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Autore: Vanya Imyarek    26/10/2014    1 recensioni
Per i Greci, il kosmos è l'ordine del mondo, basato sul perfetto equilibrio tra opposti, come luce e tenebre, bene e male. Ora, se la gente odierna sapesse che il kosmos è minacciato da un fantasma con vari problemi mentali e un chiodo fisso pr la propria divinizzazione, e che è invece difeso da un paio di ragazzi doppiogiochisti, opportunisti e pure alquanto iettatori, tutti impegnati a cercare di procurarsi un'antica corona egizia dai poteri straordinari, ci sarebbe da supporre che il mondo piomberebbe nel panico generale.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Servi del Kosmos'
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                                PENELOPE


 


 


 


RISCHIO  DI  MORIRE  DURANTE  UNA  GITA  AL  MUSEO


 


 


 


(Senti, accendilo tu il registratore visto che sei tanto bravo! Ah, ecco, visto? E’ acceso)


 Salve a tutti. Qui parlano Penelope Mayherne e Chad Mist.


Ora, se siete persone normali, vi sorprenderete a sentire i nomi di due ragazzi dati per scomparsi da tutti. Se siete semidei greci o Romani o maghi egizi, vi sarà venuto un accidente a sentire i nomi dei due traditori, doppiogiochisti e quant’altro.


 Non abbiamo intenzione di spiegare come e perché queste accuse sono false: è tutto vero. Questa registrazione, e quelle che seguiranno, hanno l’unico scopo di chiarire le molte cose che sono rimaste in sospeso.


Chiunque tu sia, sei pregato di consegnarle alle seguenti persone: Carter e Sadie Kane, Walt Stone, Ziah Rashid, Percy Jackson, Annabeth Chase, Clovis Allerton. Evitate accuratamente i Romani non menzionati, distruggerebbero questa registrazione senza nemmeno sentirla per non so che questione d’onore.


Se invece fate parte delle persone menzionate, vi dico subito una cosa: ci dispiace davvero che abbiate sofferto per causa nostra. Siamo i primi a riconoscere che quello che abbiamo fatto è sbagliato, e non ne siamo affatto pentiti: semplicemente, dovevamo farlo. Non avevamo previsto che qualcuno diventasse nostro amico o che saltasse fuori qualche nostro parente, ma abbiamo continuato lo stesso. Se avete un po’ di pazienza, vi spiegheremo perché, e anche chi ci ha incaricati di fare ciò. Questa sarà una sorpresa, in particolare per gli egizi.


 In queste registrazioni, ripercorreremo le nostre vicende, spiegando esattamente i risvolti delle varie situazioni. Incominceremo dall’inizio, da quando abbiamo scoperto di non essere persone normali.


Io che parlo, l’avrete capito, sono Penelope. Se fate parte di un certo gruppo di persone, conoscete già qualcosa della mia storia personale. Saprete che sono una semidea greca. Saprete che mia madre è rimasta incinta apposta per farsi sposare dal mio genitore divino, cosa che lui ovviamente non ha fatto. Saprete che si è sposata quando avevo due anni con un produttore cinematografico, rimasto tanto commosso e affascinato dalla povera donna abbandonata da un mascalzone con una bambina da crescere. Saprete che questo tizio aveva una figlia che non potevo soffrire.


Se invece non fate parte di questo certo gruppo di persone, bene, l’avete appena scoperto.


 La storia che ho da raccontare inizia il ventisette agosto dell’anno scorso, con un sogno. Uno dei sogni strani che facevo già da un po’ di tempo a quella parte.


Ero in cima a quella che sembrava una gigantesca piramide, con alcune pietre vicino a me. Da quella posizione potevo vedere due luoghi diversi. Uno era una sorta di piccolo villaggio in mezzo a un bosco e vicino a un lago, un piccolo villaggio pieno di strane costruzioni, alcune delle quali sembravano ispirate all’architettura greca. L’altro sembrava quasi un tempio egizio, mezzo crollato, una vera rovina.


Io tiravo sassi verso i due luoghi: a volte li tiravo nel villaggio, altre volte nel tempio. Un sogno all’apparenza talmente sconclusionato da lasciare perplesso anche Sigmund Freud.


 Comunque, fu interrotto da quello che interrompe normalmente i sogni: il trillo della sveglia. In piena estate, già, bella goduria.


Il fatto è che quel giorno il mio patrigno aveva organizzato un incontro con alcuni giornalisti per parlare di un kolossal di argomento mitologico che aveva appena realizzato, film che tra parentesi faceva davvero schifo, una specie di squallida rielaborazione del mito di Bellerofonte. E per ragioni sue, aveva fissato l’incontro a un museo, per farsi fotografare davanti a vasi e sculture antiche e mostrare di quale straordinaria cultura lui e le sue opere fossero portavoce.


Un’emerita idiozia, ma per renderla ancora più idiota, aveva deciso di portarsi dietro l’intera famiglia, tanto per dimostrare quanto fossimo tutti presi dalla mitologia classica.


Per tutte queste ragioni, quando scesi in sala da pranzo, trovai tutti bardati il più elegantemente possibile. Patrigno in giacca e cravatta, tutto scuro ed elegante. Madre in tailleur color champagne, foulard di seta e trucco impeccabile. Sorellastra in abito color pesca e trucco altrettanto impeccabile.


Dall’alto di queste tenute, ognuno di loro scoccò un’occhiata di riprovazione ai miei soliti abiti di pelle nera e ai chili di trucco scuro.


“Sempre di nero, tesoro?” fu il buongiorno di mia madre “Sembra che tu stia andando a un funerale. Non potresti metterti qualcosa di più allegro?”


Be’, certo, mia madre sapeva sempre quali erano i vestiti giusti. Ne era un’esperta, visto che prima di avere me faceva la modella (ha smesso perché sosteneva che la gravidanza avesse danneggiato il suo fisico).


Effettivamente è ancora molto bella, con lunghi capelli castani e ondulati e grandi occhi verdi un po’ a mandorla. La forma degli occhi è una delle poche cose che ho preso da lei, anche se i miei sono neri. Tecnicamente tra le somiglianze ci sarebbero anche le labbra sottili, ma mia madre ha ovviato con un bel po’ di botulino.


“Eddai, Charlene, lasciala in pace” squittì la mia sorellastra Chelsea “Lo sai che Penny è la nostra Mercoledì Addams!”


 Si trattava di un simpatico riferimenti al fatto che ho la pelle quasi albina e i capelli lisci e neri. Chelsea era l’esatto contrario: ricci biondi, pelle abbronzata e occhi azzurri. Io e lei non ci potevamo veramente soffrire, anche se tutti dicevano che ero io a trattarla male; la verità è che ero l’unica che lo dimostrava e non si nascondeva dietro una maschera di gentilezza e carinerie per lanciare frecciatine.


Un grugnito e un’occhiata di disapprovazione da parte del mio patrigno furono tutto il suo contributo alla conversazione. Albert Rudd era un tipo distante, freddo, anche con le persone a cui voleva bene. A mia madre riservava una sorta di antiquata galanteria, a Chelsea una tiepida indulgenza. A me, un’occhiata perplessa, quando andava bene.


Mia madre sospirò teatralmente, mentre io iniziavo a mangiare senza dir niente a nessuno. “Un giorno o l’altro diventerà pure un po’ più femminile!”


“Alle Calende greche magari!”


Lei e Chelsea sostennero quest’amabile argomento di conversazione finché il mio patrigno non annunciò che rischiavamo di far tardi. Sotto quest’orrida prospettiva, l’intera famiglia fu caricata su una limousine bianca, diretta al museo.


Ora, a me l’edificio in questione era piuttosto indifferente, ma trovarci davanti un plotone di giornalisti lo rendeva una vista alquanto raccapricciante. Odiavo le interviste … tutto quel sorridere, quel fare dichiarazioni false, nonché preferibilmente zuccherose, quello sbandierare a destra e manca i fatti propri, neanche fossero qualcosa di straordinario … tutto per avere l’ammirazione di lettori di documenti ad alto contenuto intellettuale come le riviste di gossip.


Intendiamoci, le interviste non le hanno mai fatte a me, di norma al mio patrigno o, più raramente, a mia madre, nonostante le due domande a me o a Chelsea ci scappassero sempre. Non ho mai dovuto fare il genere di dichiarazioni di cui sopra. Ma è il genere di cose che ti dà la nausea soltanto ad assistervi.


Premetto che non sto dicendo queste cose per riguadagnarmi la vostra simpatia, sto solo cercando di farvi capire come funzionavano le cose nella mia famiglia.


Il mio patrigno provvide innanzitutto a sistemare il suo clan in posa per le fotografie davanti a statue e vasi, più alcune foto con lui solo. Dopodiché si accinse a fare una serie di dichiarazioni sul genere di cui ho detto sopra, disquisendo sui profondi motivi per cui il suo film non si concludeva con un Bellerofonte disgraziato emarginato per aver sfidato gli dei, ma con un Bellerofonte re e con una splendida consorte in abiti succinti al fianco (se respiri profondamente, Annabeth, forse ce la farai a non vomitare finché non raggiungi il bagno).


Uno strazio. Quella roba era noiosa già a leggerla sulle riviste, figuriamoci sentirla dal vivo. Mi faceva venire voglia di spararmi un colpo, ma vista l’impossibilità della cosa per assenza di materiale, optai per qualcosa di meno pericoloso: gironzolare per il museo e guardare gli oggetti esposti.


 Può non sembrare il massimo, ma in realtà c’erano cose piuttosto interessanti. Era divertente cercare di indovinare i miti raffigurati sui vasi, e le statue, insomma, lo sanno tutti che sono eccezionali.


La cosa che mi interessò di più, comunque, la trovai in una sala adiacente a quella dell’intervista, in una teca che esponeva gioielli antichi. Si trattava di un braccialetto, uno di quelli a forma di serpente attorcigliato che si avvolge intorno al polso. Era di metallo nero e, contrariamente agli altri oggetti esposti, scintillava come se fosse nuovo. Credo l’abbiate riconosciuto tutti, giusto?


 Bene, lo stavo giusto osservando, quando mi arrivò alle orecchie la voce zuccherosa di Chelsea. “Guarda che non si intende quello, per diventare più femminile”


“Torna ad ascoltare l’intervista, ti diverti di più” borbottai. Naturalmente la mia misera speranza di levarmela dai piedi con questo non ebbe il minimo successo.


“Grazie, sei carina a parlarmi così in pubblico” disse lanciando occhiate eloquenti ai giornalisti fuori dalla porta e a una donna delle pulizie che era entrata in quel momento.


“Prego, sai che sono sempre disponibile a farlo” replicai sarcastica, ignorando il ‘pubblico’.


 Lei sospirò “Ecco perché stai sempre da sola, Penny”


 “Finiscila di chiamarmi Penny, sai che lo odio”


“Appunto. Con te non si può mai scherzare un po’, non si possono mai fare cose normali … poi ci credo che non hai amici”


Io ingoiai la bile. La totale assenza di amici era il mio punto debole, e Chelsea lo sapeva benissimo. Ma cosa ci potevo fare se il mio carattere non era appezzato? Se la gente non mi gradiva così com’ero, un po’ cupa, silenziosa, irritabile, ironica e alle volte cinica, erano affari loro. Non avevo nessuna intenzione di cambiare solo per far piacere agli altri. Ci avevo provato, quand’ero bambina, e il mio unico risultato era stato concludere che a fare così si stava solo male.


“Sai, a vote in effetti mi pesa il fatto di non aver amici …” dissi a Chelsea “Ma poi guardo te, che ti sforzi di piacere agli altri mandando qualunque traccia di personalità a farsi benedire, e concludo che sto benissimo così. Mi sei davvero utile a volte, sai?”


 Fu il suo turno di ingoiare la bile. “Io almeno vengo appezzata” sibilò “Te, chi ti vuole? Manco tuo padre t’ha voluta. Chissà, forse aveva il dono della preveggenza, e se n’è andato proprio perché sapeva con chi avrebbe avuto a che fare”


Mio padre era un punto anche più debole dell’assenza di amici. L’avevo sempre odiato per la sua assenza, perché non mi aveva mai considerata un motivo abbastanza importante da farlo restare, perché mi faceva guardare dagli altri come qualcuno di strano, di diverso, o di cui avere compassione, perché mi faceva guardare da mia madre come uno strumento che aveva fallito il suo scopo.


Cercai di trovare qualcosa di abbastanza velenoso con cui rispondere a quella cretina della mia sorellastra, ed ero già a buon punto, quando una voce sibilante mi prevenne.


Sssciocca mortale …”


 Era la donna delle pulizie. Sia io che Chelsea ci girammo a guardarla, e io sobbalzai. La ragione è la più semplice del mondo: quella tizia stringeva tra le mani una lancia lunga due metri. Doveva averla tolta a qualche armatura lì esposta, ma sinceramente non importava molto il luogo dove l’aveva presa, quanto il fatto che sembrava più che intenzionata a usarla.


“Come mi hai chiamata scusa?” ribatté Chelsea piccata, come se l’offesa fosse più importante dell’arma letale lì presente.


“Sssciocca mortale” ripeté la donna a voce più alta. “Come tutti quelli della tua razza, non riconosssci chi è più importante di te … voi mortali fate vivere loro una vita ssschifosssa … prima che arrivi una come me, sss’intende …”


Tutte queste belle parole erano sostanzialmente prive di senso, ma la donna riuscì a farle sembrare eccezionalmente serie sottolineandole con il lancio della sua arma nella mia direzione. Io mi buttai a terra, schivandola per un soffio, mentre Chelsea cacciò un urlo.


Mi rialzai, e vidi una cosa che probabilmente non avrei mai pensato di vedere manco se mi fossi fatta di roba illegale. La donna delle pulizie non aveva più gambe normali: al loro posto, c’erano due code di serpente gemelle, coperte di squame verdi, che si contorcevano sul pavimento.


Non posso però riferire i mie esatti pensieri a quella vista, perché furono subito soppiantati dalla constatazione che, non chiedetemi come, la lancia era tornata in mano alla donna e quella sembrava intenzionata a rifare il tentativo di prima. Stavolta riuscii a cavarmela spostandomi di lato, e la lancia andò a infrangersi contro la vetrinetta dei gioielli (cosa che ovviamente non attirò l’attenzione di nessuno nella stanza delle interviste).


 A questo punto … non posso spiegare bene cosa mi sia preso. Neanche adesso che so cosa me l’abbia fatto fare, so spiegare cos’abbia pensato in quel momento.


Fatto sta che afferrai il braccialetto a forma di serpente nero, me lo infilai al polso e lo feci girare tre volte.


Il serpente di mosse come dotato di vita propria, risalendo sulla mia mano, e si attorcigliò contro il mio palmo in modo da assumere una forma simile a una croce, con la testa rivolta verso l’alto. A questo punto aprì la bocca e ne sputò fuori una lama nera, lunga novanta centimetri circa. Per farla breve, adesso tenevo in mano una spada nera dall’elsa a forma di serpente.


Neanche qui feci in tempo a chiedermi qualcosa, perché la lancia della tizia mi passò a un niente dall’orecchio, e stavolta se la evitai fu per pura e semplice botta di fortuna. Ma a quel punto, invece di spaventarmi mi arrabbiai. L’idea che quella tipa se ne stesse lì ad attentare alla mia vita mi riempì di rabbia e di un’energia strana, che non avevo mai provato prima. Prima ero stata disarmata, ma ora avevo un mezzo per fermarla, e anche se non sapevo come si usasse nessuno mi avrebbe trattenuta dal farlo.


Brandendo la spada, mi lanciai alla carica alla massima velocità che potevo raggiungere. La donna – serpente aveva intanto recuperato la sua lancia e cercò di infilzarmi con quella, ma data la lunghezza dell’arma, era molto più impacciata che non quando si trattava di tirarla. Io evitai i colpi, riuscendo ad avvicinarmi, e quando fui a un soffio dal suo torace, non fu abbastanza veloce a portare la lancia in una posizione a lei utile.


 Quando conficcai la spada nel suo stomaco, fu come se la lama l’assorbisse – sì, tipo aspirapolvere se l’immagine vi è più familiare – e nel giro di pochi secondi non ne rimase alcuna traccia.


A questo punto voi crederete che abbia avuto il tempo di farmi qualche domanda, giusto? E invece no!


La cara Chelsea, che in quel momento era stata assorta nell’utile occupazione di stare al centro della stanza e di urlare come una sirena dei pompieri, cambiò musica e strillò “Oddio, Penelope, sei impazzita? Cos’hai fatto, te ne rendi conto, è terribile! Quella povera donna …”


Povera donna? Si riferiva a quella che aveva appena cercato di uccidermi per caso? Con un notevole trambusto sulla porta si materializzarono famiglia e giornalisti, naturalmente dopo che avevo dovuto sistemare da sola la donna serpente.


“Cos’è successo qui?” gridò il mio patrigno, fulminandomi con lo sguardo a misura preventiva.


“E’ stata lei!” strillò istericamente Chelsea, indicandomi “Ha aggredito quella povera donna … ha distrutto le vetrinette … quella poverina dev’essere ferita …”


 “Ma di che ti sei fatta?!” le chiedo allibita. Va bene che mi odi, ma inventarsi queste cose solo per farmi finire nei guai è un’ipotesi semplicemente assurda.


“Basta!” urlò mia madre, gli occhi quasi fuori dalle orbite “Penelope, getta subito via quella cosa. Ci sarà da chiamare uno psichiatra, non possiamo non fare niente …” balbettò.


“Ma io non ho fatto niente, è stata quella lì che ha cercato di ammazzarmi!” ribattei io. Qualche giornalista non si fece sfuggire l’occasione di scattare foto.


“Okay” disse un tizio che brandiva un microfono, riciclatosi psichiatra per l’occasione “Stai tranquilla, nessuno di noi vuole farti del male …”


A giudicare dalla faccia, in effetti no, solo spedirmi al manicomio. E in effetti anch’io iniziavo a temere di doverci finire. Vedere una donna delle pulizie alle due code di serpente non poteva essere interpretato facilmente come un segno di sanità mentale. E se avesse avuto ragione Chelsea? Se avessi davvero aggredito un’innocente donna delle pulizie?


 No, un momento … c’era la spada che tenevo in mano. Non poteva certo essere sbucata dal nulla, e prima, ne ero sicura, era un braccialetto. Non ci capivo più niente, iniziavo ad andare nel panico.


E dev’essere stato proprio in conseguenza a questo mio andare nel panico che scappai via. Infilai la porta alla massima velocità che riuscivo a raggiungere, scansando le guardie della security invocate a gran voce da famiglia e giornalisti. Non capivo più niente, come ho già detto, e per qualche motivo scappare mi sembrava la cosa più logica. Volevo solo lasciarmi dietro tutta quella gente che mi credeva pazza, e in questi frangenti non stai lì a pensare molto.


 Fu solo quando mi ritrovai nella periferia di Los Angeles, senza soldi, senza documenti, senza niente a parte una spada nera, che mi resi conto che forse non era stata una grande mossa. Ma lo stesso, non tornai indietro.


Sapevo che dovevo andarmene di lì, spostarmi verso est. Non capivo perché ne fossi così sicura, ma lo feci lo stesso. Era come se questa sicurezza avesse preso il controllo del mio corpo, facendolo andare nella direzione desiderata, e la mente stesse lì a chiedersi perché lo stesse facendo. Anche perché quella sicurezza non sembrava preoccuparsi molto del fatto che fossi senza soldi e senza documenti, e che probabilmente non sarei potuta andare tanto lontano.


 


Ladies & Gentlemen,


ecco a voi l’ennesima delle mie storie su questo fandom. Ed esordisco dicendo che il primo capitolo non mi piace per niente, perché per via della famiglia, Penelope sembra davvero una Mary Sue. Oddio, quando l’ho creata due anni fa in effetti lo era, ma ora ho fatto un totale restyling del personaggio che spero l’abbia adeguatamente ridimensionata. La famiglia, purtroppo, non sono riuscita a cambiarla in nessun modo. Va bene, spero comunque che i prossimi capitoli riusciranno a cancellare la brutta impressione. Ora, dal momento che un delirio del genere non è il modo migliore di introdurre il primo capitolo e non ho idea di cos’altro dire, vi lascio a qualche spoiler: nel prossimo capitolo, un nuovo disgraziato scoprirà la sua identità sovrannaturale in modo non proprio tranquillo.


 

  
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