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Autore: _Frame_    26/10/2014    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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9. Lastre di ghiaccio e Girasoli

 

 

Diari di Estonia

 

In molti pensano che noi tre baltici non ci siamo mai curati gli uni degli altri. Forse in parte è vero, ma comunque non è sempre stato così. La verità rimane comunque che la nostra è pur sempre una convivenza forzata, e non un’alleanza volontaria.

All’inizio, se io, o Lettonia o Lituania, venivamo presi di mira da Russia, per un qualsiasi banale motivo dei suoi, tentavamo sempre di metterci in mezzo per aiutarci. Lettonia forse era il più restio, ma lui è sempre stato il più piccolo e fragile. Da parte sua e da parte mia, poi, è nata quell’abitudine di nasconderci dietro le spalle di Lituania. Io e Lituania comunque non siamo mai andati così d’accordo, ma questo forse è una causa di quella logorante convivenza a cui eravamo sottoposti.

Se all’inizio c’era anche stata una voglia di aiutarsi, dicevo, poi abbiamo davvero iniziato a capire che razza di persona fosse Russia. Lui era forte, era il padrone in casa sua. Noi eravamo di più, numericamente parlando, ma eravamo anche deboli e molto spaventati. Quella voglia di mettersi in mezzo per sostenerci ha iniziato a sparire pian piano. Se uno veniva bersagliato, gli altri due lasciavano semplicemente che accadesse. Russia si sfogava, la vittima restava a letto dolorante per qualche giorno, e tutto tornava normale. Le cicatrici sparivano.

Allora io, Lettonia e Lituania, abbiamo iniziato a non fidarci più gli uni degli altri. C’era sempre l’istinto di stringersi e di nascondersi, ma la cosa finiva lì. Poi la coalizione finiva. C’era solo il sospiro di sollievo per averla scampata. Era la legge della sopravvivenza, morte tua e vita mia.

La verità, forse, è che noi baltici non ci siamo mai voluti bene. Forse è per questo che ci abbandonavamo a vicenda quando uno finiva nelle fauci di Russia, o forse non ci volevamo bene proprio per questo stesso motivo. Non riesco, in ogni caso, a incolpare loro come a incolpare me stesso. Siamo nazioni piccole con storie insignificanti alle spalle, se paragonati agli altri giganti mondiali. Ma anche noi abbiamo il nostro orgoglio in quanto nazioni. Forse, se ci fossimo scelti da soli, ci saremmo fatti davvero in quattro gli uni per gli altri, ma non abbiamo mai deciso noi di diventare alleati.

E la verità è che noi tre non ci saremmo mai scelti reciprocamente. Questo lo sentivamo, e faceva rabbia. Rabbia per l’idea di aver perso il libero arbitrio come nazioni, anzi, per aver perso tutto come nazioni. Così, l’odio che provavamo per Russia, e che non potevamo manifestare, lo spartivamo tra di noi. Questo faceva ancora più male di Russia stesso.

 

.

 

I passi di Lituania facevano un sottile eco tra le pareti d’oro del palazzo del Cremlino. La porcellana ricolma di tè fumante tintinnava a ogni suo movimento, e anche il metallo del vassoio traballava. Gli occhi del ragazzo erano bassi sulle tazze in bilico, le mani lievemente unte di sudore ben salde attorno ai manici, e il passo scattante. Una ciocca di capelli gli era finita davanti a un occhio, ma lui la lasciò lì.

Lituania vide la porta della sala conferenze e rallentò. Si avvicinò piano, un passo felpato che non rintonava nel corridoio. Anche le tazze avevano smesso di traballare. Lituania fece scivolare il palmo sotto il grosso piatto d’acciaio e sollevò il braccio libero, serrando la mano a pugno. Chiuse gli occhi, inspirò a fondo. Il profumo del tè gli solleticò il naso. Con ancora il fiato che gli riempiva i polmoni, avvicinò le nocche alla porta.

“... Polonia...”

Lituania raggelò. Il pugno si fermò a un soffio dal legno, come congelato. La voce ovattata di Prussia gli aveva fermato il sangue.

Polonia?

Lituania sgranò gli occhi, l’aria ancora incastrata in gola. Il pugno alzato aveva preso a tremare, il braccio che sorreggeva il vassoio si stava abbassando, i muscoli si erano indeboliti. Lituania scosse il capo come per svegliarsi. Guardò a destra e a sinistra del corridoio. Nessuno. Prese un altro sospiro e trattenne il fiato. Tornò ad agguantare il vassoio per i manici, con entrambe le mani, e si chinò in avanti. Il vapore che fumava dal tè gli inumidì il viso. Lituania appoggiò l’orecchio sulla porta, libero dai capelli che cadevano davanti alla spalla. Chiuse gli occhi, cuore in gola, e smise di respirare.

“... in realtà lui sarebbe solo il punto di partenza.” Di nuovo Prussia. “Abbiamo già studiato l’attacco frontale per lui e per tutti i territori creati solo per soffocarci.”

“Per quando?”

“Il prima possibile, per questo West è rimasto a Berlino. Saremmo in grado di invadere anche domani, se volessimo.”

Lituania si morse un labbro. Un conato di vomito gli ribaltò lo stomaco.

No...

Il pavimento girava attorno ai suoi piedi, assieme alla sua testa assalita dalle vertigini. Divenne tutto rosso, come laccato da una colata di grosse e dense gocce di sangue.

“Ora capisco,” disse Russia.

La sua voce ovattata gli rimbombò nel cranio.

“Voi avete paura che io possa intervenire in sua difesa, vista la sua vicinanza con me.”

Le dita di Lituania si strinsero sui manici di ferro. Il metallo era diventato bollente, bagnato del suo sudore e del suo calore. La fronte e il collo erano già fradici. E il rosso gocciolava dal soffitto, laccava le pareti e si raggrumava sul pavimento.

“Che cosa dovrei aspettarmi in cambio?”

“Il controllo di metà del territorio. Inizieremo noi l’avanzata da sud-ovest e da nord, poi tu gli chiuderai la strada da est. Con questo sistema saremo in grado di raggiungere e distruggere Varsavia in meno di un mese.”

Oddio, no...

Lituania fece un passo all’indietro. Il pavimento rosso sembrò cedere sotto i suoi piedi, e lo fece traballare. Il sudore che grondava dalla pelle gli scaricò una scossa che si arrampicò fino alla nuca. Le voci dei due svanirono, inghiottite dalla porta nera che macchiava la parete scarlatta. Gli occhi di Lituania traballarono, stretti e sottili come punte di spillo. Le labbra separate, bianche e secche, non respiravano. Il cervello vorticava in una spirale. Un lungo e insistente fischio ronzò sulle pareti del cranio.

Non è per Russia, tantomeno per noi. È per Polonia. Se Germania lo invade lo uccid –

“Lituania!”

Il pavimento tornò liscio e solido, il muro smise di lacrimare. L’oro riempì il corridoio, il rosso si sciolse e svanì.

Lituania sobbalzò, facendo tremare tazze e vassoio. Una goccia di tè sbordò dalla porcellana, scivolando fino al piattino a forma di fiore. Voltò lo sguardo verso dove provenivano i suoni della corsa. Estonia lo raggiunse con il fiato in gola, gli occhiali caduti sul naso, e una coppetta di acciaio tra le mani.

“Hai dimenticato lo zu –” Estonia si bloccò di colpo. Fissò Lituania senza sistemarsi la montatura e sollevò un sopracciglio. “Tutto bene?”

“Eh?” Lituania esitò ancora, facendo tremare il vassoio. Si inumidì le labbra, ma la gola era secca, le parole incastrate. “Ehm, s-sì.”

“Sicuro? Sei bianco come un lenzuolo.”

“N-no, io solo...” Lituania guardò le tazze del tè. Mosse un passo a destra, e uno a sinistra. Si guardò le spalle e di nuovo alzò gli occhi sulla porta. “De-devo solo...”

Estonia sbatté le palpebre. L’espressione sempre più confusa.

Lituania chiuse le spalle, le braccia che sorreggevano il vassoio ebbero uno spasmo. Si morse il labbro inferiore, l’aria passava piano attraverso i denti. Lituania strizzò gli occhi. Tese le braccia e diede il vassoio in mano a Estonia.

“Reggi questo.”

“Come?” Estonia posò la zuccheriera vicino alle tazze e afferrò i manici. Sollevò un sopracciglio. Fissò il vassoio e poi Lituania. “Che cosa sta succedendo?”

“Per favore, pensaci tu. Io torno subito.” Lituania corse via dalla parte dove era arrivato Estonia.

Estonia premette il bordo del vassoio sul grembo e piroettò verso le spalle di Lituania che si allontanavano. “Aspetta, dove stai andando?”

“A... a fare...” Lituania svoltò l’angolo. La voce si alzò, ma tremava ancora. “Una telefonata.”

I passi smisero di fare eco, Lituania svanì inghiottito dal palazzo. Estonia sbatté un paio di volte le palpebre, il vapore che ondeggiava dalla superficie del tè tornò a stendere il velo di condensa sui suoi occhiali.

“Te-telefonata?” balbettò Estonia.

Rimase fermo, con il vassoio in mano, a guardare l’uscita del corridoio. Gli uomini raffigurati sulle pareti lo fissavano dall’alto, immersi nelle auree dorate. Gli occhi di pittura bassi e severi.

Estonia scosse la testa. Poggiò la spalla alla porta e abbassò la maniglia con il gomito.

“Mi scusi...”

La lama di luce dorata entrò nella stanza illuminata solo dalle lampade a parete. I due voltarono gli occhi verso la porta che si apriva. Prussia aveva un dito fermo, puntato sul tavolo, vicino ai bicchieri di vodka. Le mani di Russia erano intrecciate sotto il mento. Estonia si tenne sull’entrata, e finì di spingere la porta con un piede.

Russia abbassò le palpebre e gli sorrise. “Grazie, Estonia, stavamo giusto aspettando.”

Estonia chinò le spalle e camminò verso il tavolino. “Con permesso.” Poggiò il vassoio e fece un passo all’indietro. Gli occhi bassi, le mani raccolte sul grembo. La luce delle lampade si rifletteva sugli occhiali. “Scusi il disturbo.”

“Dov’è andato Lituania?” chiese Russia. “Mi aspettavo di vedere lui.”

“Ah, sì, Lituania è...” Estonia ruotò lo sguardo all’indietro. Rimase a bocca socchiusa, a pensare. Le dita sul grembo iniziarono a sfregarsi fra loro, le unghie graffiarono la pelle. “Lui si è, uhm, assentato.”

“Oh.”

Estonia fece un piccolo passo all’indietro. I piedi prudevano, volevano andarsene. Estonia sudava freddo.

Russia gli sorrise. Sollevò le spalle, e la sciarpa annodata toccò il labbro inferiore. “Non importa, puoi andare e – ah, Estonia!”

Estonia levò lo sguardo. Il fascio di luce scivolò giù dalle lenti.

“Sii gentile, portami quei documenti che vi ho fatto vedere l’altro giorno, e anche una penna.”

Estonia annuì e saltellò fino all’uscita. “S-sissignore.” Richiuse la porta, i cardini cigolarono, e la luce dorata venne risucchiata all’esterno.

Russia appoggiò il gomito sul bracciolo, premette la guancia tra le nocche e restò a fissare l’anta chiusa. Abbassò lievemente le palpebre, gli occhi viola brillarono nell’ombra.

 

♦♦♦

 

Le teste dei girasoli erano alte, guardavano il cielo riflettendo i raggi che facevano splendere i petali. Le ombre dei fiori si allungavano sull’erba, fino a toccare l’aiuola delle violette. Italia si avvicinò ai girasoli, fino a sfiorarne le foglie con le spalle. Alzò il braccio e carezzò un petalo con l’indice, toccandolo fino alla punta.

“Sono bellissimi.”

Lettonia si avvicinò al suo fianco. L’ombra dei fiori gli oscurava la stoffa della divisa, il rosso accesso divenne scarlatto, quasi marrone. Gli occhioni continuarono a splendere, alti verso i grandi fiori che superavano la sua testa.

“Al signor Russia piacciono molto,” disse. Tenne le mani strette sul grembo, quasi non osasse avvicinarsi ai girasoli. “Ne fa piantare di nuovi ogni anno, così diventano sempre più ampi.”

La mano di Italia scese, i polpastrelli sfregarono l’interno ruvido e scuro del fiore, passando su ogni singolo pistillo raggrumato tra i petali gialli. Il girasole era tiepido. Le mani di Italia profumarono dello stesso intenso aroma.

“Anche gli altri fiori sono molto belli,” disse Italia. Si voltò. Le scintille colorate che brillavano sulle cupole a spirale del Cremlino lo abbagliarono. Italia si portò un braccio sulla fronte per farsi ombra. “Siete davvero fortunati a vivere in un posto grande come questo.”

“Uhm, be’...” Lettonia chinò il capo. Le dita si aggrovigliarono, un piede cominciò a sfregare la caviglia dell’altra gamba. Il piccolino prese un risvolto della giacca e lo stropicciò. “Forse sarebbe anche bello, ma con il signor Russia che ci comanda non lo è così tanto.”

Italia sollevò il naso al cielo. Socchiuse gli occhi e respirò l’aria profumata, ancora più fresca di quella di Berlino.

“Russia non sembra cattivo,” disse. “È sempre così gentile e amichevole.”

“Con gli altri si comporta diversamente.” Lettonia si strinse le spalle. Le mani strofinarono le braccia e raggrinzirono la stoffa della giacca troppo grande. “Io, Estonia e Lituania, preferiremmo vivere in un posto più piccolo, o anche più brutto, piuttosto che essere sempre insieme a lui.”

Italia giunse le mani dietro la schiena. Passò una sottile folata di vento che lo fece rabbrividire. All’ombra, senza i raggi solari, l’aria era fredda.

“Vi capisco.” Italia si chinò vicino alle aiuole e passò il fianco della mano sul piccolo recinto di pietre basse e larghe. Spazzolò via una manciata di petali viola e la pelle gli rimase velata di una sottile polvere grigia. “Anche io facevo una vita simile quando ero piccolo.” Voltò il capo all’indietro e rivolse un dolce sorriso a Lettonia. “Però ora sia io che mio fratello siamo diventati indipendenti. Vedrai che capiterà anche a voi.”

Lettonia tirò un sorrisetto tremolante. Si portò una mano dietro la nuca e sfregò le ciocche bionde, scompigliandole ancora di più. Gli occhi si allontanarono da quelli di Italia. “Ho paura che non succederà tanto presto. Il signor Russia...” Piccolo sospiro. “A lui non piace rinunciare alle cose che gli appartengono.”

Gli occhi di Italia si intristirono. Sbatté le palpebre, facendo morire il sorriso. “Cose?”

“Ehi, campagnoli!”

Italia e Lettonia gettarono lo sguardo alle loro spalle. Italia barcollò, ancora in bilico sulle punte dei piedi. Prussia passò sotto l’ombra dei girasoli. Mani in tasca, mento alto, e il sottile sorriso che gli scopriva il canino. Russia passeggiava di fianco a lui. La lunga sciarpa ciondolava attorno alle sue ginocchia con entrambe le estremità.

“Avete raccolto le margheritine?” chiese Prussia.

Italia fece un salto e si rimise in piedi. Salutò Prussia a braccia larghe, distendendo il sorriso.

“Ciao, Prussia! Avete fatto la riunione? Com’è andata? Ci avete messo un sacco e pensavo che non saresti più uscito, poi ho pensato di venirti a cercare ma quel palazzo è così grande e se mi fossi perso sarebbe stato un guaio perché ho promesso a Germania che avrei badato a te e sarebbe imbarazzante se fossi stato tu a –”

“Italia si è divertito, Lettonia?” chiese Russia. Il dolce sorriso rivolto al suo sottoposto, da sotto la sciarpa annodata.

Il corpo di Lettonia si paralizzò. Il piccoletto rimase rigido a guardare le sue dita che si attorcigliavano, come sperando di trovare le parole scritte sui palmi.

“Ah, s-sì, signore. Gli ho fatto vedere il giardino e i dintorni del palazzo.”

Russia spostò il sorriso, rivolgendolo a Italia. “Spero che tu non ti sia affaticato troppo. Il Cremlino è molto grande.”

“Oh, no.” Italia scosse il capo e si avvicinò ai due. “I tuoi fiori sono davvero belli, sono felice che Lettonia me li abbia mostrati.”

“Davvero ti piacciono?”

Italia annuì. Voltò il capo, e le teste coronate dei girasoli si riflessero nei suoi occhi. “I girasoli sono i più belli di tutti.”

La fiera risata di Russia gli solleticò l’orecchio. “Lo so.”

Anche Prussia li guardò. Gli alti e grandi fiori lo mettevano in ombra, oscurandogli il viso. Prussia sollevò la punta del naso e guardò dritto negli spazi scuri e tondeggianti tra i petali. Grandi e profondi occhi neri che lo scrutavano dall’alto.

“Puoi coglierne, se vuoi,” disse Russia.

Italia sgranò gli occhi, spalancò la bocca. “Davvero posso?”

“Certo.” Russia non dovette sollevare il viso per guardare le cime dei fiori. “Tra poco appassiranno, anche se ne raccogli qualcuno non importa, morirebbero lo stesso.”

Italia batté le mani. “Che bello!” Corse con due salti vicino ai fiori e afferrò il gambo di uno di quelli più esterni. Ne prese uno bello solido, di un verde acceso, con due lunghe foglie che cadevano ai lati. “Allora ne prendo due.”

Staccò il primo fiore reggendolo con entrambe le mani. Il gambo si spezzò schioccando come un ramo secco. Italia mise il primo girasole sotto il braccio. Il gambo troncato toccò la stoffa dei pantaloni e la inumidì di linfa fresca che lacrimava dalla parte tranciata. Italia allungò le mani su un altro, ma vide la foglia raggrinzita, marrone sulla punta, e prese quello di fianco.

“Così ne porto uno a Germania e uno a Romano. Speriamo che non appassiscano durante il viaggio.” Ruppe anche il secondo fiore e lo caricò sulla spalla assieme all’altro.

Prussia si mise vicino a Italia. Inarcò le labbra verso l’alto e si indicò il petto sollevando il pollice. “E al magnifico niente?”

Italia gonfiò le guance, simulando un’espressione di rimprovero. “Ma tu li hai già visti. Germania e Romano no, invece.”

Russia fece un piccolo sorriso. Si avvicinò anche lui allo spicchio di giardino tinto di giallo, e avvolse uno dei girasoli con la mano guantata. Allungò il pollice, premette sul gambo con il polpastrello, e il fiore si spezzò. Russia mise la mano dietro la testa del girasole e lo porse a Prussia.

“Ecco, uno anche per te,” gli disse.

Prussia sollevò un sopracciglio. Prima ancora che aprisse bocca, si ritrovò con il gambo del girasole tra le mani aperte e i petali che gli sfioravano la spalla.

“Così se ti troverai in bilico sul ghiaccio, la prossima volta potrai reggerti a questo.”

Prussia estese il ghigno e storse il naso. “I fiori non tengono a galla.”

“Oh.” Russia gli avvolse le mani e gliele chiuse attorno al gambo. Avvicinò il viso a quello di Prussia, ed entrambi si ritrovarono in ombra. Solo i loro occhi splendevano. Russia sussurrò con tono grave, ma il sorriso sempre lì. “Allora speriamo che il ghiaccio non s’incrini, da?” Il fiato tiepido avvolse il collo di Prussia.

Prussia aggrottò la fronte. Un piccolo brivido gli scosse le braccia, facendogli stringere la presa attorno al gambo del girasole.

Russia raddrizzò la schiena e il sorriso tornò limpido come quello di un bambino, la pelle del viso chiara e luminosa. “Mi auguro che ti sia utile.”

“Come no.”

Prussia si caricò il girasole sulla spalla. Lo imbracciò come un fucile caricato, la testa del fiore ricadeva sulla sua schiena. “Se non ti dispiace, la mia magnifica presenza deve levare le tende.”

“L’auto che vi accompagnerà all’aeroporto è già fuori che vi aspetta. L’ho fatta chiamare da Estonia.”

“Bene.”

Prussia imboccò l’uscita del giardino a testa alta, petto gonfio, il fiore sulla spalla. Un soldato in marcia.

“Andiamo, Italia.”

Italia strinse i due girasoli sul petto. “Arrivo.” Corse di fianco a Prussia e si mise in punta di piedi per guardarlo in viso. “Com’è andata? Ce l’avete fatta? Avete firmato il trattato? Non avete litigato, vero?”

Prussia estese un sorriso di fierezza e si lasciò illuminare dai raggi del sole. “Tutto a gonfie vele.”

“Ah, che bello!”

Russia e Lettonia li seguirono con lo sguardo fino a che non furono fuori dal giardino, e le due figure sparirono dietro il cancello del Cremlino.

Russia non apriva bocca. Li osservava senza dire una parola, senza muovere un muscolo facciale. Lettonia si fece piccolo e strisciò di un passo di lato.

Non andava bene. Non andava bene per niente.

 

♦♦♦

 

I soffici capelli castani cadevano a grandi ciocche sopra la cornetta del telefono già appoggiata all’orecchio. Il suono continuo della linea in attesa lo stava mandando in paranoia. La mano di Lituania tremava insieme a tutto il braccio, e il gomito faceva fatica a rimanere alzato. L’altra mano intrecciò le dita attorno al filo arrotolato del telefono, giochicchiando con le spirali, un piede batteva a terra, colpendo il pavimento con il tallone.

Ancora la linea vuota.

Lituania sciolse la mano dal cavo, tremante e umida di sudore, e si tolse i capelli dal viso sistemandoseli dietro l’orecchio.

“Dai, ti prego, rispondi.”

Ruotò gli occhi alle sue spalle, lanciando una fulminea occhiata alla stanza. La porta era rimasta aperta, e non c’era nessuno. Lituania strinse il telefono con entrambe le mani. Un palmo serrato attorno al corpo sottile dell’apparecchio, e l’altro appoggiato dietro il rigonfiamento inferiore.

Lituania continuava a sibilare a denti stretti. “Ti prego, ti prego, ti prego...”

La linea a vuoto saltò. Prima ancora che la voce dall’altro capo si facesse sentire, Lituania scattò come se avesse ricevuto una scossa nella nuca sudata.

“Polonia!”

“Mhf, Liet... sei tipo tu?”

Lituania strinse forte la cornetta e avvicinò le labbra ai piccoli fori neri. “Polonia! Polonia, ascoltami, dove sei?”

“Uhm? Cioè, ma sei totalmente andato? Sono a casa, dove vuoi che sia?” Polonia mugugnò qualche parola strascicata e terminò con uno sbadiglio. “Perché mi hai chiamato così presto? Cioè, hai idea di che ore sono?”

“So-sono le undici e...” Lituania scosse il capo. Prese un piccolo respiro e si calmò. Tolse uno dei palmi dalla cornetta del telefono e lo strinse a pugno, appoggiandolo sul ripiano in legno. “Polonia, ascoltami, chiama immediatamente Francia e Inghilterra e di’ a tutti e due di venire da te a sorvegliare i confini.”

“Eh?! Cioè, ma perché dovrei farlo?”

“Ti stanno per aggredire.”

Ci fu silenzio. Anche la voce gracchiante e insabbiata di Polonia smise di starnazzare. Lituania rimase immobile, in attesa. Le spalle si erano chinate in avanti, e stava poggiando tutto il peso sul pugno serrato vicino al corpo del telefono. I numeri incastrati nei buchi del disco girevole si stavano sfocando.

“Liet, hai tipo fumato qualcosa?”

Lituania scosse la testa e si massaggiò la fronte con la mano che non reggeva la cornetta. “No, ascoltami, ti prego, potrebbe già essere troppo tardi. Germania sta per firmare un trattato di non aggressione con Russia.”

“Uhm? E a me cosa dovrebbe importare?”

“Lo stanno facendo per non entrare in contrasto quando dovranno invadere te. Io li ho...” Lituania prese un piccolo respiro e spostò una manata di capelli dalla fronte. “Io li ho sentiti, stanno discutendo proprio ora. Germania sarà il primo ad attaccarti e ad abbattere i confini se non fai subito qualcosa. Tu hai l’accordo con Inghilterra e Francia, chiamali e digli che...”

La risata di Polonia, sottile e ingenua come quella di una ragazzina, gli ricacciò le parole in bocca.

“Germania non può attaccarmi, Liet.”

Lituania sobbalzò, senza dire nulla.

“Io sapevo che gli hanno, tipo, tolto tutta la ferraglia e quelle robe che servono per fare la guerra, sai? E poi ci siamo visti proprio qualche mese fa per una specie di, uhm, trattato. Non lo so, non sono stato molto attento. E poi Russia non lascerebbe mai che attaccasse, ho un accordo anche con lui.”

“Ma se...”

“Liet, sono totalmente al sicuro.”

Lituania abbassò lo sguardo fino a fissarsi i piedi. Il cordone arrotolato del telefono ciondolava davanti a lui. Gli occhi vuoti, vitrei, non guardavano nulla. Nelle orecchie, l’incessante ronzio di quelle parole che aveva sentito attraverso la porta.

“Liet, ci sei?”

“S-sì, ci...” Sbatté le palpebre, come per ridestarsi. “Ci sono.”

“Ma dai, perché ti preoccupi così tanto? Ti dico che è tutto totalmente apposto.”

“Ecco...”

Perché la difesa sui tuoi confini vale quanto un esercito di fatine a cavallo di pony alati, perché se Germania ti invade ti schiaccerà senza darti tempo di accorgertene, perché se lui e Russia arrivano a Varsavia e la radono al suolo tu saresti...

Lituania si morse il labbro. “Polonia.”

Riafferrò la cornetta con entrambe le mani. Ultima occhiata alle sue spalle – la porta aperta, il corridoio deserto – e prese un respiro.

“Promettimi solo che... che starai attento, va bene?”

Piccolo sospiro dall’altro capo del telefono. “Ma che hai, oggi? Ti ho detto che va tutto bene, cioè, non sto mica morendo, no?”

“N-no.” Lituania si chiuse nelle spalle. La voce si affievolì piano.

“... saremo in grado di raggiungere e distruggere Varsavia in meno di un mese.”

Lituania smise di tremare. Si sbilanciò di lato e finì con la spalla contro il muro. Il braccio scivolò lentamente, la mano scollò la cornetta dall’orecchio e la fece passare sul collo. Lentamente, Lituania riagganciò l’apparecchio e rimase fermo sulla parete. Lo sguardo perso fissava il muro davanti a sé. Riusciva solo a pensare, a sperare, di aver sentito male.

 

.

 

Lettonia camminava dietro l’ombra di Russia. I passi echeggiavano tra le pareti d’oro, a ritmo cadente. Lettonia si faceva più piccolo a ogni passo, come per proteggersi dal ticchettio di una bomba che sta per esplodere. Tum, tum, tum, tum, tum... E il piccolo cuore batteva, gonfio di ansia e di paura.

“Estonia.”

Lettonia si sporse da dietro la schiena di Russia con un gesto timoroso. La sua ombra rimase inglobata in quella dell’altro. Estonia irrigidì la schiena, fermo vicino a una delle colonne.

“Sissignore.”

“Tu e Lettonia andate pure nelle vostre stanze,” disse Russia.

Russia continuò a guardare verso la fine del corridoio. Testa alta, spalle dritte, e mani dietro la schiena. La sciarpa ciondolava attorno alle caviglie. Estonia e Lettonia si scambiarono un’occhiata vacillante, entrambi i volti erano pallidi come lenzuola, le ginocchia tremavano. Lettonia sollevò piano gli occhi verso l’altro, a palpebre spalancate, e sollevò le sopracciglia. Lo sguardo diceva: Cos’è successo?

Estonia si pizzicò un labbro con i denti, e scrollò le spalle.

“Signore, è successo qualcosa?” disse Estonia.

Russia posò una mano sulla colonna affiancata all’angolo del corridoio. Stava già svoltando. Carezzò gli intagli a forma di ricciolo e inclinò le spalle all’indietro. Rivolse un tenero sorriso ai due sottoposti e sollevò le spalle.

“Nulla di cui preoccuparsi.” Riaprì piano le palpebre. Gli occhi viola fecero partire una scossa che raggelò entrambi. “C’è solo qualcuno che deve imparare una lezione.”

I passi di Russia svanirono. Quando il suono cessò, Lettonia balzò sul posto come se il silenzio gli avesse scoccato una frustata. Fece un passo in avanti e tese il braccio.

“Ah, Litua –”

La mano di Estonia gli prese la spalla, trattenne il piccolo. Lettonia si voltò. Occhi umidi, imploranti e affogati nel loro stesso panico, fissarono quelli di Estonia. Estonia socchiuse le palpebre e scosse piano il capo. Una piega di dolore gli segnava il viso ingrigito.

“Non possiamo farci niente,” disse Estonia.

Lettonia rabbrividì. Si voltò e si aggrappò al braccio di Estonia che ancora gli stringeva la spalla.

“Ma Lituania è... se non facciamo qualcosa lui...”

“Ormai è tardi.” Estonia allontanò lo sguardo, e un fascio di luce attraversò le lenti. “Finiremmo solo per farci picchiare a nostra volta, e anche in quel caso non saremmo d’aiuto a Lituania.”

Lettonia prese a tremare come un cucciolo spaurito abbandonato sul ciglio della strada. Lasciò sciogliere la presa dal braccio di Estonia e abbassò gli occhi sul pavimento, fissando la sua stessa immagine riflessa nelle mattonelle lucide. Una figura distorta, ondulata, che traballava come un blocco di gelatina.

Lettonia si morse un labbro. “Non è giusto,” squittì.

Estonia abbassò il capo. Le sue dita premettero sulla spalla di Lettonia. “Lo so.” La voce strozzata, come un singhiozzo soppresso. “Lo so.”

 

.

 

 

Lituania camminava a testa bassa, passo pesante, trascinato. I mille occhi delle miniature che decoravano i muri lo schiacciavano. E la testa ronzava. Un fischio continuo, senza fine.

“... solo il punto di partenza... già pronti ad attaccare...”

“Totalmente al sicuro.”

Le dita di Lituani tamburellarono sulla fronte. Le vene pulsavano.

“Varsavia raggiunta e distrutta in meno di un mese.”

“Totalmente al sicuro.”

“Distrutta.”

“Totalmente...”

“...distrutta.”

“... al sicuro...”

Lituania strinse i pugni e strizzò le palpebre. La mano scivolò giù dalla fronte, corse tra i capelli dietro la nuca e strofinò la cute. “Quello scemo.” Esalò un ultimo, sconsolato, respiro e le voci sparirono.

Ne comparve un’altra.

“Facciamo la spia, Lituania?”

I piedi di Lituania si bloccarono, come incastrati nel pavimento. Interruppe il passo di colpo, sgranando le palpebre, il sangue ghiacciato fermo nelle vene. Una prima ondata di nausea gli risalì la gola, e la testa girò come colpita da un pugno. La schiena di Lituania sprofondò in qualcosa di morbido. La stoffa della sciarpa gli toccò il collo scoperto. Il dolce e forte profumo di Russia lo avvolse come un abbraccio, i muscoli di Lituania s’indurirono come cemento. Gli occhi fermi a terra si restrinsero, e vacillarono.

Il tocco di Russia gli carezzò le braccia, si spostò sui fianchi, e si avviò lentamente verso l’alto.

“Che brutta cosa da parte tua.” La morbida voce gli parlava dietro la nuca. Il tessuto della sciarpa premuto sul collo iniziava a pizzicargli la pelle sudata. “Non dovresti voltarmi le spalle in questa maniera.”

Lituania serrò le labbra. L’immagine distorta di Russia si rifletteva sul pavimento insieme alla sua. “I-io...” Lituania deglutì. Strinse i pugni e non si mosse. Stai calmo, non può sapere, è impossibile che sappia. “Non so di cosa stia parlando, signore.”

La sottile e zuccherosa risata di Russia gli scaricò una ventata di brividi lungo la schiena. Le mani avvolte dai guanti si alzarono, e strinsero le spalle di Lituania. I forti e grandi pollici disegnarono piccoli cerchi concentrici sulle scapole di Lituania.

“Non ti conviene prenderti gioco di me più di quanto tu non abbia già fatto.”

Lituania era un blocco di ghiaccio. La testa non pensava più, il cuore non batteva. Ogni tocco di Russia, sempre più profondo, lo schiacciava come una morsa di ferro. Le braccia di Russia si serrarono lentamente, la stoffa delle maniche sfregò contro le guance di Lituania. Russia incrociò le braccia sul petto dell’altro, posandogli le mani sovrapposte proprio sotto il collo. Il viso si avvicinò al suo orecchio, il tono dolce sussurrò vicino ai capelli.

“Adesso che anche il piccolo idiota sa cosa sta per succedergli, come credi che cambierà la questione?”

Brividi gli corsero lungo il collo, attraversando tutta la spina dorsale. Lituania mandò giù un grosso e pesante boccone di saliva acre. La gola era secca e bruciò. Il corpo gelido cominciò a tremare. Dalle labbra semichiuse uscì solo un debole sibilo.

“Va bene, te lo dico io.” Russia strinse la presa. Una mano posata sul petto di Lituania si sollevò, andando a stringergli la spalla. “Non cambierà assolutamente nulla, e sai meglio di me di aver sprecato il tuo fiato.”

“I...” Una forte scossa fece tremare la schiena di Lituania. Anche le braccia di Russia erano scosse dai suoi tremiti. “Inghilterra e Francia non ci passeranno sopra.”

Che sto dicendo? Oddio, ma voglio proprio farmi uccidere?

“Interverranno prima che voi possiate anche solo avvicinarvi a Varsavia.”

Russia rise di nuovo. Una risata calda, che avvolse Lituania più dell’abbraccio.

“Sai,” Russia sollevò una mano, prese una ciocca di capelli di Lituania e li attorcigliò al suo indice, “sei proprio carino a preoccuparti degli altri, quando dovresti essere più preoccupato per te stesso.”

Le gambe di Lituania iniziarono a cedere. I muscoli, prima duri come marmo, cominciarono a sciogliersi lentamente come burro al sole. Le braccia di Russia premettero contro il suo busto e Lituania sentì la stoffa della sciarpa arrivare a toccargli la gola. Era lui a tenerlo in piedi.

“Che disastro, Lituania.” La voce di Russia divenne triste. Il pollice si sfregò sul ciuffo di capelli aggrovigliati all’indice. “Se Polonia avesse anche solo un briciolo di cervello, forse ti avrebbe dato retta e ora potrebbe addirittura salvarsi, invece state tutti e due per cacciarvi in un mare di guai.”

Lituania affondò i denti nel labbro inferiore, e il sapore del sangue lo risvegliò.

“Po-Polonia...” Tremò ancora. Gli incisivi scorsero via dalla carne del labbro. “Lui si difenderà.”

Il respiro di Russia si avvicinò al suo orecchio, gli solleticò la nuca. “Ci credi meno di me, mhm?”

Sì, maledizione.

“E cosa credi che dovrei farti, ora?”

Le dita di Russia premettero sul fianco di Lituania. Incontrarono i solchi delle ferite non ancora rimarginate e schiacciarono contro ogni singolo sfregio. Lituania strinse i denti e soffocò i rantolii in fondo alla gola. La mano di Russia risalì fino alla spalla. Strinse il muscolo ancora nero di lividi fino a raggiungere l’osso. Lituania inarcò il collo all’indietro e si lasciò scappare un gemito strozzato.

“Perché mi costringi a farti del male?” La voce si era avvilita. Triste e profonda, ma morbida come quella di un bambino.

“La tua piccola spia non avrà conseguenze.” Il corridoio divenne nero. L’ombra inglobò l’oro, inghiottì la luce e tutti i riflessi scintillanti. “Ma non posso sorvolare il fatto che tu abbia cercato di imbrogliarmi in questa maniera.”

Russia sciolse la morsa e la mano continuò salire. Lituania prese una forte boccata d’ossigeno. Le dita si chiusero leggermente verso il palmo, le nocche toccarono la guancia di Lituania e la carezzarono un paio di volte. La stoffa del guanto gli sfregò la pelle.

“Stupido sciocchino di un Lituania.” La dolce voce da bimbo gli spense il cervello.   

   
 
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