fare la tua recita con me, piccolo attore dei miei stivali. So
benissimo che parli anche il giapponese.”
Aumentò
la presa, non lasciandogli possibilità alcuna di rispondergli. Il ragazzo
mugugnò qualcosa, forse un tentativo di risposta, e un rivolo di saliva gli
colò dalla bocca spalancata. Quando capì che stava andando troppo oltre, Gin
lasciò la presa. Era diventato uno specialista nel comprendere quando era il
momento di smettere: portare le vittime fino all'orlo del baratro e poi
risollevarle quando erano ormai sicure di cadere. Provavano la paura del dolore
e della morte, che era ben peggio della morte stessa.
Arthur
ricadde con il capo in avanti, boccheggiando e tossendo. Tentò di riprendere
fiato, ma questa volta Gin gli afferrò i capelli e lo costrinse a guardarlo.
Vodka stava in disparte e osservava la scena, in attesa di un ordine. Sarebbe
intervenuto solo ad un cenno del suo compagno: sapeva bene che a Gin non
piaceva essere disturbato quando faceva le cose a modo suo.
“Credo
che tu abbia capito il concetto.” continuò con voce fredda. “Tuttavia,”
aggiunse, vedendo che Arthur annuiva debolmente, “voglio farti un piccolo
favore, se questo servirà a farti dire prima la verità.”
Si
allontanò un poco, fissandolo dall'alto in basso.
“Parliamo
pure inglese.” aggiunse, pronunciando le parole in un quasi perfetto inglese.
“Per me non è un problema: hai visto? In fondo potremmo essere amici.”
Vodka
strabuzzò gli occhi sentendo Gin parlare in maniera fluente una lingua di cui
lui ignorava persino le basi. Da quando in qua il suo capo parlava inglese così
bene? Vodka si sentì messo in disparte: non avrebbe capito più nulla
dell'interrogatorio, e forse Gin non si sarebbe nemmeno preoccupato di rivelargliene
in seguito i particolari. Un dubbio si impossessò dell'uomo: e se quella non
fosse stata una semplice trovata improvvisata? Forse Gin preferiva non fargli
capire quello che si stavano dicendo perché non si fidava a sufficienza di lui.
Aveva insistito per tenere riservata quella storia, e quale modo migliore? In
un primo momento, Vodka ne fu indispettito. Qualche secondo dopo, decise che
poco importava. Si mise comodo, appoggiando le spalle alla porta, e prese a
tamburellare con il piede sul pavimento. Sapeva che, da quel momento in poi,
Gin lo avrebbe interpellato solo se ci fosse stato il caso di alzare le mani
per intimidire l'ostaggio.
“C-che
cosa volete da me?” balbettò Arthur, felice in cuor suo di poter utilizzare la
sua lingua madre. Il giapponese gli era sempre sembrato un idioma dall'accento
troppo duro e sentire quell'uomo dai capelli biondi parlarlo era un vero
tormento per la sua già provata mente. L'inglese, con il suo suono, riusciva ad
addolcire in parte persino la voce di quella bestia.
“Non
avere fretta. La prima regola è che qui le domande le faccio io.”
“Siete
della polizia?” chiese invece subito il ragazzo. In fondo pensava che, se
fossero stati della polizia l'avrebbero forse lasciato stare. Lui avrebbe
dichiarato tutte le sue colpe e la volontà più che ferma di pagare per esse:
tutto sarebbe stato risolto, e lui avrebbe vissuto in pace quello che gli
rimaneva da vivere. Quel mondo gli appariva sempre più angusto.
Come
risposta ottenne una risata gutturale quanto spontanea, imitata subito
dall'altro uomo, quello con gli occhiali, il cui riso sembrava però forzato,
come se si sforzasse a seguire le orme del suo compare. Nonostante gli occhi
appannati dalla miopia, Arthur lo riconobbe come l'uomo che aveva incontrato
sul ponte. Quanto tempo poteva essere passato? Dalla finestrella in alto
entrava una luce fioca e appena rossastra: forse era quasi il tramonto.
“La
polizia? Vacci piano con gli insulti, ragazzino.”
Se Vodka avesse compreso quanto appena detto da Gin, probabilmente si sarebbe avventurato in un’altra risata. Ma purtroppo tutto quello che aveva colto della conversazione era la parola polizia. Non sapendo che fare, e osservando il volto serio di Gin, si mantenne impassibile. Anche il piede aveva smesso di tamburellare.
Il
ragazzo parve infervorarsi improvvisamente. Il viso assunse un po' di colorito,
e gli occhi si spalancarono in una sorta di supplica.
“Vi
prego,” diceva rivolto a entrambi, non sapendo che Vodka non poteva sentirlo,
“lasciatemi andare, lasciatemi tornare su quel ponte, lasciate che io mi dia la
morte che desideri. Non vi chiedo altro.”
Gin
sorrise sadico. Si era allontanato e se ne stava lì, appoggiato al lavandino.
“Pensi
che l'uomo che hai ucciso abbia avuto la morte che desiderava?” gli chiese.
Vide il ragazzo sbiancare, e appoggiare di nuovo le spalle al muro. Aveva preso
a tremare.
“Nessuno
ha mai la morte che desidera, perché nessuno desidera davvero morire. Neanche
tu, credo. Rispondi alle mia domande e vedremo cosa possiamo fare per il tuo
stupido caso.”
Arthur
sudava freddo.
“Chi
siete?” chiese ancora. “Io non..”
Gin
roteò gli occhi lasciando andare appena il capo all'indietro, come in segno di
fastidio e noia. Un attimo dopo aveva estratto la pistola dalla tasca, e quasi
senza guardare, come se conoscesse a memoria il punto a cui doveva mirare, fece
fuoco. Vodka si rizzò, improvvisamente interessato. Il colpo si schiantò sul
muro, non troppo lontano da Arthur. L'attore si zittì immediatamente, e sentì
il cuore contorcersi nel petto. Forse era vero: per quanto si fosse decisi ad
abbandonare la vita, la paura c'era sempre, velenosa come una serpe.
“Fammi
il santo piacere di stare zitto quando non sei interpellato. E' chiaro?”
Il
ragazzo non rispose immediatamente. Gin perse del tutto la pazienza e sparò un
altro colpo. Questa volta lo mancò di poco.
“E'
chiaro?” urlò quasi. Arthur annuì.
“Bene.”
sentenziò Gin, soffiando appena sulla pistola fumante come se dovesse
raffreddarla.
“Stammi
bene a sentire. Hai mai visto Shinichi Kudo?”
Vodka distinse la parola Kudo. L'interrogatorio vero e proprio doveva essere cominciato.
“Shinichi
Kudo?” chiese di rimando l'attore, titubante. Forse quell'uomo intendeva il
figlio di Yusaku Kudo. Lo scrittore gliene aveva parlato una sera, nella
semioscurità della biblioteca di New York. Perché quegli uomini si
interessavano ai Kudo? Che cosa volevano sapere da lui? Arthur ricordò la notte
di qualche giorno prima, il viso rigato di lacrime di Yusaku che cercava di
trattenerlo e una miriade di fogli volanti nel cielo. Quell'uomo dagli occhiali
era stata forse l'unica persona al mondo, all'infuori di suo padre, a
dimostrargli affetto: e su quel ponte per un attimo gli era sembrato di
rivedere i lineamenti del padre nel viso dello scrittore. Non l'avrebbe
tradito, a qualunque costo, non di nuovo. Gli aveva arrecato già troppo dolore.
Ebbe come l'impressione che avrebbe potuto espiare le sue colpe non aiutando
quegli uomini, e forse se così fosse stato avrebbe potuto non morire. Allora
era quello? Davvero non desiderava morire? Il suo era solo un modo per cancellare
la sua colpa?
Gin
si girò verso l'altro uomo con fare irritato.
“Vodka.”
lo chiamò, e quello capì immediatamente cosa doveva fare. Si avvicinò a passi
pesanti al ragazzo che lo osservava come se fosse un gorilla pronto a
schiacciarlo con un solo dito. Vodka lo afferrò per la nuca, e con un grugnito
lo scaraventò a terra. Arthur cadde con un tonfo sordo, e sentì un dolore acuto
alla spalla che lo fece gemere. Tentò di mettersi a sedere, ma il gorilla fu di
nuovo più veloce di lui, bloccando ogni suo movimento. L'enorme piede di Vodka
premeva con forza sul fianco del ragazzo, impedendogli di muoversi.
“Quell'uomo
farà qualsiasi cosa io gli ordini, e non è esattamente quel che si definisce
una persona tenera. Ripeto: hai mai visto Shinichi Kudo?”
“No.”
mugolò il ragazzo. “Non lo conosco.”
“Ma
davvero?”
Gin
lanciò un'altra occhiata a Vodka, e quello allontanò Arthur con un calcio
dritto allo stomaco. Lasciò che il corpo scivolasse con un rantolo, e poi gli
si avvicinò a passi lenti, facendogli capire che era pronto al secondo round.
“Strano.”
continuava intanto Gin, “A quanto ci risulta è stato lui a smascherare il tuo
patetico crimine.”
Arthur,
facendo leva sulle braccia, gattonò fino al muro. Si sedette, appoggiando le
spalle, e riprese fiato. Vodka stava per tornare in azione, ma non ricevette
l'occhiata di assenso di Gin e si fermò.
“Parlate..
della sera.. all'hotel?” chiese con voce tirata, raccogliendo ogni forza.
Continuava a parlare al plurale, nonostante fosse solo Gin il diretto
interlocutore.
“E
a che cazzo vuoi che mi riferisca?”
Per
un attimo, Gin vide balenare negli occhi del ragazzo il disprezzo. Ma fu solo
un attimo. Poi tornò tutto come prima. Tornarono aguzzino e vittima.
“Lui..
lui non c'era.”
Altra
occhiata a Vodka, e dopo meno di un secondo Arthur si ritrovò di nuovo stesso a
terra, in bocca il sapore del sangue. Per un attimo la testa girò, e non capì
cosa fosse successo. Forse un pugno dell'uomo l'aveva centrato in pieno?
“Non
dire stronzate.” tuonò freddo Gin, mentre si accendeva una sigaretta con finta
tranquillità, “sappiamo benissimo che era lì. Anzi, ci risulta che fosse
addirittura su quel ponte con te quando hai tentato il tuo stupido volo.”
“No..”
rispondeva di nuovo Arthur, tentando di muoversi, ma il piede di Vodka lo
bloccava ancora, questa volta al muro.
“Quindi
tu non ti ricordi di lui? Davvero una pessima memoria per essere un attore.
Forse è per questo che non hai mai avuto tanto successo.”
Altro
calcio. Ma a far più male furono le parole. Arthur sentì una lacrima salata raggiungergli
le labbra, mentre si rannicchiava su se stesso nel tentativo di sfuggire ai
calci di quel gorilla.
“Proviamo
a far funzionare il tuo cervellino. Vodka!” e fece un cennò che l'altro
comprese. Afferrando i capelli dell'attore lo costrinse a sedersi, e si
allontanò di qualche passo in attesa di ordini. Il poveretto era bianco come un
cencio e la sua camicia stropicciata si era lacerata nell'urto con il piede di
Vodka. A tratti era scosso da tremori e gli occhi lucidi fissavano ora Gin,
aspettando la prossima domanda.
“Che
mi dici di Yusaku Kudo?”
“Che..
cosa volete sapere?” guardò entrambi facendo oscillare a scatti la testa. Vodka
era impassibile, come se non sentisse. Effettivamente, in quel momento era poco
più che un sordo.
“E'
il padre di Shinichi Kudo. Lo conosci, giusto?”
Arthur
annuì.
“Vi
siete conosciuti in America?”
Annuì
ancora.
“Siete
amici?”
Esitò
un attimo, poi disse: “No. Ho letto i suoi libri, ero solo ospite alla presentazione...”
“E
come mai ti ha invitato, se non siete amici?”
“Dovevo..
dovevo recitare.. una parte del nuovo libro..”
I
ricordi gli facevano male. La sua mente scombussolata aveva cancellato in parte
quella sera, e ricordava a tratti, flash di intensa nitidezza alternarti a
momenti bui e appannati.
“Vedrò
di crederci. Ti ha mai parlato di suo figlio?”
Arthur
scosse la testa.
“Qualcosa
mi dice che stai mentendo. Vodka.”
L'uomo
si avventò di nuovo sul ragazzo. Gin abbassò gli occhi, osservando la sua
sigaretta che andava pian piano consumandosi. Sentì un gemito e, quando rialzò
lo sguardo, un rivolo di sangue colava dal sopracciglio spaccato di Arthur. Il
rosso che dipingeva quella tela immacolata appariva quasi sacrilego.
“Ti
ha mai parlato di suo figlio?”
Di
nuovo Arthur scosse la testa. Gin fece segno a Vodka di tener ferme le mani, e
si avvicinò. Il ragazzo stava ancora seduto con le spalle al muro, gli occhi
che diventavano pian piano vitrei. Gin si chinò su di lui, e sibilò a denti
stretti.
“Se
te lo chiedessi di nuovo, scuoteresti ancora la testa?”
Il
ragazzo annuì. Gin gli prese la camicia lacerata, scoprendogli il petto. Gli
avvicinò alla pelle la sigaretta che si stava spegnendo. Arthur, ne avvertì il
calore e capì le intenzioni dell'uomo.
“Adesso?
Scuoteresti ancora la testa?”
Annuì
ancora, stringendo le labbra e gli occhi. Gin premette la sigaretta sulla pelle
morbida più forte che poté, e sentì la sua vittima trattenere il fiato con un
verso strozzato. Quando non rimase che un mozzicone, estrasse la pistola.
Arthur aveva ripreso a respirare. Gin gli si avvicinò ancora di più,
digrignando i denti prima di buttargli addosso tutto il fiato che aveva.
“Dimmi
dove posso trovare Yusaku Kudo, Shinichi Kudo, o un qualsiasi membro di quella
dannata famiglia.” sibilò.
Vedendo
gli occhi indemoniati di quell'uomo, Arthur pensò che sarebbe morto lì, in
quella stanza bianca, in quel momento. La bruciatura sul petto gli doleva, ma
per un attimo non sentì altro che il freddo che quell'uomo emanava e che gli
cristallizzava ogni parte del suo corpo.
“Parla,
piccolo moccioso idiota.”
La
canna della pistola poggiata sotto al mento, Arthur tremò. Stringeva i pugni e
divincolava le gambe, ma era totalmente immobilizzato. Scuoteva la testa, non
riusciva a parlare.
“Stai
cercando di dirmi che non sai un cazzo?”
Gin
sentì il ragazzo tremare scosso da un brivido. Dannazione, era davvero un
idiota.
“Apri
la bocca.”
Arthur
non ebbe il tempo di fare alcun movimento, che si ritrovò tra le labbra la
canna di quell'odioso strumento.
“Sai
quante possibilità hai di sopravvivere se faccio fuoco?”
Lo
sguardo di Arthur era implorante. Non riusciva più a sopportare tutto quello
stress fisico e psicologico.
“Meno
di zero.” sentenziò Gin.
Aspettò
che le sue parole facessero effetto, e continuò: “Ti do un giorno. Vedi di
farti venire in mente qualcosa. Se domani il tuo cervellino non avrà ripreso a
funzionare, mi applicherò personalmente per dargli una mano.”
Estrasse
la pistola e Arthur respirò in un sol colpo tutto quello di cui aveva bisogno:
aria. Gin si rialzò e si rivolse a Vodka in giapponese.
“Andiamocene.
Vedi di procurargli dei vestiti decenti, o domani questa stanza puzzerà come un
porcile. Potrà usare il lavandino per pulirsi.”
“Sì,
capo, glieli porterò.”
Voltarono
le spalle al ragazzo e se ne andarono senza dire altro. E lui restò lì, per
terra, spalle al muro, a boccheggiare nei suoi stessi pensieri. Quando la porta
si richiuse, si stese sul pavimento, lasciandosi andare. Tremava convulsamente,
il sangue gli sporcava il viso e i capelli, allargandosi sul bianco delle
piastrelle. Si lasciò andare ai singhiozzi che sussultavano nel suo petto, e
senza nemmeno sapere il perché, cominciò a recitare piano, con un filo di voce
talmente leggero da poter essere percepito solo nei sui pensieri.
“Fuggono i minuti e
io Levi Matteo, mi trovo sul monte Calvario e la morte ancora non arriva”.
E più avanti:
“Il sole declina e la
morte non arriva”.
Ora Levi Matteo
disperato scriveva con il bastoncino appuntito:
“Dio! Perché sei in
collera con lui? Mandagli la morte”. *
E
poi fu solo silenzio.
Ran
osservava le nuvole che scorrevano accanto a loro, immaginando il mondo al di
sotto di esse. I raggi rossastri del sole a tratti la accecavano, nascondendo
il suo riflesso sul finestrino ovale, e quando i suoi occhi chiari cercavano
riparo dalla luce allora si voltava, accennando un timido sorriso al padre
seduto accanto a lei. Il motore del piccolo aereo rombava, a tratti qualche
vuoto d'aria li faceva sussultare, ma nel complesso era un volo tranquillo. Non
c'erano turbolenze, e il brutto tempo sembrava solo un ricordo lontano. Eppure
Ran avrebbe in seguito ricordato quel viaggio come uno dei peggiori della sua
vita. In primo luogo, perché quello non era un viaggio. Insomma, per poterlo
definire tale bisognava conoscere almeno la destinazione, e sia la ragazza che
il padre ignoravano assolutamente dove quel jet li avrebbe portati. L'ispettore
Megure era stato chiaro: avrebbe fornito loro un aereo privato, un agente in
borghese di scorta e tutto ciò che poteva offrire perché le loro vite fossero
al sicuro. Questo includeva ovviamente il fatto che solo un esiguo numero di
persone sarebbe stato a conoscenza del luogo dove i due avrebbero risieduto per
un periodo di tempo ancora non esattamente determinato e, a quanto pareva, i
diretti interessati non rientravano in quella cerchia. Ran sospirò, appoggiando
la testa al sedile e cercando di distendere i nervi, ma tutto le era
impossibile. Ogni cosa le sembrava stretta e insopportabile, persino quella
camicetta che aveva sempre elogiato per comodità. Sentendo quel sonoro sospiro,
l'uomo seduto davanti a loro si issò sul sedile, e voltandosi chiese: “Tutto
bene, signorina? Desidera qualcosa?”
La
ragazza tentò di sorridere, ma il risultato fu solo una sottospecie di ruga ai
lati della bocca. A rispondere fu invece Kogoro, decisamente meno pacato di lei
per natura. Si rizzò a sedere, abbandonando la più comoda posa che aveva
assunto abbassando lo schienale del suo posto, e sbottò: “Con che coraggio
chiede a mia figlia se va tutto bene? Siamo stati catapultati su questo aereo
da un momento all'altro, senza nemmeno sapere dove saremo condotti, e tutto a
causa di un branco di fantomatici criminali che potrebbero prenderci di mira.
Per cosa poi? Per una stupida foto! Tutto questo è assurdo! Fino a questa
mattina io avevo un lavoro e mia figlia era una studentessa come tutte le
altre: e ora invece? Quando potremo riavere la nostra normalità? Pensavo che
certe cose accadessero solo nei film!”
Kogoro,
rosso in viso, si tolse la giacca. Stava sudando. Con occhi infervorati per la
rabbia e la frustrazione guardava l'agente, capro espiatorio di una storia in
cui c'entrava ben poco.
“Io
eseguo solo gli ordini, signore.”
“Non
mi interessa! Può star certo che, se l'ispettore Megure non mi avesse costretto
e implorato, ora non sarei qui. Anzi, dirotterei questo maledetto aereo pur di
tornare a casa. Insomma, il mio mestiere è acchiappare criminali, non scappare
al primo pericolo!”
L'agente
si manteneva serio e impassibile. Doveva avere una quarantina d'anni: il volto
squadrato e austero, perfettamente sbarbato, gli conferiva l'aria di un uomo
ligio al proprio dovere. Doveva essere abituato a quelle sfuriate, perché non
si scompose minimamente. Anzi, osservava Kogoro senza battere ciglio.
“E
il mio è di fare quanto mi viene ordinato. Cercavo solo di essere gentile.”
Kogoro
sentì la rabbia salirgli lungo la spina dorsale fino ad invadergli
completamente la mente. Batté il pugno sullo schienale del sedile davanti, e
urlò quasi: “Questa sarebbe gentilezza? E non si nasconda dietro la storia
degli ordini! Anche i criminali fanno lo stesso, e trovo sia la più misera
delle scuse e la peggiore delle aggravanti!”
“Papà!”
intervenne Ran, con voce ferma. “Adesso basta. Lo deve perdonare, agente. Non è
facile per nessuno di noi. Comunque va tutto bene, grazie, per quanto
possibile.”
E
con un cenno del capo gli fece capire che poteva tornare a sedersi e scomparire
oltre quello schienale, lasciando lei e il padre alla sua intimità. Non appena
furono lontani da quello sguardo in quel momento ritenuto indiscreto, Ran
afferrò la madre del padre: “Dobbiamo cercare di stare tranquilli. Andrà tutto
bene.”
L'uomo
sgranò gli occhi: “Tutto bene? Come fai a dire questo? E tua madre? Se siamo
davvero così in pericolo, perché lei non è con noi?”
Ran
trasse un profondo respiro. Lo sguardo del padre era semplicemente quello di un
uomo disperato. Si fece forza, perché si rendeva conto che, per l'ennesima
volta, doveva essere lei a sorreggere gli altri, a stare accanto al padre e
aiutarlo, a fidarsi di Shinichi e aspettare che si facesse risentire, ad
attendere dall'ispettore la notizia che avrebbero potuto rientrare nella loro
casa. Non si chiese perché dovesse sempre tutto gravare sulle sue spalle: in
quel momento quella domanda l'avrebbe uccisa.
“La
madre di Shinichi mi ha assicurato che..”
“Shinichi!”
la interruppe il padre, alzando gli occhi al cielo, “E noi ci dovremmo fidare
di lui? E' colpa di quel detective da strapazzo se ora a quanto pare un gruppo
di criminali psicopatici vuole ucciderci.”
“Shinichi
è un bravo detective. E lui rischia la vita ancora più di noi: sta facendo
tutto questo per proteggerci.”
“Non
mi interessa che lui stia rischiando la vita, Ran. Lui se l'è scelto di cacciarsi nei guai, sapeva che quello del
detective è un mestiere rischioso. Tu
invece non hai colpe, non meriti di essere coinvolta in tutto questo.”
Ran
abbassò lo sguardo, e poi si girò di nuovo, a fissare il cielo oltre il
finestrino. Sussurrò: “Sì, invece. Io ho scelto di stargli accanto e di fidarmi
di lui. Sapevo che avrei rischiato di essere coinvolta in qualcuno dei suoi
casi prima o poi. Lo sapevo, e sono andata avanti comunque.”
Il
silenzio del padre la fece voltare ancora a guardarlo. L'uomo aveva abbassato
gli occhi, forse cercando una risposta.
“Sei
comunque innocente.”
“Anche
Shinichi lo è.”
“Ti
fidi davvero di lui?”
Lei
annuì.
“Ma
non ti fa rabbia tutto questo?”
“Mi
stai chiedendo se sono triste? Certo che sì. Ho lasciato la mia scuola, i miei
amici, Sonoko, Conan, la mamma.. senza nemmeno poterli salutare. E a tratti ho
paura di non rivederli mai più, sento l'angoscia e il terrore che qualcosa
possa andare storto mi pervade. E se Shinichi non ce la dovesse fare? Che cosa
ne sarà di noi? Papà io voglio essere forte, ma.. ho paura. Sì, ho tanta
paura.”
Gli
occhi le si cosparsero di lacrime e ogni difesa crollò. Prese a singhiozzare,
nascondendo il volto tra le mani. Sentì le braccia forti del padre accoglierla
e stringerla a lui. Dondolava appena, come a volerla cullare, come se fosse
ancora un bambina troppo piccola per addormentarsi o calmarsi senza qualcuno
accanto a cantarle una dolce ninna nanna.
“Ci
sono io con te, Ran. Non ti lascerò mai, bambina mia. E' una promessa.”
E
le accarezzava piano i capelli, mentre sentiva la camicia bagnarsi di lacrime.
Ma non importava.
“Ti
voglio bene.” le disse. Da quanto non glielo diceva?
I
singhiozzi si placarono leggermente, e Kogoro sentì una voce ovattata e
incrinata rispondergli: “Anche io, papà. Tanto.”
Quelle
parole erano quanto bastava per affrontare qualsiasi cosa.
*Tratto
da “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, che a quanto pare Arthur Newman ha
letto e apprezzato.
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Ecco il nono
capitolo per quei pochi coraggiosi che continuano a leggere la storia e a cui
va un grandissimo ringraziamento :) Non ho ricevuto molte recensioni sugli
ultimi due capitoli, ma non per questo quelle dei pochi che si sono fermati a
commentare valgono di meno: per questo, un enorme grazie a voi che dedicandomi
qualche minuto del vostro tempo mi spronate ad andare avanti e mi fate sapere
cosa ne pensate della storia :) Inoltre le letture comunque sono stabili, e
quindi grazie anche a chi segue la storia senza commentare <3 Il capitolo
era pronto da un po’, ma con l’inizio dell’università e altri impegni in
famiglia ho avuto tempo solo ora di rivederlo e postarlo. Spero vi piaccia, non
sono soddisfatta al cento per cento ma lo ritengo migliore dell’ottavo :)
Un bacione a
tutti voi che avete letto, che avete la storia tra le seguite, ricordate o
preferite :)
A presto,
Flami
PS: non può
mancare il solito saluto finale alla mia piccola grande amica Mary. Scusa se ho
fatto soffrire un pochino Arthur in questo capitolo <3 Ti voglio un mondo di
bene <3 <3 <3