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Autore: Agapanto Blu    25/10/2014    1 recensioni
Solo piccoli flash sulla caduta e il rialzarsi dei sei Miracoli del basket; sulle note di "Hallelujah", di Leonard Cohen.
Ognuno di loro si è schiantato a terra -chi prima e chi dopo-, ma hanno tutti trovato la forza di tirarsi di nuovo in piedi.
***
Ed era la versione più quieta dell'urlo della fenice che risorgeva dalle proprie ceneri.
***
Leggere AkaKuro e AoKise, vagamentissimamente accennata MidoTaka.
***
SPOILER PER CHI SEGUE SOLO L'ANIME E NON IL MANGA! Lettore avvisato, mezzo salvato.
Genere: Malinconico, Slice of life, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kiseki No Sedai, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Miracles


 
I’ve heard there was a secret chord,
that David played and it pleased the Lord,
but you don’t really care for music, do you?
 
Era dolce, molto dolce.
Non quella dolcezza eccessiva, stucchevole, di alcune caramelle industriali, ma di quella di un biscotto fatto in casa o della crostata della nonna, dello zucchero filato al festival d’estate o della cioccolata calda dopo una battaglia a palle di neve.
Era dolce avere qualcuno che si prendesse cura di te, che invece di arrabbiarsi perché ti comporti da bambino ridesse e ti coccolasse come tale. Era dolce avere qualcuno su cui contare, che sarebbe accorso a tirarti fuori dallo sgabuzzino se tu ci fossi rimasto incastrato dentro. Era dolce avere una piccola famiglia anche fuori di casa, era dolce giocare tutti assieme e poco importava a cosa, anche uno sport noioso andava bene purché lo si facesse tutti insieme.
Era dolce, molto dolce, come l’eco lontano di una ninnananna dimenticata.
È che quando il dolce passa, resta solo l’amarezza. Molta amarezza.
 
It goes like this: the fourth, the fifth,
the minor fall and the major lift.
The baffled king composing Hallelujah.
 
Destra e sinistra, avanti ed indietro, si raggiungeva un quarto del campo e poi la metà e poi i tre quarti e poi il fondo, ma si tornava sempre indietro. Non importava quanto lontano si andasse, si tornava sempre indietro, tutti assieme.
Quattro e cinque. Le gocce di sudore scivolavano sulla pelle ad ogni addominale, ad ogni flessione, ad ogni movimento attentamente studiato sulla corporatura di ciascun giocatore e la voce sforzata del prescelto per il conto si diffondeva nella palestra sopra un coro di ansiti affaticati.
Cadere e rialzarsi. L’allenamento duro e le partite vinte, le sfide irriverenti di un subordinato ribelle che non avrebbe dovuto osare parlarti come fosse un tuo pari e il crescendo di talento puro, di forza bruta, di potere nel momento in cui lo sovrastavi come il re che eri, ma anche che sei e sarai sempre per lui.
Un re confuso che stava solo cercando di costruire la sua grazia perfetta, il suo accordo migliore, la sua armonia.
Ma se nessuno di quelli che sono partiti torna mai indietro, la distanza da chi resta aumenterà sempre, fino a quando non potrà essere colmata mai più.
 
Hallelujah, Hallelujah,
 
Dov’è la mia dolcezza?
 
Hallelujah, Hallelujah.
 
Dov’è la mia armonia?
 
Your faith was strong but you needed proof.
You saw her bathing on the roof,
her beauty and the moonlight overthrew you.
 
Lo sapevi, lo sapevi e lo sentivi. Doveva esistere, doveva esistere quel qualcuno che avrebbe cambiato tutto, che avrebbe distrutto la noia come un raggio di sole avrebbe falciato la nebbia. Lo sapevi, eppure non accadeva mai.
E poi la voce bassa eppure melodiosa nella sua infantilità sfiorente, la pelle mocaccino imperlata di fatica, gli occhi blu come mare profondo ma luminosi come soli, il corpo che diventava una musica e la gravità che non esisteva più. La leggerezza e la velocità, la forza e la determinazione, la passione e anche l’arroganza, perché la perfezione non esiste e non piace, erano stati come un maglio in pieno stomaco, ben più dolorosi di una pallonata in testa.
Perché era lui, era quello atteso da una vita ed era lì.
La grandiosità di quel momento, di quel talento, di quel ragazzo, erano state tali da farti boccheggiare. Ma poi avevano fatto male da morire.
 
She tied you to a kitchen chair,
she broke your throne, she cut your hair
and from your lips she drew the Hallelujah.
 
Era come essere legati. Non c’erano corde né catene, niente minacce né ricatti, solo due sottili occhi topazio scintillanti di venerazione allo stato puro e una voce così acuta da risultare irritante che non faceva altro che supplicare ‘Ancora uno! Ancora uno!’. E ad una supplica così, come si poteva rifiutare? Fosse un bacio o dieci minuti di gioco, non si poteva dire di no.
Quegli occhi e quella voce avevano corso su per i gradini ripidi della solitudine, spezzato il trono dell’ineguaglianza e fatto in mille pezzi la corona del talento solo continuando a perdere. Come fosse possibile avere così tanto senza mai vincere, era un mistero.
E allora perché quando aveva fatto più male, quando i gradini si erano moltiplicati e il trono era diventato incandescente e la corona pesava tonnellate, non erano accorsi? Perché non c’era nessuno a rincorrere, quando la supplica si era fatta disperata?
 
Hallelujah, Hallelujah,
 
Dov’è il mio idolo?
 
Hallelujah, Hallelujah.
 
Dov’è il mio compagno?
 
Maybe I’ve been here before,
I know this room, I’ve walked this floor.
I used to live alone before I knew you.
 
Le palestre sono tutte uguali, gli spogliatoi e i bagni e le panchine, tutti identici. È come averle viste tutte, pur avendone guardate solo alcune. È come esserci già stati, è come averci vissuto i momenti più belli di una vita ed averci sofferto il dolore più atroce di un’esistenza, senza mai averci messo piede.
Il parquet squittisce sotto le suole delle scarpe e quel suono irritante si diffonde in un campo vuoto fin troppo familiare. Se per l’aspetto o per l’assenza di contatto umano, non si può sapere.
Anche le bende che stringono una ranocchia giocattolo possono sentire il calore che una volta emanava e la solitudine che aleggia ora. Anche uno tsundere può piangere la compagnia che aveva spezzato il suo isolamento, ma che poi a sua volta si era spezzata da sola.
 
I’ve seen your flag on a marble arch,
love is not a victory march.
It’s a cold and it’s a broken Hallelujah.
 
Cento battaglie e cento vittorie. Lo stendardo orgoglioso non ondeggiava nel vuoto stagnante della palestra, anche sospeso nel nulla era saldo e rigido come i propositi di chi lo aveva scritto. Era come un monolite inamovibile, ma a volte era come un’enorme lama appesa al soffitto e sorretta solo da un crine di cavallo.
Se fossero state anche mille e mille, se alla fine della partita non si era felici, quella non era una vittoria.
La passione di un gioco verde, la consuetudine di una routine viola, l’allegria di una risata gialla, l’affetto di un amicizia blu, l’appartenenza di un amore rosso non esistono solo durante la marcia di trionfo. Esistono anche nell’umiliazione della sconfitta, nella delusione di un sogno infranto, nell’irritazione della coscienza che al mondo esista qualcuno di semplicemente migliore. O almeno così avrebbe dovuto essere.
Sulla superficie di un foglio candido, spiccavano le apatiche lettere nere di dimissioni, ma passavano inosservate le ombre in rilievo di piccoli circoletti ormai asciutti ma in origine liquidi, salati come mare e brucianti come una sferzata in pieno viso.
Forse no, forse la vittoria sono solo i punti sul tabellone e senza quelli non esiste nulla. Forse tutti i colori di questo mondo vengono risucchiati via dal grigio di un errore, di un’incomprensione, di un’ombra che ci prova – ci prova davvero – a dire la sua, ma lo fa troppo tardi.
Cento battaglie e cento vittorie, ma mille scuse non potranno riaggiustare i frammenti di un cuore di ghiaccio spaccato senza pietà dalla sua spada di Damocle.
 
Hallelujah, Hallelujah,
 
Dov’è la mia forza?
 
Hallelujah, Hallelujah.
 
Dov’è la mia passione?
 
There was a time you’d let me know
what’s real and going on below.
but now you’d never show it to me, do you?
 
“Andiaaaaaaaamo! Midorin, per favore!”
“No.”
“Per favoooore!”
“Nanodayo.”
“È un sì?!”
“No.”
“Midoriiiiiin! Per favore! Cosa ti costa uscire una volta con Mukkun?! È simpatico!”
“È pigro. E lento. E odioso. Nanodayo.”
“Oh, Midorin, che noia! Tu e Mukkun siete gli unici non fidanzati della squadra!”
“Neh, Sacchin, questo è perché gli altri quattro si sono fidanzati tra di loro.”
“Appunto! Potreste farlo anche voi!”
“No, è questa è la mia ultima parola sull’argomento! Nanodayo!”
“Neh, Midochin, la tua ultima parola è ‘Nanodayo’?”
“Taci!”
“Uffa, Midorin!”
“Anche tu, nanodayo!”
“L’hai detto di nuovo, Midochin…”
 
And remember when I moved in you?
The holy dark was moving too
and every breath we drew was Hallelujah.
 
“Akashi-kun è irritante.”
“Non è proprio un bel complimento da fare alla persona che ami di più al mondo, Tetsuya.”
“Non ricordo di aver mai detto una cosa del genere.”
“Strano, di solito hai una buona memoria.”
“Akashi-kun, sto cercando di leggere.”
“Continua pure.”
“È un po’ difficile con la tua lingua che gioca con il mio orecchio.”
“Vuoi che smetta?”
“…”
“Allora? Devo forse smettere, Te-tsu-ya?”
“… Non ricordo di aver mai detto una cosa del genere.”
Le risate, così come i sorrisi, sono come le pietre: tanto più sono preziosi, quanto sono rari.
“Aishiteru, Tetsuya.”
“Aishiteru, Akashi-kun.”
 
Hallelujah, Hallelujah,
 
Ohi, Kise.
“Uh? Cosa?”
Daisuki.
“…”
…Ohi? Kise? Kise, ci sei ancora?
“Aominecchi, baka!”
Che?! Ohi, ma sei arrossito?! Davvero?! Ah! Scemo, sei proprio una ragazza a tutti gli effetti!
“BAKA! Ripetilo sul campo, se ne hai il coraggio!”
Cos’è, una sfida?!
“Prendo la palla!”
Al campo tra quindici minuti e non metterti a piangere dopo aver perso!
 
Hallelujah, Hallelujah.
 
“Geez, che tristezza. Fanno tanti i grand’uomini e poi si comportano da bambini…”
“Momoi, non venire a parlare con me di quanto sia infantile quell’ammasso di ragazzini arrapati, d’accordo?! Non sei tu quella che deve avere a che fare con i loro ormoni negli spogliatoi!”
“Ops! … Eh eh, gomen, captain.”
 
Maybe there’s a God above…
 
Murasakibara non alzò la testa. La tenne piegata verso il basso, l’asciugamano a coprirla e a nascondere il suo volto ai compagni di squadra. Non la sollevò nemmeno quando Himuro gli si avvicinò, parlandogli con calma per rassicurarlo.
Aveva perso ed era la sensazione più amara che avesse mai provato. Perfino essere battuto dal suo ex capitano era stato meno terribile, forse perché da lui aveva potuto aspettarselo mentre dalla Seirin…senza dubbio era qualcosa che non aveva considerato.
Mai più., si ritrovò a pensare mentre calde lacrime gli correvano lungo le guance, Mai più, per favore. Mai più.
E per qualche strana ragione, la cicuta diventò dolce miele.
 
…and all I’ve ever learned from love…
 
Akashi deglutì. Sentiva gli occhi bruciare, ma non era disposto a piangere davanti a tutti gli spettatori della finale. Non poteva nascondere le lacrime che gli stavano appannando la vista, ma non avrebbe mai permesso loro di cadere. Come lui, non sarebbero mai crollate.
Tra la nebbia di una sofferenza nuova e decisamente insopportabile, tra le ombre scure e vaghe che correvano sullo sfondo, Akashi ne individuò una che conosceva molto bene. Un’ombra che per lui brillava quanto le stelle del cielo.
Allungò la mano verso di essa quasi senza pensare alle parole che le sue labbra stavano pronunciando. Parole da capitano, senza dubbio, ma molto meno importanti del suo palmo da ragazzo.
Dita candide, nivee e sottili come quelle di una ragazza, ma abbastanza forti da far tremare gli avversari sul campo, scivolarono piano nelle sue e strinsero, leggere e armoniche, una presa che prometteva di non allentarsi più e Akashi sorrise.
“È la tua…No, è la vittoria della tua squadra. Congratulazioni.”
Finalmente, era tornato indietro.
 
…was how to shoot at someone who outdrew you.
 
Aomine non era certo di come facesse a saperlo, però lo sapeva. Sapeva come sarebbe finito il match, sapeva cosa sarebbe successo dopo e sapeva dove trovare Haizaki.
Per una volta, non agì d’impulso, ma camminò con lentezza verso l’altro ragazzo, tenendo le mani affondate nelle tasche del cappotto più per essere certo di non fare qualche sciocchezza che per la temperatura invernale.
“Se stai pensando di vendicarti, rinuncia.”
Erano parole grosse, proprio da lui che era la ragione principale dell’infortunio alla gamba del biondo e delle schegge di vetro del suo sogno di guidare il Kaijou alla vetta dell’Inter-High, da lui che era passato dall’essere l’eroe al recitare la parte del cattivo. Ma la redenzione esiste per un motivo, l’adolescenza è l’età costruita apposta per fare tutti gli errori che da adulti saranno irrimediabili, è il momento perfetto per comportarsi da stronzi e poi chiedere scusa.
Perché non era stato il biondo a sconfiggerlo, ma era stato l’unico che avesse sempre continuato a perdere dando l’anima fino alla fine. Perché lui poteva anche non saperlo, ma Daiki si riteneva ancora il suo solo e unico compagno.
Il pugno di Aomine si schiantò sulla guancia di Haizaki con tanta forza da farlo cadere a terra privo di sensi. E faceva male alla mano, ma bene al cuore.
 
It’s not a cry you can hear at night,…
 
Kise sapeva di essersi ormai guadagnato il soprannome di ‘Piagnucolone’ a scuola ma era comunque grato che non ci fosse nessuno dei suoi compagni a vederlo, in quel momento. Sarebbe stato troppo.
Sdraiato su un fianco sopra il suo letto, la divisa ancora sudata addosso, i capelli attaccati alla pelle e i muscoli che urlavano pietà, Ryouta lasciò che le lacrime gli cadessero dagli occhi sul materasso e che i singhiozzi facessero tremare il suo corpo fino allo spasmo. Strinse i denti per soffocare i gemiti e la presa delle mani si serrò sul lenzuolo quando il pianto divenne ancora più veloce e forte.
Dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutto l’impegno che ci aveva messo da quando erano stati battuti all’Inter-High, lui ancora non era stato abbastanza.
Non ce l’aveva con i ragazzi della Seirin, era ovvio che anche loro avrebbero lottato per vincere e l’ultima cosa che lui voleva era una vittoria regalatagli dagli avversari, però…desiderava così tanto vincere con i suoi compagni, portare i suoi senpai sulla vetta per, boh, scusarsi per essere così insopportabile e piagnucolone e per i disturbi che il suo lavoro di modello – e le fangirl in modo particolare – dava alla squadra. E invece cos’aveva fatto? Era entrato tardi, era caduto nella trappola dei suoi avversari, aveva fatto il loro gioco e alla fine non era riuscito a vincere. Di nuovo, o forse sarebbe stato meglio dire ‘per l’ennesima volta’.
Kise non pretendeva di essere il più forte. Anzi, lui lo aveva sempre detto di essere il più debole della Generazione perché era una semplice verità di fatto, però anche la Seirin era una squadra relativamente debole, eppure continuavano a vincere, quindi perché il Kaijou no?! I suoi senpai si impegnavano, mettevano l’anima in quel gioco, Kasamatsu soprattutto: avrebbero meritato di vincere sia l’Inter-High che la Winter Cup! Invece lui aveva rovinato tutto… Lui che in realtà voleva solo vincere assieme a tutti i suoi compagni…
L’ennesimo singhiozzo lo fece sobbalzare, ma le sue labbra serrate impedirono che il suono coprisse lo squillo del cellulare.
Come svegliatosi all’improvviso da un sogno, Kise si affrettò a tirarsi a sedere. Si passò un braccio sul viso, senza curarsi di starsi sporcando, e allungò l’altra mano ad afferrare il telefono.
“P-Pronto?” chiese, deglutendo per mascherare la rochezza del proprio tono.
Oh cazzo, ma stai ancora piangendo?!
Kise sgranò gli occhi, scioccato, nel riconoscere quella voce.
Il nome dell’altro ragazzo gli scappò dalle labbra, poi realizzò ciò che gli era stato detto, “No, non è vero. Non sto piangendo!”
Seh, come no, dillo a tua nonna, Kise. Sei a casa?
Tutto ciò che il biondo riuscì a fare fu battere le palpebre.
“Hai…” mormorò, confuso dalla domanda.
Bene, allora vedi di uscire ad aprirmi perché la tua vicina sta per chiamare la polizia.” Quel grugnire, Kise lo avrebbe riconosciuto tra mille.
“Non le sei mai piaciuto…” si ritrovò a mormorare mentre afferrava confusamente la felpa della divisa per poi correre fuori dalla camera e giù per le scale.
Tu dici?! Immagino allora sia per questo che all’ultimo Halloween che abbiamo fatto insieme mi ha tirato il contenitore delle caramelle sull’alluce.
E Kise non avrebbe voluto farlo, ma rise lo stesso. Rise mentre si finiva di allacciare le scarpe, mentre apriva la porta, mentre riattaccava la chiamata e mentre correva verso il suo amico. Rise anche mentre, il volto nascosto nel petto di quest’ultimo, le lacrime riprendevano a scendere, ma solo perché sentì quella voce promettergli che avrebbero giocato assieme così tanti one-on-one che alla prossima partita il Kaijou avrebbe costretto la Seirin a mangiare la polvere.
Rideva, Ryouta, perché il suo idolo era tornato.
 
…it’s not somebody who’s seen in the light.
 
Non importava quante luci splendessero sopra il campo, quanti faretti e quanti flash dalle macchine fotografiche. Semplicemente, nessuno lo avrebbe visto, come al solito.
Ricordava ancora la sensazione bruciante di umiliazione quando la Generazione dei Miracoli era stata intervistata sul mensile di Basket e il giornalista gli era passato accanto per andarsene senza notarlo, felicemente convinto di aver fatto il suo lavoro e intento a meditare su quale tramezzino mangiarsi per pranzo. Gli altri gli avevano detto che era meglio così, che non doveva attirare l’attenzione, e lui ci aveva messo una pietra sopra. Nelle foto della squadra, lui era quello che rimaneva sempre tagliato fuori per metà. Della leggenda degli incredibili talenti della Teiko, lui era l’unico ad essere considerato esattamente solo quello: una leggenda, qualcosa che probabilmente neppure esisteva. Nonostante il suo nome comparisse puntualmente nell’elenco dei titolari, nessuno si era mai ricordato di lui. Addirittura quel ragazzo della scuola Seiho era riuscito a dimenticarsi di lui e a non riconoscerlo solo un anno dopo avergli chiesto il nome e giurato vendetta.
Per quanto le luci brillassero, lui non avrebbe mai potuto lasciare l’oscurità che si era coltivato addosso e attorno, come un’armatura.
Guardando quell’imitazione, quella semioscurità, quella penombra che il Rakuzan aveva costruito per sostituirlo, Kuroko non poté fare a meno di sentire la rabbia montare.
Essere un’ombra era doloroso, per questo in pochi potevano sopportare il peso di quel ruolo. Era necessario sacrificare completamente sé stessi, abbandonare ogni briciolo di emozione, ogni singolo grammo di gloria, anche la possibilità di avere delle vere e proprie relazioni sociali normali. Bisognava rinunciare alla propria individualità per il bene solo ed ultimo della squadra.
Per un attimo, provò pena per quella penombra orgogliosa che chiaramente non aveva la minima idea di quanto faticoso fosse il cammino che aveva intrapreso con tanta superbia.
Un canestro, un secondo, un terzo. Tetsuya lasciò passare quello che avrebbe potuto tranquillamente vedere come un suo kohai, quantomeno per il tipo di gioco. Era più grande, certo, e lui non era tipo da sfidare l’autorità di un senpai, era sempre stato ligio alle regole, ma in quel momento non gli importava.
Uno scarto, un dribbling, una schiacciata. Kuroko osservò quel ragazzo con superiorità ben celata. Gli erano occorsi anni per diventare il giocatore che era e ora quel tipo pensava seriamente di poterlo eguagliare in soli pochi mesi? Non era che un bambino presuntuoso. Non aveva le sue capacità di osservazione, non aveva la sua esperienza, non aveva la sua conoscenza del gioco, della psicologia degli avversari e dei suoi compagni. Più di tutto, non aveva la sua determinazione a vincere.
Un complimento, un’ovazione, un urlo del pubblico. Un biondino rompiscatole, in un giorno di primavera del secondo anno di medie, aveva lodato la sua ‘pura aspirazione alla vittoria’. Non era così. Non era la vittoria quella che si doveva bramare, per poter essere un’ombra. Era la gioia dei propri compagni, la soddisfazione di ogni singolo giocatore sul campo e l’onore per la squadra: quelli erano gli unici obiettivi da perseguire.
E mentre la penombra si assottigliava, cadendo sempre di più nella luce, l’ombra capì cosa dovevano aver provato gli assi della Touou e del Kaijou ai quarti di finale dell’Inter-High: giocare contro sé stessi era qualcosa di elettrizzante e incredibile; era una scarica di pura adrenalina che partiva dal cervello e correva lungo la schiena, giù fino a fargli arricciare le dita dei piedi per l’euforia.
La penombra si dissolse nel nulla, senza un suono, e l’ombra sospirò tra sé e sé, senza farsi notare. Poteva aver fatto lo stesso errore nelle partite precedenti, poteva aver attirato un po’ eccessivamente l’attenzione su di sé, ma Tetsuya sapeva di essere troppo più scuro del suo avversario per perdere.
“Il titolo di Sesto Uomo Fantasma. Mi dispiace, ma ancora non mi sento di cederlo.”
Ed era la versione più quieta dell’urlo della fenice che risorgeva dalle proprie ceneri.
 
It’s a cold and it’s a broken Hallelujah.
 
Midorima strinse i pugni, perse la calma come mai prima, sentì gli occhi affilarsi per tagliare in pezzi l’avversario che una volta ammirava come un dio ma che ora gli appariva solo come un patetico lupo solitario che forse lo avrebbe anche sbranato, ma non avrebbe mai potuto dirsi umano come lui.
Una volta non l’avrebbe mai pensato, ma ora sì. Una volta avrebbe ringhiato, lottato fino allo stremo, convinto che qualcuno che aveva sempre e solo vinto fosse il peggiore degli avversari, ma dopo aver perso contro la Seirin sapeva che non era vero. L’avversario peggiore da fronteggiare è quello che ha già dovuto leccare il fiele della sconfitta dal parquet sporco e sudato di un campo sul quale non è stato abbastanza.
Il dio davanti a lui era forte, non si era mai dovuto inginocchiare davanti a nessuno né aveva mai pianto sotto la pioggia con il viso rivolto ad un cielo muto e indifferente, non aveva mai provato quel dolore allucinante nel petto né la vergogna nel dover incrociare gli occhi umidi di qualcuno che avesse creduto in lui fino alla fine, a torto. Non aveva mai dovuto sopportare quel senso di colpa, ma Shintarou sì.
Quella sua prima sconfitta, l’avrebbe sempre portata con sé. Lo avevo distrutto, ma lui si era rimesso insieme, aveva incollato i cocci e poi era andato avanti e li aveva rinforzati.
Ovviamente, non era così stupido da pensare che una sconfitta potesse averlo reso abbastanza forte da sconfiggere il suo ex-capitano. Era diventato forte, non idiota. Per quello che ne sapeva lui, il fatto che il suo oggetto fortunato del giorno fosse una dannatissima pedina da shogi poteva essere un modo del destino per dirgli di non farsi illusioni dal momento che avrebbe perso e tuttavia non riusciva a sentirsi preoccupato.
“In pratica, chiunque altro oltre a te è un ingombro.” aveva detto quel tipo.
Shintarou si sentiva irritato, sì, moltissimo, ma preoccupato no.
“Che cosa hai detto?!”
La rabbia, rovente nelle sue vene, divenne potenza pura. Un attaccante, due difensori, cinque o dieci o venti nemici: non importava più. Avrebbe spazzato via chiunque avesse osato mettersi sulla strada dello Shuutoku.
“Un ingombro? Che stai blaterando?”
Avrebbe dato tutto ciò che aveva senza risparmiarsi, ci avrebbe giocato l’anima e il cuore, sarebbe andato avanti a costo di spezzarsi le gambe a furia di salti e tutte le dita delle mani a ritmo di triple, non gli importava. Non si sarebbe mai più permesso di ritrovarsi a guardare i suoi compagni con la mente piena di ‘se solo…un po’ di più’.
“Non c’è un singolo giocatore in questa squadra che sia un ingombro.”
E lo pensava. Lo sapeva. Ci credeva.
Lui non era come gli altri assi, come quello della Touou o quello della Seirin. Lui non aveva bisogno di un’ombra, non aveva bisogno né voleva qualcuno che si sacrificasse completamente per lui. Ciò che gli serviva, ciò che desiderava, era un’altra luce, qualcuno che giocasse al suo fianco da pari, qualcosa che finora non aveva mai avuto.
Nel momento in cui la palla di Kazunari si insinuò nelle sue mani, mentre sentiva tutte le speranze dei suoi compagni attaccarglisi addosso, strette alla sua pelle come le bende a quella sua spaventosa mano sinistra, Midorima seppe che era . Lì stava tutta la sua forza.
Per questo non ebbe paura di sbagliare nemmeno per un attimo.
“La vera partita comincia adesso.”
 
Hallelujah, Hallelujah,
Hallelujah, Hallelujah.
Hallelujah, Hallelujah,
Hallelujah, Hallelujah.



 
FINE




 
Quanto sono orgogliosa di questi picciiiiiiiiniiiiiiii!!!
Non della storia, ma di loro come persone, come sono cresciuti e come si vogliono bene, etc etc... Questa One-Shot non mi è uscita male, devo dire, ma alcune parti sembravano molto meglio all'una di 'stanotte... Boh, forse sarà la febbre.
Da quando il manga è finito, ho sentito quest'urgenza di far sapere a questi cuccioli quanto fossi orgogliosa di loroo ç-ç e quindi...eccomi qui. A voi l'arduo compito di trovare la parole giuste per convincere questa patetica scribacchina a lasciare in pace il fandom.
Alcune precisazioni, che probabilmente non servono però!
Gomen = 'Scusa'; la persona cui Momoi (letterina rosa nel titolo) lo sta dicendo altri non è che sua maestosità Nijimura-senpai-san *si inchina umilmente di fronte alla grandezza dell'unica creatura sulla terra che sia stata mai in grado di tenere a bada tutti e sei i Miracoli -sette se volessimo contare anche Haizaki ma di Haizaki non importa niente a nessuno- senza perdere la propria sanità mentale* a cui è dedicata la letterina nera nel titolo (sì, lo so che in teoria Kuro vuol dire Nero e perciò la letterina nera doveva essere per Kuroko, ma il nostro adorabile fantasmino ha voluto i capelli azzurri quindi si becca quella azzurra.)
Daisuki = /Dài-ski/, significa "Mi piaci".
Aishiteru = "Ti amo".
Una piccola chicca sul perché ho scelto questi termini diversi: Daisuki è un termine leggermente più debole dell'altro, è più affine al parlato, mentre Aishiteru viene utilizzato apposta per indicare l'amore tra amanti, quello di una relazione sentimentale fortissima, praticamente il corrispettivo del nostro 'unico e vero amore' per spiegarci, per questo viene detto molto raramente, tantopiù che per la cultura giapponese è difficile concedersi una simile intimità con qualcuno. La distinzione che ho fatto non è da intendersi perché ritengo la AoKise inferiore alla AkaKuro o perché quest'ultima è la mia OTP (fatti del tutto ininfluenti, ovviamente v.v), ma per la natura stessa dei personaggi: onestamente non riesco a pensare che un tipo come Aomine, alla buona e -diciamocelo- a volte un po' rozzo, usi un termine così importante come Aishiteiru; allo stesso modo non riesco a vedere Akashi -che è sempre così...assoluto- e Kuroko -sempre determinato nelle proprie scelte- usare una parola così colloquiale, alla mano, semplice... È una mera scelta stilistica quindi, i/le fan della Aokise non mi uccidano per questo :) (E comunque l'AkaKuro è Canon, OK?!)
Detto questo, penso di aver finito.
Alla prossima (che, non illudetevi, sarà mooooooolto presto!),
ciao ciao!
Agapanto Blu
  
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